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Lo zar Putin e il sogno della nuova Grande Russia

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– E’ il 9 novembre 1989, il giorno della caduta del Muro di Berlino. Dalla sede di Dresda del Kgb sovietico, circondato da una folla ostile, il tenente colonnello Vladimir Putin chiama Mosca per chiedere istruzioni. Ma nessuno risponde. Il potere dell’Unione Sovietica, e della Russia, sembra essersi dissolto, come conferma due anni dopo l’abdicazione dell’Urss. La missione che Putin si darà come presidente sarà quella di ricostruire la potenza e il prestigio del Paese. Questa è la linea che ha mantenuto fino ad oggi che viene rieletto per un quinto mandato. “Il comunismo è un vicolo cieco”, disse una volta Putin.

Ma intanto esprime ammirazione per i leader sovietici che hanno contribuito alla gloria della Russia, così come per Alessandro Nevsky, per gli antichi zar, per Tolstoj, Chaikovsky. Ma il presidente attinge anche alla religione. Fondamentale in questo senso il ruolo di quello che è considerato la sua guida spirituale, il monaco Tikhon di Pskov. Ultimo di tre figli, Putin è nato nel 1952 a Leningrado (il nome sovietico di San Pietroburgo). Il padre Vladimir, arruolato in Marina, fu gravemente ferito combattendo contro i nazisti. Un fratello, Viktor, morì di fame a due anni nel lungo assedio tedesco alla città baltica. Grande appassionato di arti marziali, dopo essersi laureato in Legge (più avanti ha conseguito anche un dottorato in Economia), nel 1975 entra nel Kgb.

Dal 1985 al 1990 è assegnato alla sede di Dresda, nella Germania Est, dalla quale rientra dopo la caduta del Muro, per cominciare la sua carriera politica a Leningrado sotto la guida del sindaco Anatoly Sobchak. Nel 1996 Putin sbarca a Mosca, quando il presidente Boris Eltsin lo nomina vice capo del suo staff. Nel 1998 è capo dell’Fsb, il servizio di intelligence interna. Un anno dopo Eltsin, piegato da problemi di salute e dall’alcolismo, lo nomina premier indicandolo come suo successore. Il primo gennaio del 2000 Putin diventa presidente ad interim e in marzo è confermato alle urne: inizia il suo lungo regno. Da allora ha servito come presidente in due mandati quadriennali dal 2000 al 2008, come primo ministro dal 2008 al 2012 – durante la presidenza di Dmitry Medvedev – e poi ancora come presidente per altri due mandati, allungati a sei anni ciascuno con una riforma della Costituzione. Un’altra riforma del 2020 gli ha permesso ora di essere rieletto, annullando il limite di due mandati consecutivi. Tra i primi atti da presidente vi fu l’immunità concessa agli oligarchi che nel Far West degli anni ’90 si erano arricchiti a dismisura con metodi discutibili. La condizione posta loro fu che non si occupassero di politica.

L’unico a ribellarsi, Mikhail Khodorkovsky, fu arrestato e passò otto anni in carcere prima di prendere la via dell’esilio. Sugli anni della presidenza Putin pesa l’ombra di alcuni delitti eccellenti, quali l’uccisione della giornalista Anna Politkovskaya e dell’ex vice primo ministro Boris Nemtsov. E ancora la morte per avvelenamento da polonio a Londra dell’agente del Kgb e dell’Fsb Alexander Litvinenko. E ora del decesso in detenzione del suo principale oppositore, Alexei Navalny. Putin è riuscito, grazie anche agli alti prezzi di petrolio e gas, a risanare l’economia e a ricostruire un sistema di assistenza sociale che era stato distrutto dalle politiche ultraliberiste degli anni di Eltsin. E questo è uno degli elementi che possono spiegare gli altissimi livelli di consenso di cui continua a godere. Ma i critici gli rimproverano, tra le altre cose, di non essere riuscito ad avviare un vero sviluppo industriale. Gli anni di Putin al potere sono stati segnati da un graduale ritorno al gelo con l’Occidente, con il risveglio delle antiche doglianze della Russia – espresse in passato anche da grandi intellettuali come Dostoevskj – di non essere accolta alla pari nel consesso dei Paesi occidentali. Mosca si è scagliata in particolare contro l’espansione fino ai suoi confini della Nato.

In un discorso spartiacque pronunciato in tedesco alla conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, lo zar denuncia la ricerca del dominio globale da parte degli Usa. E alle parole fa seguire i fatti. Dapprima con una guerra di cinque giorni nel 2008 contro la Georgia a difesa delle repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. E sei anni più tardi con l’annessione della Crimea e l’appoggio ai territori separatisti ucraini nel Donbass in seguito alla rimozione dal potere a Kiev del presidente filorusso Viktor Yanukovich. Infine, dopo l’intervento in Siria a favore del dittatore Bashar al Assad e il ritorno da protagonista di Mosca nel Mediterraneo, con l’invasione dell’Ucraina cominciata nel febbraio del 2022, accompagnata a un’ulteriore stretta repressiva contro le voci critiche.

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Putin toglie un nodo dal tavolo, ‘liberato il Kursk’

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Mosca ha affermato di avere completamente liberato la regione di Kursk, uno sviluppo che potrebbe rimuovere uno degli ostacoli all’apertura di trattative con l’Ucraina. L’esercito di Kiev ha smentito la notizia, ma le sue forze controllavano ormai solo alcune sacche di territorio vicino alla frontiera che avevano oltrepassato nell’agosto dell’anno scorso. “L’avventura di Kiev è completamente fallita”, ha annunciato il presidente russo Vladimir Putin, dopo avere ricevuto un rapporto dal capo di stato maggiore, Valery Gerasimov, che lo informava della riconquista dell’ultimo villaggio in mano agli ucraini, quello di Gornal. In un videocollegamento con il capo del Cremlino, trasmesso dalla televisione di Stato, Gerasimov ha anche ammesso per la prima volta l’intervento di soldati nordcoreani nei combattimenti, affermando che si sono comportati con “eroismo, alta professionalità, resistenza e coraggio”.

La Corea del Nord e la Russia avevano firmato nel giugno del 2024 un accordo di partenariato strategico che prevede assistenza militare reciproca in caso di aggressione a uno dei due Paesi, ma finora non avevano confermato ufficialmente il dispiegamento di soldati nordcoreani nel Kursk. L’esercito ucraino ha smentito l’annuncio russo definendolo una “manovra di propaganda” e affermando che le truppe di Kiev continuano a combattere nel Kursk, anche se ha ammesso che la situazione è “difficile”. Nella loro incursione le truppe ucraine erano arrivate ad occupare non più di alcune centinaia di chilometri quadrati in una regione che ne conta 30.000. Ma l’attacco aveva comunque rappresentato la prima occupazione di territorio russo da parte di forze nemiche a partire dalla Seconda guerra mondiale, e Putin aveva fatto capire che non avrebbe accettato trattative con Kiev fino a che le sue truppe non fossero state respinte oltre confine. Ora il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha detto che nel suo incontro di ieri al Cremlino con l’inviato speciale americano Steve Witkoff, Putin ha assicurato che è “pronto a riprendere il processo negoziale con l’Ucraina senza precondizioni”. Ma è ormai da tempo che il presidente fa dichiarazioni del genere, senza che si vedano aperture concrete da parte di Mosca. E anche il portavoce lo ha sottolineato, dicendo che “Putin lo ha affermato ripetutamente”.

L’espulsione delle truppe ucraine dal Kursk – a cui secondo Gerasimov si è accompagnata l’eliminazione di “squadre di sabotatori” che si erano infiltrate nella vicina regione di Belgorod – potrebbe anzi mettere Mosca nella posizione di dare il via a nuove offensive. Putin ha affermato che nell’operazione di Kursk gli ucraini hanno subito “perdite tremende” tra le loro truppe scelte, e quindi “la rotta completa” che hanno subito “crea le condizioni per ulteriori operazioni di successo delle truppe russe in altre aree del fronte”. Come prima mossa, ha annunciato il generale Gerasimov, le forze di Mosca cercheranno di avanzare nella regione ucraina confinante di Sumy “per creare una zona di sicurezza lungo il confine” già auspicata da Putin. Secondo il capo di stato maggiore, già quattro insediamenti sono stati conquistati dai russi, che ora avrebbero il controllo di “un’area di 90 chilometri quadrati”.

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Hamas offre ostaggi in cambio di 5 anni di tregua

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Hamas mette sul piatto dei negoziati una nuova proposta: la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle sue mani in cambio del ritiro dell’Idf e di un cessate il fuoco della durata di 5 anni. Ma le notizie che arrivano dal Cairo, dove è arrivata una delegazione del movimento integralista palestinese per discutere con i mediatori egiziani, non fermano raid e combattimenti, con un bilancio che nelle ultime 24 ore è costato la vita a quasi 50 palestinesi e alcuni soldati israeliani. Un funzionario di Hamas, che ha chiesto l’anonimato, ha detto all’Afp che il gruppo “è pronto a uno scambio di prigionieri in un’unica soluzione e a una tregua di cinque anni”.

La proposta arriva dopo il no all’offerta di Tel Aviv, 45 giorni di tregua e 10 ostaggi liberati, motivata dal fatto che Hamas punta alla fine della guerra, e al ritiro di Israele dalla Striscia, e non vuole “accordi parziali” con il governo di Benyamin Netanyahu. Altri responsabili di Hamas, sempre in forma anonima, hanno sottolineato a diversi media arabi anche la disponibilità a “lasciare il governo della Striscia all’Autorità nazionale palestinese, oppure a un comitato di tecnocrati indipendenti scelti dall’Egitto”.

E, pur rifiutando di abbandonare le armi, a “far uscire da Gaza combattenti in cambio della loro incolumità”. Tesi e proposte a cui si è aggiunta la pubblicazione di un video che mostrerebbe i miliziani delle brigate Qassam che scavano sotto le macerie di un tunnel bombardato dall’Idf, per trarre in salvo con successo un ostaggio israeliano. Da Tel Aviv per il momento non arrivano commenti, ma a quanto si apprende il capo del Mossad David Barnea sarebbe arrivato già giovedì in Qatar per incontrare il premier Mohammed bin Abdulrahman al-Thani e discutere nuovamente di una base di accordo per il rilascio degli ostaggi. Fonti militari citate dai media hanno però ammonito che l’esercito si prepara a “incrementare la pressione e stringere il cappio su Hamas”.

A Gaza intanto il bilancio dell’ultima giornata di raid è di almeno 49 morti, afferma il ministero della Salute mentre i soccorritori “scavano ancora sotto le macerie”.

Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha detto che nei combattimenti di terra “il prezzo è alto”, dopo l’uccisione nelle ultime ore di un riservista e il ferimento di altri quattro soldati in un attacco con esplosivi e armi automatiche. Nel nord di Israele sono invece risuonate le sirene per il lancio di un “missile ipersonico” rivendicato dagli Houthi che aveva come obiettivo Haifa. E’ la prima volta che i ribelli yemeniti tentano di colpire così lontano, il missile è stato intercettato e distrutto.

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Trump e Zelensky si parlano, prove di pace a San Pietro

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I primi spiragli per la pace in Ucraina, tanto invocati da papa Francesco, potrebbero essersi aperti proprio nel giorno dell’ultimo saluto al pontefice, a San Pietro. Donald Trump e Volodymyr Zelensky, due mesi dopo il burrascoso incontro allo studio ovale, si sono ritrovati faccia a faccia tra le navate della basilica, poco prima dell’inizio dei funerali di Bergoglio: un colloquio di 15 minuti, definito “costruttivo” da entrambe le parti, immortalato da una foto che ha fatto il giro del mondo. In Vaticano il leader ucraino è stato protagonista di un altro scatto simbolico, insieme a Trump, Emmanuel Macron e Keir Starmer, poi ha incontrato anche Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen, per provare a ricompattare l’alleanza transatlantica al fianco di Kiev. E qualcosa sembra effettivamente muoversi.

Gli ucraini sul piatto hanno messo una controproposta al piano della Casa Bianca, per ottenere garanzie di sicurezza a guerra finita, ricevendo delle aperture da Washington. Quanto alla Russia, il Cremlino ha annunciato di aver ripreso il completo controllo della regione di Kursk, ed alla luce di questa svolta si è detto pronto a riprendere i colloqui con gli ucraini “senza precondizioni”. I capi di stato e di governo arrivati a Roma per i funerali del Papa, pur nel rispetto della solennità dell’evento, hanno avuto l’occasione per brevi scambi di vedute su alcune delle principali crisi ancora aperte.

Zelensky, dopo aver messo in forse fino all’ultimo la sua presenza, è riuscito a raggiungere la capitale per onorare il pontefice e per ritrovare i partner occidentali, soprattutto Trump. L’immagine è quella di due leader seduti uno di fronte all’altro, vicinissimi, che discutono animatamente con espressione seria. Al termine, entrambe le parti si sono dette comunque soddisfatte. “Molto produttivo”, è stato il commento della Casa Bianca. “Un incontro simbolico che potrebbe diventare storico se si raggiungessero i risultati sui punti discussi”, ha sottolineato Zelensky. Se non altro, c’è stato un riavvicinamento dopo quel drammatico 28 febbraio, quando il presidente ucraino era stato cacciato dalla Casa Bianca.

Rispetto ai nodi sul tavolo il New York Times ha fatto filtrare la posizione ucraina, che punta a mitigare la proposta americana, considerata troppo favorevole a Mosca. Kiev in particolare chiede di non limitare le dimensioni del proprio esercito e che in territorio ucraino venga schierato un contingente di sicurezza europeo sostenuto dagli Usa, per scoraggiare future aggressioni russe. In quest’ottica l’adesione a breve alla Nato non sembra più una priorità: lo stesso Zelensky ha ammesso che in questa fase bisogna essere “pragmatici”.

E la risposta di Washington sulle garanzie di sicurezza sarebbe stata positiva. Sempre secondo fonti giornalistiche, gli Usa si sono offerti di fornire intelligence e supporto logistico ad un contingente europeo di peacekeeper. Andando incontro alle richieste di Londra e Parigi, che di questa missione militare sarebbero capofila nell’ambito della coalizione dei volenterosi.

Riguardo alla Russia, invece, Trump ha inviato segnali contrastanti. Da una parte ha accolto con favore gli esiti dell’ultimo incontro a Mosca tra Steve Witkoff e Vladimir Putin, sostenendo che l’accordo tra le due parti in conflitto sarebbe ad un passo. Poi però ha insinuato che Putin lo stia “prendendo in giro”, tergiversando sulla tregua, ed è tornato a minacciarlo di nuove sanzioni. A complicare le cose c’è anche la questione dei territori. Perché gli americani sarebbero disposti a lasciare tutto alla Russia, dalla Crimea alle altre quattro regioni ucraine occupate.

Mentre Kiev, almeno sulla carta, non è disposta a concessioni. Zelensky, prima di qualunque negoziato, chiede innanzitutto un cessate il fuoco completo. E su questo punto ha ottenuto la sponda degli alleati europei nei colloqui a Roma a margine dei funerali del Papa. “Mosca dimostri concretamente che vuole la pace”, sono state le parole della premier Meloni dopo l’incontro con il leader ucraino.

“Ora tocca al presidente Putin”, le ha fatto eco il presidente francese Macron, riferendo che è stato avviato “un lavoro di convergenza” tra i volenterosi, Kiev e Washington per arrivare ad “una tregua solida”. L’Ue, infine, ha ribadito il “sostegno” all’Ucraina “al tavolo delle trattative”, ha assicurato a Kiev la presidente della Commissione von der Leyen.

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