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Jabarin, il Ceo di Hamas che ha finanziato la carneficina del 7 ottobre in Israele

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Quando Zaher Jabarin gestiva una cellula di Hamas negli anni ’80, scriveva graffiti contro Israele e prendeva in prestito denaro a sua madre per comprare armi. Ora supervisiona un impero finanziario che, secondo le stime degli Stati Uniti, vale centinaia di milioni di dollari e finanzia le operazioni di Hamas contro Israele. A scriverlo è il Wall Street Journal, che cita funzionari statunitensi e israeliani secondo cui il 55enne gestisce le relazioni finanziarie di Hamas con il suo principale benefattore, l’Iran, e il modo in cui Teheran invia denaro alla Striscia di Gaza. E’ una figura chiave quella di Jabarin, che si occupa di un portafoglio di aziende che forniscono entrate annuali a Hamas e controlla una rete di donatori privati e uomini d’affari che investono per il gruppo islamico.

Tanto che – scrive Wsj – funzionari della sicurezza statunitensi e israeliani ritengono che lui abbia permesso ai miliziani di comprare armi e pagare i combattenti per organizzare gli attacchi del 7 ottobre. “Jabarin ha svolto un ruolo enorme perché gestisce tutte le finanze di Hamas al di fuori di Gaza”, ha detto Uzi Shaya, ex funzionario della sicurezza israeliano che lo ha definito “l’amministratore delegato di Hamas”. Jabarin era anche vicino a Saleh al-Arouri, il numero due di Hamas ucciso martedì in un’esplosione a Beirut. I due hanno contribuito infatti a fondare l’ala militare di Hamas in Cisgiordania ed erano entrambi considerati vicini all’Iran. Nato nel 1968, Jabarin è cresciuto a Salfit, cittadina nel nord della West Bank. Da adolescente, era a capo di una banda che si unì alla prima Intifada, ed è bastato poco per passare dai graffiti alla violenza. Arrestato per l’uccisione di un soldato israeliano, Jabarin è stato condannato all’ergastolo. In prigione, ha imparato l’ebraico, ha studiato per la laurea e ha scritto un libro.

Nel frattempo, Hamas cresceva da movimento marginale alla fazione più popolare a Gaza, fino a strappare il controllo della Striscia all’Autorità Palestinese. Come Yahya Sinwar, Jabarin è stato rilasciato nel 2011 come parte di un accordo di scambio di prigionieri. E mentre Sinwar ha scalato i ranghi di Hamas a Gaza, Jabarin si è fatto strada fuori dai territori palestinesi, prendendo in mano una rete di società che fornivano entrate al gruppo e venivano utilizzate per riciclare denaro, inizialmente nella città saudita di Jeddah e poi in Turchia. A Istanbul, Jabarin gestisce l’ufficio finanziario di Hamas dopo aver costruito rapporti con persone vicine al presidente Recep Tayyip Erdogan che, secondo i funzionari della sicurezza israeliani, hanno aiutato il gruppo a procurarsi armi e finanziamenti.

Israele teme che anche se distruggesse l’esercito di Hamas a Gaza, l’impero finanziario del gruppo rimarrà. E di fronte a una figura come Jabarin il timore è concreto: per anni, il ‘ceo di Hamas’ ha utilizzato i sistemi finanziari in Arabia Saudita, Libano, Emirati Arabi Uniti, Sudan e Turchia per fondare società e trasferire denaro a Gaza. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro di lui nel 2019, ma l’uomo d’affari resta il capo finanziario non ufficiale del gruppo palestinese. E non solo: secondo funzionari egiziani, all’interno di Hamas Jabarin è anche responsabile dei prigionieri, e con Sinwar ha negoziato l’accordo mediato da Qatar ed Egitto per il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio dei prigionieri palestinesi. Responsabilità che lo rendono una figura chiave del gruppo palestinese: “Non si prende in mano questo portafoglio finanziario come un principiante o come qualcuno di medio livello”, ha commentato Matthew Levitt, ex funzionario del Tesoro Usa ora membro del Washington Institute for Near East Policy. “Questa è una posizione di seria fiducia e autorità”.

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Putin toglie un nodo dal tavolo, ‘liberato il Kursk’

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Mosca ha affermato di avere completamente liberato la regione di Kursk, uno sviluppo che potrebbe rimuovere uno degli ostacoli all’apertura di trattative con l’Ucraina. L’esercito di Kiev ha smentito la notizia, ma le sue forze controllavano ormai solo alcune sacche di territorio vicino alla frontiera che avevano oltrepassato nell’agosto dell’anno scorso. “L’avventura di Kiev è completamente fallita”, ha annunciato il presidente russo Vladimir Putin, dopo avere ricevuto un rapporto dal capo di stato maggiore, Valery Gerasimov, che lo informava della riconquista dell’ultimo villaggio in mano agli ucraini, quello di Gornal. In un videocollegamento con il capo del Cremlino, trasmesso dalla televisione di Stato, Gerasimov ha anche ammesso per la prima volta l’intervento di soldati nordcoreani nei combattimenti, affermando che si sono comportati con “eroismo, alta professionalità, resistenza e coraggio”.

La Corea del Nord e la Russia avevano firmato nel giugno del 2024 un accordo di partenariato strategico che prevede assistenza militare reciproca in caso di aggressione a uno dei due Paesi, ma finora non avevano confermato ufficialmente il dispiegamento di soldati nordcoreani nel Kursk. L’esercito ucraino ha smentito l’annuncio russo definendolo una “manovra di propaganda” e affermando che le truppe di Kiev continuano a combattere nel Kursk, anche se ha ammesso che la situazione è “difficile”. Nella loro incursione le truppe ucraine erano arrivate ad occupare non più di alcune centinaia di chilometri quadrati in una regione che ne conta 30.000. Ma l’attacco aveva comunque rappresentato la prima occupazione di territorio russo da parte di forze nemiche a partire dalla Seconda guerra mondiale, e Putin aveva fatto capire che non avrebbe accettato trattative con Kiev fino a che le sue truppe non fossero state respinte oltre confine. Ora il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha detto che nel suo incontro di ieri al Cremlino con l’inviato speciale americano Steve Witkoff, Putin ha assicurato che è “pronto a riprendere il processo negoziale con l’Ucraina senza precondizioni”. Ma è ormai da tempo che il presidente fa dichiarazioni del genere, senza che si vedano aperture concrete da parte di Mosca. E anche il portavoce lo ha sottolineato, dicendo che “Putin lo ha affermato ripetutamente”.

L’espulsione delle truppe ucraine dal Kursk – a cui secondo Gerasimov si è accompagnata l’eliminazione di “squadre di sabotatori” che si erano infiltrate nella vicina regione di Belgorod – potrebbe anzi mettere Mosca nella posizione di dare il via a nuove offensive. Putin ha affermato che nell’operazione di Kursk gli ucraini hanno subito “perdite tremende” tra le loro truppe scelte, e quindi “la rotta completa” che hanno subito “crea le condizioni per ulteriori operazioni di successo delle truppe russe in altre aree del fronte”. Come prima mossa, ha annunciato il generale Gerasimov, le forze di Mosca cercheranno di avanzare nella regione ucraina confinante di Sumy “per creare una zona di sicurezza lungo il confine” già auspicata da Putin. Secondo il capo di stato maggiore, già quattro insediamenti sono stati conquistati dai russi, che ora avrebbero il controllo di “un’area di 90 chilometri quadrati”.

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Hamas offre ostaggi in cambio di 5 anni di tregua

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Hamas mette sul piatto dei negoziati una nuova proposta: la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle sue mani in cambio del ritiro dell’Idf e di un cessate il fuoco della durata di 5 anni. Ma le notizie che arrivano dal Cairo, dove è arrivata una delegazione del movimento integralista palestinese per discutere con i mediatori egiziani, non fermano raid e combattimenti, con un bilancio che nelle ultime 24 ore è costato la vita a quasi 50 palestinesi e alcuni soldati israeliani. Un funzionario di Hamas, che ha chiesto l’anonimato, ha detto all’Afp che il gruppo “è pronto a uno scambio di prigionieri in un’unica soluzione e a una tregua di cinque anni”.

La proposta arriva dopo il no all’offerta di Tel Aviv, 45 giorni di tregua e 10 ostaggi liberati, motivata dal fatto che Hamas punta alla fine della guerra, e al ritiro di Israele dalla Striscia, e non vuole “accordi parziali” con il governo di Benyamin Netanyahu. Altri responsabili di Hamas, sempre in forma anonima, hanno sottolineato a diversi media arabi anche la disponibilità a “lasciare il governo della Striscia all’Autorità nazionale palestinese, oppure a un comitato di tecnocrati indipendenti scelti dall’Egitto”.

E, pur rifiutando di abbandonare le armi, a “far uscire da Gaza combattenti in cambio della loro incolumità”. Tesi e proposte a cui si è aggiunta la pubblicazione di un video che mostrerebbe i miliziani delle brigate Qassam che scavano sotto le macerie di un tunnel bombardato dall’Idf, per trarre in salvo con successo un ostaggio israeliano. Da Tel Aviv per il momento non arrivano commenti, ma a quanto si apprende il capo del Mossad David Barnea sarebbe arrivato già giovedì in Qatar per incontrare il premier Mohammed bin Abdulrahman al-Thani e discutere nuovamente di una base di accordo per il rilascio degli ostaggi. Fonti militari citate dai media hanno però ammonito che l’esercito si prepara a “incrementare la pressione e stringere il cappio su Hamas”.

A Gaza intanto il bilancio dell’ultima giornata di raid è di almeno 49 morti, afferma il ministero della Salute mentre i soccorritori “scavano ancora sotto le macerie”.

Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha detto che nei combattimenti di terra “il prezzo è alto”, dopo l’uccisione nelle ultime ore di un riservista e il ferimento di altri quattro soldati in un attacco con esplosivi e armi automatiche. Nel nord di Israele sono invece risuonate le sirene per il lancio di un “missile ipersonico” rivendicato dagli Houthi che aveva come obiettivo Haifa. E’ la prima volta che i ribelli yemeniti tentano di colpire così lontano, il missile è stato intercettato e distrutto.

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Trump e Zelensky si parlano, prove di pace a San Pietro

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I primi spiragli per la pace in Ucraina, tanto invocati da papa Francesco, potrebbero essersi aperti proprio nel giorno dell’ultimo saluto al pontefice, a San Pietro. Donald Trump e Volodymyr Zelensky, due mesi dopo il burrascoso incontro allo studio ovale, si sono ritrovati faccia a faccia tra le navate della basilica, poco prima dell’inizio dei funerali di Bergoglio: un colloquio di 15 minuti, definito “costruttivo” da entrambe le parti, immortalato da una foto che ha fatto il giro del mondo. In Vaticano il leader ucraino è stato protagonista di un altro scatto simbolico, insieme a Trump, Emmanuel Macron e Keir Starmer, poi ha incontrato anche Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen, per provare a ricompattare l’alleanza transatlantica al fianco di Kiev. E qualcosa sembra effettivamente muoversi.

Gli ucraini sul piatto hanno messo una controproposta al piano della Casa Bianca, per ottenere garanzie di sicurezza a guerra finita, ricevendo delle aperture da Washington. Quanto alla Russia, il Cremlino ha annunciato di aver ripreso il completo controllo della regione di Kursk, ed alla luce di questa svolta si è detto pronto a riprendere i colloqui con gli ucraini “senza precondizioni”. I capi di stato e di governo arrivati a Roma per i funerali del Papa, pur nel rispetto della solennità dell’evento, hanno avuto l’occasione per brevi scambi di vedute su alcune delle principali crisi ancora aperte.

Zelensky, dopo aver messo in forse fino all’ultimo la sua presenza, è riuscito a raggiungere la capitale per onorare il pontefice e per ritrovare i partner occidentali, soprattutto Trump. L’immagine è quella di due leader seduti uno di fronte all’altro, vicinissimi, che discutono animatamente con espressione seria. Al termine, entrambe le parti si sono dette comunque soddisfatte. “Molto produttivo”, è stato il commento della Casa Bianca. “Un incontro simbolico che potrebbe diventare storico se si raggiungessero i risultati sui punti discussi”, ha sottolineato Zelensky. Se non altro, c’è stato un riavvicinamento dopo quel drammatico 28 febbraio, quando il presidente ucraino era stato cacciato dalla Casa Bianca.

Rispetto ai nodi sul tavolo il New York Times ha fatto filtrare la posizione ucraina, che punta a mitigare la proposta americana, considerata troppo favorevole a Mosca. Kiev in particolare chiede di non limitare le dimensioni del proprio esercito e che in territorio ucraino venga schierato un contingente di sicurezza europeo sostenuto dagli Usa, per scoraggiare future aggressioni russe. In quest’ottica l’adesione a breve alla Nato non sembra più una priorità: lo stesso Zelensky ha ammesso che in questa fase bisogna essere “pragmatici”.

E la risposta di Washington sulle garanzie di sicurezza sarebbe stata positiva. Sempre secondo fonti giornalistiche, gli Usa si sono offerti di fornire intelligence e supporto logistico ad un contingente europeo di peacekeeper. Andando incontro alle richieste di Londra e Parigi, che di questa missione militare sarebbero capofila nell’ambito della coalizione dei volenterosi.

Riguardo alla Russia, invece, Trump ha inviato segnali contrastanti. Da una parte ha accolto con favore gli esiti dell’ultimo incontro a Mosca tra Steve Witkoff e Vladimir Putin, sostenendo che l’accordo tra le due parti in conflitto sarebbe ad un passo. Poi però ha insinuato che Putin lo stia “prendendo in giro”, tergiversando sulla tregua, ed è tornato a minacciarlo di nuove sanzioni. A complicare le cose c’è anche la questione dei territori. Perché gli americani sarebbero disposti a lasciare tutto alla Russia, dalla Crimea alle altre quattro regioni ucraine occupate.

Mentre Kiev, almeno sulla carta, non è disposta a concessioni. Zelensky, prima di qualunque negoziato, chiede innanzitutto un cessate il fuoco completo. E su questo punto ha ottenuto la sponda degli alleati europei nei colloqui a Roma a margine dei funerali del Papa. “Mosca dimostri concretamente che vuole la pace”, sono state le parole della premier Meloni dopo l’incontro con il leader ucraino.

“Ora tocca al presidente Putin”, le ha fatto eco il presidente francese Macron, riferendo che è stato avviato “un lavoro di convergenza” tra i volenterosi, Kiev e Washington per arrivare ad “una tregua solida”. L’Ue, infine, ha ribadito il “sostegno” all’Ucraina “al tavolo delle trattative”, ha assicurato a Kiev la presidente della Commissione von der Leyen.

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