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I ricercatori, i loro paradigmi e la comunicazione pubblica della scienza ai tempi della pandemia

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La comunicazione pubblica della scienza oscilla tra gli specialismi del linguaggio e la manipolazione dei molti interessi in campo: politici, economici, mediatici. Sappiamo bene che gli scienziati di tutto il mondo, a centinaia, sono impegnati in un fronte ampio di ricerche per battere il coronavirus. Appartengono a differenti discipline e specialità mediche, biologiche farmacologiche, per citare solo quelle più evidenti. Si tratta di un’attività sempre importante, ma in questo frangente assolutamente capitale, poiché rappresenta la base sommersa delle fasi visibili della battaglia: quella clinica, cioè i trattamenti che vengono praticati ai malati negli ospedali; e quella epidemiologica, vale a dire le misure di salute pubblica che riguardano tutta la popolazione di un singolo territorio o di un intero Paese.

Come viene comunicata la ricerca scientifica in un contesto così complesso, a un pubblico vasto e attento, direttamente toccato dalla pandemia, nella propria salute personale, negli affetti, nella quotidianità, ma anche nel lavoro, nell’azienda? Ecco, fatti salvi alcuni casi personali, possiamo dire che essa viene comunicata “molto e male”.

Intendiamoci: non si tratta di mettere in dubbio il valore professionale dei singoli specialisti e delle strutture di ricerca cui appartengono. Si tratta i capire il modo attraverso cui il sistema mediale “tratta” la comunicazione degli scienziati, la quale a sua volta presenta certe caratteristiche. Quali sono queste caratteristiche? Ebbene per coglierle, bisogna entrare, nella mente del ricercatore, vedere come funziona in linea di principio. E’ ciò che stiamo facendo nel Corso on line di “Epistemologia della pandemia”, iniziato ieri ed ospitato da questo giornale (…). In generale, i ricercatori comunicano tanto più facilmente, intensamente e produttivamente tra loro, quanto più, all’interno di una disciplina data (la fisica, la chimica, la letteratura comparata), appartengano a un medesimo paradigma scientifico. Come dite? Cos’è un “paradigma scientifico”?

Proviamo a dirla in modo semplice con Thomas Kuhn, lo studioso che ha coniato l’espressione. Si tratta di “una costellazione di credenze, valori, tecniche, esempi” che informa l’agire del ricercatore, fornendogli i mezzi concettuali e metodologici per operare. Di più, lo motiva e lo gratifica, facendolo sentire membro ascoltato di questa o quella comunità (io sono un biologo, un geografo, un farmacologo). Quando la scienza evolve all’interno di un determinato paradigma, viene detta “normale”: procede per piccoli passi, per accumulazioni progressive, per “addizioni” che rispettano la regola della compatibilità delle conoscenze che si vengono via via acquisendo con quelle già possedute. Ma arriva un momento nel quale il “paradigma” non funziona più, non risolve più i problemi che la ricerca si pone, per spinte interne o sotto la pressione dei bisogni sociali emergenti (economici, politici, etici, ambientali, medici). Si apre allora una fase “rivoluzionaria” per la scienza, in cui viene sconvolto il vecchio paradigma di riferimento e nascono nuovi profili paradigmatici. Ecco, i ricercatori comunicano tra loro con l’efficacia “massima”, in condizioni di “scienza normale”. Vivono, viceversa, le transizioni paradigmatiche come momenti di forte tensione concettuale ed emozionale, che si traduce sovente in “stress comunicativo”.

Questo si aggiunge al fatto che i ricercatori comunicano tra loro con intensità ed efficacia decrescente quando appartengano non solo a paradigmi diversi, ma a discipline diverse. Di più, essi non sono abituati –e non hanno una spiccata propensione, salvo personali eccezioni- a comunicare in ambiti extra-scientifici: in particolare in ambito sociale e politico. Da tutto ciò discendono due aspetti decisivi. Il primo, sul piano interno: i ricercatori riorganizzano la comunicazione “tra loro” in vista della costituzione di quelli che Imre Lakatos chiama “Programmi di ricerca”, che nascono su base interdisciplinare per rispondere a problemi e situazioni nuove. Chiaramente, la pandemia di Covid 19 prefigura condizioni di questo tipo.

Il secondo, sul piano esterno: quando vanno in TV gli scienziati si trovano nella prospettiva non di una “scienza normale”, dove tutto funziona secondo certi paradigmi universalmente accettati, ma in condizioni di “scienza rivoluzionaria”, in cui si sviluppano nuovi “programmi di ricerca” nei quali emergono nuovi paradigmi scientifici spesso in competizione tra loro. Tutto ciò, si capisce, ha conseguenze importanti sia sul piano della chiarezza ed efficacia delle informazioni divulgate, come pure sul piano della manipolabilità (mediatica, politica e d’altro genere) del discorso scientifico pubblico. Faccende importanti, si capisce. Sarà il caso di tornarci sopra.    

Corso di “Epistemologia della pandemia”: ecco come si svolgerà, con quale calendario e come si può interagire con efficacia

 

Epistemologia della pandemia/ I Modulo/ La mente del ricercatore, il funzionamento delle comunità scientifiche, gli impatti sociali della scienza

 

Video 1: Strumenti per capire come funziona la testa dei ricercatori che si occupano del coronavirus

 

Video 2: Pandemia, analisi e correlazioni del risvolto medico e del risvolto sociale

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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