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In video veritas, le verità mediatiche

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Quello che leggerete di seguito è un contributo sul rapporto tra verità e rappresentazione mediatica della realtà scritto dal giudice della Corte di Appello di Napoli Nicola Russo*. È un articolo che è datato maggio 2006, dunque fu scritto quasi 15 anni fa. Eppure a leggerlo sembra di stringente attualità. Nicola Russo è vittima da qualche anno di un caso di omonimia diventato una persecuzione. C’è un magistrato del Consiglio di Stato, che si chiama Nicola Russo, come lui, condannato nel settembre 2020, in primo grado, a 11 anni di reclusione per una presunta compravendita di sentenze. Ebbene per una decina di volta la foto di Nicola Russo, giudice della Corte di Appello di Napoli, è stata sbattuta in prima pagina su giornali o  Tv o siti web, associandola alle vicissitudini giudiziarie del giudice del Consiglio di Stato imputato in un processo peraltro ancora in itinere. 

Nicola Russo. Giudice di Corte di Appello a Napoli

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“L’hanno detto alla TV”. Un tempo si era soliti far ricorso a tale espressione quando si voleva garantire che un accadimento oggetto di comunicazione si fosse effettivamente verificato. In altri termini, la rappresentazione mediatica assumeva una funzione certificativa e quasi fidefaciente della realtà fenomenica.

Il rapporto tra fatto e notizia si poneva in chiari termini di successione temporale. La notizia era necessariamente un post factum, essendo inconcepibile che ad essa potesse attribuirsi una qualche funzione creativa. Ciò non vuol dire che non vi fossero situazioni in cui il commento della notizia desse l’avvio a nuove evoluzioni della vicenda, provocando reazioni e, quindi, producendo ulteriori sintagmi del fatto.

Tuttavia si partiva pur sempre da un consistente nucleo fattuale preesistente ed era chiaro che la funzione della comunicazione rimaneva di natura servente, in quanto il suo oggetto era comunque il fatto.

Dunque la notizia diveniva occasione di approfondimento della vicenda che, in questo modo, veniva ulteriormente disvelata nei suoi particolari, nelle ragioni che l’avevano generata.

Era l’epoca delle inchieste giornalistiche, in cui il metodo del cronista si caratterizzava, appunto, per la sua similarità a quello dell’indagatore, con la conseguenza che l’esito della ricerca – condotta peraltro senza le “strettoie” e gli “ostacoli” della procedura – riusciva talora a fornire una ricostruzione della realtà contigua o addirittura coincidente con la verità.

In sintesi, la comunicazione consentiva di restituire al fatto la sua connotazione tridimensionale, di rendere evidente la struttura stratificata della realtà in cui si era manifestata.

A questa idea di comunicazione corrispondeva forse anche un modello di fruitore e destinatario della notizia maggiormente attento a questa opera di “scandaglio” dei fatti, che non si accontentava di una conoscenza superficiale delle vicende ma che, nella sua veste di partecipe agli accadimenti sociali, richiedeva un livello d’informazione adeguato al proprio grado di coinvolgimento.

Vi era un pubblico più attento anche perché vi erano strumenti di coinvolgimento sociale (primi fra tutti i partiti politici ed i sindacati con la loro organizzazione sezionale) più attivi e diffusi sul territorio.

Anche la cronaca giudiziaria viveva una storia simile.

V’è, peraltro, un aspetto singolare e solo apparentemente contraddittorio che concerne proprio la comunicazione delle vicende giudiziarie.

Nella vigenza di un sistema processuale di chiara matrice inquisitoria (qual era quello previgente) si registrava, ciononostante, un’attenzione preponderante dei mass-media per il momento del pubblico dibattimento, laddove la fase dell’istruzione (pur non scevra dell’interesse delle cronache) sembrava non captare analogo coinvolgimento.

Eppure come ha insegnato illustre dottrina, nel pregresso rito penale la prova si era già formata nella fase pre-dibattimentale ed il processo (inteso in senso stretto) aveva la funzione di verifica nel contraddittorio di quelle risultanze (cd. contraddittorio sulla prova).

Nell’attuale sistema, caratterizzato dalla centralità del dibattimento quale luogo di formazione della prova (cd. contraddittorio per la prova), al contrario si è rilevata (fatta salva l’ampia parentesi mediatica di Tangentopoli) una propensione per l’esposizione o sovraesposizione mediatica della fase delle indagini, sopratutto se in essa s’inserivano provvedimenti di custodia cautelare.

Da questa apparente contraddizione (la si definisce apparente proprio perché, come si vedrà, si tratta, al contrario, di un’espressione assolutamente sintonica con il sistema che qui si sta illustrando) è possibile desumere in via sintomatica uno dei caratteri della nuova idea di verità (che si definirà mediatica): quello della provvisorietà.

In altri termini può, secondo i nuovi canoni, definirsi vero ciò che si verifica hic et nunc. Non importa se questo sintagma del fatto potrà essere successivamente contraddetto dagli sviluppi della vicenda o se, alla luce di questi, potrà essere fatto oggetto di una diversa lettura. Ciò che conta è che intorno ad esso possa costruirsi una comunicazione.

Prima di sviluppare ulteriormente l’analisi degli altri caratteri, mi sembra opportuno chiarire quali siano le basi su cui poggia questo ragionamento.

Tutto si fonda sull’idea del rapporto, mutevole a seconda dell’ambito in cui ci si muove, tra tre livelli della verità:

  1. la verità secondo il fatto (o verità ontologica);
  2. la verità secondo il diritto (o verità processuale);
  3. la verità mediatica.

La prima è data dall’accadimento nel suo naturalistico rivelarsi.

È il fatto. In realtà definirla è quasi impossibile se non a rischio di operare una sua interpretazione che, come tale, è destinata a “contaminarne” l’essenza.

La seconda è la ricostruzione – interpretazione del fatto socialmente accettata in quanto operata secondo regole date dalla collettività. Qui la norma giuridica fa da strumento di mediazione tra la verità ontologica, che si assume imperscrutabile, ed il bisogno esistenziale di conoscenza (cogito ergo sum).

La regola è sì strutturata in modo da consentire una ricostruzione che si approssimi alla verità secondo il fatto, tuttavia se ben si osserva la ratio che presiede alle norme processuali dettate in tema di valutazione delle prove ci si accorge che ciò che conta non è tanto il conseguimento di un risultato che sia riproduttivo della verità ontologica, quanto piuttosto l’osservanza della regola di giudizio, quale che sia l’esito cui, con la sua applicazione, si pervenga.

Infatti l’inosservanza delle regole di formazione delle prove rende queste ultime inutilizzabili e la violazione delle regole di giudizio è causa di nullità della sentenza, e tutto ciò quand’anche in tal modo si sia ricostruito il fatto così come concretamente accaduto.

Di contro, l’ossequio alle regole suindicate può talora produrre un esito che è addirittura opposto a quello della verità ontologica e, quindi, condurre ad una negazione (in termini processuali) di un accadimento. Eppure anche un tale risultato (es. “il fatto non sussiste”) è comunque verità, verità processuale appunto.

Infine c’è la verità mediatica. 

Attualmente capita sempre più spesso di assistere ad uno stravolgimento del rapporto tra fatto e notizia.

Nella più paradossale delle situazioni la seconda produce il primo. Ciò non nel senso che il fatto sia rappresentato dalla notizia stessa (cosa, questa, che sicuramente non costituirebbe un’eventualità patologica), bensì nel senso che la rappresentazione mediatica di un fatto è idonea a sua volta a generare una pluralità di situazioni del medesimo contenuto (rectius, ritenute avere il medesimo contenuto). È stato, ad esempio, questo il caso del “lancio di sassi dal cavalcavia” o quello del dilagare del fenomeno della pedofilia.

È senza dubbio necessario affidare alla comunicazione mass-mediatica il compito di stigmatizzazione e denuncia di tali fenomeni criminali, ma in molte occasioni accade che a tale opera si accompagni una rappresentazione (o spettacolarizzazione) di queste vicende che, con l’apparente intenzione dell’introspezione psicologica, finisce per adottare un linguaggio di giustificazione se non addirittura di condivisione di questi comportamenti.

In altri termini, talora si finisce – con un sufficiente grado di consapevolezza – per far rientrare anche comportamenti devianti di questo tipo tra le forme di reazione possibili (e, perciò stesso, ammesse) ad un sistema fervido di contraddizioni o ad una situazione di vita in cui il degrado morale non è solo prodotto ma spesso anche subito.

In tutte queste situazioni alla rappresentazione mediatica del fatto originario sono seguiti in contiguità temporale una serie di altri fatti simili (emulazione del primo accadimento). In altri casi, poi, l’impatto della notizia sul suo destinatario ha fatto scattare meccanismi d’identificazione, determinati dall’esaltazione di alcuni singoli elementi di similarità della vicenda appresa alla condizione propria (ad esempio, il bambino che, appresa la notizia dell’abuso subito da un compagno o da un suo coetaneo e in qualche modo “attratto” o fuorviato dall’esaltazione mediatica della vicenda, inizia ad interiorizzare l’abuso a tal punto da convincersi di esserne stato a sua volta vittima).

Per converso, allorquando il fatto rappresentato perde la sua capacità di attrazione e, quindi, ne cessa la rappresentazione mediatica, diminuiscono proporzionalmente anche le sue riproduzioni, a riprova che ciò che spinge all’emulazione non è la condotta (che esaurisce la sua spinta attrattiva) quanto la notorietà che alla stessa si accompagnava.

Altre volte, poi, la verità mediatica genera il fatto pur in assenza di un “prototipo”. Alla notizia di un fatto totalmente inesistente seguono sviluppi, questi sì reali, che sono idonei a permanere e ad autogiustificarsi indipendentemente dall’insussistenza del fatto genetico.

Un esempio può esser dato dall’ormai dilagante fenomeno dei reality shows televisivi.

L’intera vicenda è creata a fini mediatici; le sensazioni ed i comportamenti dei soggetti che vi partecipano non sono implicitamente rappresentati ma sollecitati e resi parossistici da una regia esterna secondo precise esigenze di soddisfacimento delle aspettative del pubblico.

Eppure questa pay-reality crea modelli di comportamento, rischiando che quell’amplificazione spesso irrazionale delle condotte finisca per divenire parte della normalità e della quotidianità.

Ciò avviene anche per effetto di una moltiplicazione e settorializzazione delle realtà virtuali (calciatori, cantanti, aspiranti artisti, sopravvissuti, idioti comuni ecc.).

Queste verità mediatiche come un blob stanno prendendo il sopravvento sulla verità secondo il fatto, sovrapponendosi ad essa, occultandola secondo un sapiente e crescente dosaggio d’illusioni instillate in destinatari sempre meno disposti a prendere coscienza dell’esistente ed a farsene carico.

Così accade che sia più facile trovare persone in grado di fornire risposte “competenti” su chi uscirà dall’Isola dei famosi (tanto da essere sottotitolati come opinionisti) di quante sappiano fornire una descrizione sia pure sommaria dei conflitti bellici in atto sul nostro pianeta.

Accanto al carattere della provvisorietà (già descritto in precedenza) può, quindi, delinearsi il secondo connotato della verità mediatica, la superficialità, o meglio, la superficializzazione del pensiero.

L’approfondimento, l’attenzione critica, la ricerca diventano – in un meccanismo siffatto – delle insopportabili sospensioni, dei rallentamenti al flusso sempre più cangiante ed effimero delle fonti di attrazione.

Allora, da un lato, occorre portare il pubblico ad abituarsi a temi fatui, come tali non necessitanti una elaborazione cognitiva e, dall’altro, occorre rendere l’oggetto della comunicazione suggestivo, leggero, rapidamente fruibile e di apparente soddisfazione.

La comunicazione attualmente sembra sempre più assomigliare ad un pasto consumato al fast-food. Il prodotto viene rappresentato nelle locandine idoneo ad assicurare elevati gradi di soddisfacimento, l’ambiente è reso attraente da luci, colori e dall’idea stessa di un estremo dinamismo.

Al momento in cui consumi il tuo doppio cheese-burger (che si rivela solo “figlio appena nato” di quello pubblicizzato) sei già così coinvolto dal sistema che ti metterebbe in crisi chiederti se ciò che hai appena addentato corrisponde a ciò per cui avevi deciso di entrare in quel locale.

E allora? Allora è assai più semplice mordere e mandare giù senza farsi troppe domande.

Invece qualche dubbio dovremmo iniziare a porcelo se, come purtroppo sembra, il meccanismo di sostituzione della verità mediatica alla verità secondo il fatto sta dilagando verso livelli sempre più alti, quelli della comunicazione politica ed istituzionale.

Di fronte a tale situazione si finisce allora per cogliere ancora l’irrinunciabilità di quelle regole di formazione della prova e del giudizio, idonee almeno ad imporre un metodo di costruzione del convincimento. Ma se poi anche quelle regole venissero modificate, quale sarebbe l’ultimo argine? Se esse non tendessero più alla verità secondo il fatto ma ad assicurare interessi contingenti (o post factum) quale sarà la speranza che la collettività potrebbe ancora affidare all’immane potenza del giudizio (per dirla usando le parole del Satta)?

Siamo ancora lontani da un tale pericolo e la sua prefigurazione ha solo il sapore di uno scenario orwelliano, oppure ne siamo tremendamente pervasi e così assuefatti a tale sistema da non accorgercene più?

Sinceramente non ho né la cultura né gli strumenti sufficienti di conoscenza per una risposta convincente. Tuttavia i sintomi di una tale patologia appaiono sempre più ricorrenti e, per quanto detto, progressivamente saranno sempre meno percepiti.

Il problema della qualità del messaggio mediatico è, in fin dei conti, il problema dei valori attorno ai quali una comunità si riconosce.

Se vi sarà una maggioranza di persone in grado di orientare le proprie scelte ed aspirazioni verso un consolidato nucleo di valori etici sarà sicuramente più facile distinguere tra bisogni e seduzioni, tra verità e fiction, tra giusto ed ingiusto.

Se invece rinunceremo a guardare alla realtà, quale essa sia, e ci fermeremo abbagliati e distratti dallo sfavillio delle insegne senza chiederci cosa vi sia nel fondo buio dei vicoli, allora perderemo il senso umano della verità e forse, col tempo, anche noi stessi.

*Articolo apparso sulla rivista telematica “Tertium Datur: dalla parte della Costituzione”, maggio 2006.

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“L’avvocato del D10S”: Angelo Pisani e la battaglia giudiziaria per Maradona

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Il libro “L’avvocato del D10S” di Angelo Pisani non è solo un tributo a Diego Armando Maradona, ma anche una narrazione intensa e appassionata delle battaglie legali che hanno segnato la vita del leggendario calciatore. L’opera, pubblicata da LOG edizioni e lunga 159 pagine, è disponibile al prezzo di 14,90 euro e si rivela un testo cruciale per chi desidera comprendere a fondo le vicende giuridiche e umane del “pibe de oro”.

Angelo Pisani, che ha rappresentato Maradona nelle aule di giustizia, descrive con fervore la sua lotta per dimostrare l’innocenza del calciatore di fronte alle accuse di evasione fiscale e altri gravi addebiti mossi dalla giustizia italiana. Attraverso un lavoro legale che si è esteso per decenni, Pisani è riuscito a infrangere il “muro di titanio” di Equitalia, sancendo giuridicamente l’innocenza di Diego.

Il titolo del libro, “L’avvocato del D10S”, è una chiara dichiarazione di stima e devozione verso Maradona, e il sottotitolo “Un’arringa in difesa di Diego Armando Maradona” stabilisce inequivocabilmente il tono dell’opera. Le prefazioni e le postfazioni scritte da noti esponenti del tifo calcistico partenopeo e figure chiave dell’ambiente sociale latino, come Maurizio de Giovanni, Gianni Minà e Nicola Graziano, arricchiscono ulteriormente il testo, aggiungendo diverse prospettive sulla figura di Maradona.

Il libro offre un ritratto inedito di Maradona, non solo come sportivo eccezionale ma anche come eroe umano e difensore dei più deboli, costantemente in lotta contro figure potenti come i presidenti della FIFA, Joao Havelange e Sepp Blatter. Inoltre, evidenzia il supporto di Maradona ai governi di sinistra in America Latina, una posizione che lo ha reso un bersaglio politico tanto quanto una stella del calcio.

Pisani non manca di ricordare il sostegno di Fidel Castro a Maradona durante i suoi momenti più bui, come la lotta contro la tossicodipendenza, un periodo durante il quale Maradona stesso riconoscerà il suo debito verso il leader cubano tatuandosi l’immagine del Che Guevara.

Il culmine del libro si raggiunge nel racconto del 25 maggio 2014, quando la giustizia italiana, dopo una lunga serie di battaglie legali, ha finalmente scagionato Maradona da ogni accusa di evasione fiscale. Questo evento non solo ha rappresentato una vittoria legale, ma ha anche simboleggiato la riscossa di un uomo contro un sistema che sembrava schiacciarlo.

“L’avvocato del D10S” di Angelo Pisani è quindi molto più di un semplice racconto giuridico; è un’affascinante biografia che intreccia diritto, sport e politica, mostrando come la vita di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi sia stata incessantemente intrecciata con le dinamiche del potere a livello mondiale.

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Nei papiri di Ercolano il luogo di sepoltura di Platone

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Dai papiri di Ercolano riemerge il luogo esatto della sepoltura di Platone nell’Accademia ad Atene: era situato nel giardino a lui riservato (un’area privata destinata alla scuola platonica) vicino al cosiddetto Museion o sacello sacro alle Muse. Lo rivela il papirologo Graziano Ranocchia dell’Università di Pisa, presentando alla Biblioteca Nazionale di Napoli i risultati di medio termine del progetto di ricerca ‘GreekSchools’ condotto con il Consiglio Nazionale delle Ricerche. La scoperta è racchiusa in mille parole nuove o diversamente lette del papiro contenente la Storia dell’Accademia di Filodemo di Gadara.

L’aumento del testo (pari al 30% in più rispetto alla precedente edizione del 1991) corrisponde all’incirca alla scoperta di 10 nuovi frammenti di papiro di media grandezza. Il testo rivela che Platone fu venduto come schiavo sull’isola di Egina già forse nel 404 a.C., quando gli Spartani conquistarono l’isola o, in alternativa nel 399 a.C., subito dopo la morte di Socrate.

Finora si era creduto che Platone fosse stato venduto come schiavo nel 387 a.C. durante il suo soggiorno in Sicilia alla corte di Dionisio I di Siracusa. I testi parlano anche della sua ultima notte, ma non solo. Diverse nuove letture forniscono un nuovo quadro delle circostanze della corruzione dell’oracolo di Delfi da parte del filosofo accademico Eraclide Pontico. Viene inoltre corretto il nome di Filone di Larissa in ‘Filione’ (allievo del grammatico Apollodoro di Atene per due anni e dello stoico Mnesarco per sette anni), che morì a 63 anni in Italia durante una pandemia influenzale.

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La Giornata del Libro con Maraini, tra letture e rose

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Incontri con scrittori, reading, presentazioni di libri, letture condivise, spettacoli, convegni. Esplodono le iniziative per la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, istituita dall’Unesco, che si celebra il 23 aprile, giorno della scomparsa di Shakespeare, Cervantes e Garcilaso de la Vega, tra i sommi autori della letteratura universale. In Catalogna si festeggia San Giorgio (Sant Jordi) ed è tradizione che il 23 aprile gli uomini regalino una rosa alle donne e vengano contraccambiati con un libro. Dall’Italia parte ‘Una nave di libri per Barcellona’ che in questa edizione, la XII, ha a bordo oltre 500 passeggeri in viaggio da Civitavecchia per raggiungere la capitale della Catalogna che è un trionfo di rose e di libri.

A bordo della nave, con ospite d’onore lo scrittore spagnolo Juan Gomez Barcena, scrittori e artisti fra i quali Gabriella Genisi, Giampaolo Simi, Roberto Riccardi, Carola Carulli, Anna Maria Gehnyei, Peppe Millanta e Francesca Andronico. La cantautrice Patrizia Cirulli, che ha musicato e interpretato poesie di Garcia Lorca, Frida Kahlo, Quasimodo, D’Annunzio, Alda Merini, Eduardo De Filippo, duetterà con l’attore Gino Manfredi che leggerà alcuni brani di questi grandi poeti. Nella Giornata mondiale del libro si alza anche il sipario sulla quattordicesima edizione del Maggio dei Libri con la regina della letteratura italiana, Dacia Maraini, che il 23 aprile sarà in dialogo, al Centro per il Libro e la Lettura a Roma, con il professore e saggista Guido Vitiello, che alla lettura ha dedicato il suo ultimo lavoro, La lettura felice (Il Saggiatore). A fare gli onori di casa il presidente del Cepell Adriano Monti Buzzetti e il direttore Luciano Lanna.

Il 23 aprile è un importante nastro di partenza anche per l’inaugurazione a Strasburgo, città simbolo e casa dell’Unione Europea, del suo 2024 in veste di Capitale mondiale del Libro Unesco 2024: il 26 aprile ci sarà una serata speciale dedicata ai libri italiani condotta dalla scrittrice e insegnante Kareen De Martin Pinter. Organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo, l’appuntamento si inserisce nella Grande Lettura che sarà il filo conduttore della settimana inaugurale (23-28 aprile) di Strasbourg, Capitale Mondiale del Libro Unesco. La lettura è protagonista, tra Giornata mondiale e Salone del Libro, dal 9 al 13 maggio a Torino, delle iniziative di TikTok che l’11 maggio al Lingotto annuncerà i vincitori della prima edizione dei TikTok Book Awards. Negli ultimi anni, #BookTok ha catturato l’attenzione con quasi 32 milioni di post creati utilizzando l’hashtag, ma quest’anno l’orizzonte si amplia al SalTo24 intrecciandosi con le 7 aree tematiche del Salone approfondite con alcuni live di conversazioni e interviste.

Tra gli eventi in tutta Italia spiccano quelli di Torino che legge, la manifestazione nata per celebrare la Giornata mondiale del Libro, organizzata dal Forum del Libro con la Città di Torino, le Biblioteche civiche e le circoscrizioni, dedicata quest’anno alla lettura ad alta voce condivisa. Per la Giornata arriva anche Bing Bunny, protagonista di una delle serie animate più amata dai bambini e dalle bambine in età prescolare, con 5 miliardi di visualizzazioni su YouTube, che sarà al centro di una campagna di sensibilizzazione e promozione della lettura condivisa.

Il gioiellino è il focus di Nati per Leggere sulla lettura in famiglia fin da piccoli, e prima ancora nella pancia della mamma che “è una delle più semplici pratiche quotidiane che un genitore può adottare per far crescere bene il proprio bambino o la propria bambina” con consigli di lettura a seconda delle fasce d’età. Per esempio dai 3-4 anni, i bambini amano molto le storie che parlano della vita quotidiana, in cui possono confrontarsi con la loro realtà di gioco, di scuola, di esperienza. Il progetto promosso dall’idolo Bing si chiama Le buone abitudini e ha già coinvolto oltre 8 milioni di famiglie italiane nella promozione del benessere dei bambini 0-6 anni.

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