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L’ospedale covid in Fiera a Milano? “Fa ridere i polli” dice il massimo esperto al mondo di terapia intensiva

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Qualche giorno fa parlammo dell’ospedale Covid di Milano Fiera. Non ne eravamo entusiasti. E spiegammo i motivi. Provammo a mettere un po’ di ordine nelle chiacchiere di redazioni di giornaloni e telegiornaloni che in queste settimane hanno parlato di ospedale realizzato in pochi giorni. Volevamo fare chiarezza su un ospedale costato 21 milioni di euro e ad oggi più o meno inutile. Attenzione, non è un giudizio di disvalore. Inutile perchè non c’è ancora niente di tutto quello che avrebbe dovuto esserci. Ci sono una ventina di pazienti, diciamo assistiti alla men peggio.

 

Ospedale covid in Fiera di Milano, il miracolo della mitica sanità lombarda è un flop benedetto pure dalla Chiesa

L’ospedale creato (che sarà smontato) non ospiterà 600 pazienti, nemmeno 400, nemmeno 205. Dimenticate tutto quello che avete letto o visto in tv. Sono frottole, soffietti, servizietti cotti e mangiati passati per reportage di guerra sul fronte epidemia. Servivano (e servono) a distrarci da quel che accade nell’emergenza sanitaria lombarda. Roba funzionale al racconto del mitico ospedale in Fiera che dovrebbe diventare uno dei più grandi centri di terapia intensiva d’Europa. Ma sono, spiace dirlo, fake news.  E chi lo dice? Un altro giornalista? No. Lo dice Luciano Gattinoni*, uno dei massimi esperti mondiali di terapia intensiva e rianimazione. Oggi Gattinoni insegna a Gottinga, in Germania, come professore ospite. È anche professore emerito alla Statale di Milano ed è di Legnano, vicino Milano. È stato primario al Policlinico, di cui fu anche direttore scientifico.

Luciano Gattinoni. Uno dei papà dell’Anestesia e Rianimazione, tra i massimi esperti di gestione delle sale di terapia intensiva

L’ospedale Covid in  Milano Fiera? Volete sentire il giudizio di Gattinoni? “Fa ridere i polli”. Volete un altro giudizio sempre sintetico e sempre diretto del professor Gattinoni? “Che cosa ne penso dell’ospedale? Quel che pensava Fantozzi della Corazzata Potemkin. Non è una struttura sanitaria. Quella struttura non è medicina, è politica” dice Gattinoni, facendo a pezzi la struttura della mitica sanità lombarda presentata come la panacea di tutti i mali provocati dall’epidemia in Lombardia. Una regione che conta da sola quasi 12mila morti sui 22mila dell’intero Paese. Una regione dove il contagio è tutt’altro che sotto controllo. Anzi. Sotto questo profilo vi invito a leggere l’articolo che trovate sempre su Juorno di giovedì 16 aprile. Eccolo:

La Lombardia con 11mila morti vuole riaprire subito, l’intero Sud con 854 morti l’hanno chiuso per due mesi

Per Gattinoni quella struttura realizzata in fiera di Milano “non è medicina ma politica e gli spot sono pericolosi come i boomerang: rischi sempre che ti tornino tra i denti. Io tutti quei milioni di euro li avrei spesi in un altro modo”. Ma come è possibile che uno dei massimi esperti mondiali di terapia intensiva definisca in questo modo l’ospedale modello lombardo costruito in pochi giorni e strombazzato come l’arma di distruzione del coronavirus in Lombardia?
“In Regione Lombardia – spiega Gattinoni dalla Germania – c’è un Comitato tecnico-scientifico di cui, grazie a Dio, non facevo parte: chiedetelo a loro se hanno raccomandato quella struttura. La domanda è: è stato il Comitato a influenzare la politica o viceversa? Le do un titolo: quella è la Fiera della Medicina o la Fiera delle vanità?”. Giudizio pesante. Però poi arriva anche la spiegazione. “Vediamo i numeri di questo ospedale. Per una terapia intensiva serve un infermiere ogni due letti. Da accordi sindacali in Italia per averli su 24 ore servono 7 infermieri ogni due letti: per un reparto con 100 posti letto fa 350 infermieri” argomenta con la perizia dell’esperto Gattinoni. Poi passiamo ai medici. “Un medico ogni 5 letti, sei medici per 24 ore, il che significa 120 medici”. Dunque, spiega Gattinoni,  per un centro di terapia intensiva, quale che sia, ovunque esso sia, ogni cento posti letto occorrono 350 infermieri e 120 medici in servizio H 24. “Al momento dentro l’ospedale in Fiera di Milano – spiega – ci lavorano più o meno 50 tra infermieri e medici. E i medici non sono specializzati di terapia intensiva. E siccome se vuoi fare una terapia intensiva ti servono medici di terapia intensiva, l’ospedale di Milano Fiera per ora è un bel progetto politico, ben strombazzato, venduto bene in Tv (alcuni reportage rimarranno nella storia del giornalismo prono), ma non è medicina. Per un ospedale che si occupa di medicina di terapia intensiva occorrono 120 medici specializzati per 100 posti letto: non servono ortopedici, giornalisti, fisioterapisti o fruttivendoli. Servono medici di terapia intensiva bravi che devono fare training ad infermieri che si devono specializzare in terapia intensiva. Questo è quel che occorre Questo è quel che serve, sotto quegli standard possono chiamarlo come gli pare, ma non è terapia intensiva”. Insomma al professor Gattinoni si potrà dire tutto eccetto che non è chiaro nell’esporre argomenti per cui è il massimo esperto al mondo.
https://www.juorno.it/ospedale-covid-in-fiera-di-milano-il-miracolo-della-mitica-sanita-lombarda-e-un-flop-benedetto-pure-dalla-chiesa/
Ma torniamo all’ospedale in Fiera. C’è il tema dell’isolamento della struttura. C’è che una terapia intensiva deve essere interna all’ospedale. C’è che mentre curi un paziente in terapia intensiva e lo tieni in vita ti può servire un cardiologo, il laboratorio di analisi, qualunque altra cosa. Ecco, senza voler per forza sparare su questa struttura, ma l’idea stessa di realizzare una terapia intensiva separata da tutto il resto di un ospedale vero è follia. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre Strutture Complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un Ospedale (dai laboratori alla radiologia, della farmacia agli approvvigionamenti, della microbiologia all’anatomia patologica);  perché i pazienti ricoverati in terapia intensiva necessitano della continua valutazione integrata di diverse figure professionali. Ma a chi vuoi che importi tutto questo? Il progetto politico è andato in porto. I giornalisti ne hanno parlato così come convenuto. Ora chissènefrega più. Ad emergenza cessata “si smonta il palco in fretta” e tutti via “perchè anche l’ultimo degli addetti ai lavori ha qualcuno a casa che l’aspetta” avrebbe detto un grande cantautore napoletano, il più grande e rivoluzionario degli ultimi 5o anni, Eduardo Bennato.

Dice: ma pure a Napoli hanno realizzato un ospedale covid dal nulla in pochi giorni, quello non è uno spreco? Se lo è lo accerteremo e lo spiegheremo. Certo l’hanno realizzato (ed integrato) ad un complesso ospedaliero che è stato aperto da poco, l’ospedale del Mare. Dunque non è isolato in una Fiera. E poi la Campania aveva ed ha un numero di posti di terapia intensiva vergognosamente molto sotto le reali necessità di una regione che conta 5,8 milioni di residenti.  Al momento a Napoli ci sono 154 posti di terapia intensiva che entro fine aprile dovrebbero diventare 226. Il Salernitano dispone di 113 letti di terapia intensiva. Qui entro fine aprile ce ne saranno altri 24; Caserta oggi utilizza 33 posti di terapia intensiva e a fine aprile ne avrà 57 grazie agli altri 24 in costruzione; Avellino resta sui 45 posti mentre Benevento ne ha solo dodici.

  • Il professor Luciano Gattinoni è nato il 12 gennaio 1945. Ha ottenuto la ‘maturità classica’ presso il Liceo Carducci di Milano nel 1963 e si è laureato in Medicina nel 1969 presso l’Università di Milano. Sempre a Milano si è specializzato in Anestesia e Rianimazione nel 1974 e nel 1980 in Igiene. È considerato il papà della posizione prona nel distrusse respiratorio.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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