Il titolo è “Epimedia – informazione e comunicazione nello spazio pandemico”. È il nuovo saggio del professor Angelo Turco (editore Unicopli) Africanista e studioso di teoria ed epistemologia della geografia. Epimedia è l’anagramma di epidemia, un rovesciamento di prospettiva: l’aspetto centrale ed innovativo del fenomeno Covid-19, è il modo in cui questo è stato raccontato. Il fatto diventa il suo racconto. Un racconto che assume forme e contorni inediti perché inedita e potentissima è stata la tecnologia digitale che lo ha veicolato. Così la pandemia è diventata il racconto corale di una massa sterminata di persone.
Il saggio – acquistabile nelle librerie e nei principali store digitali – è anche la chiusura di un cerchio. Era incominciato tutto un anno fa, sulle pagine di questo giornale, con il corso digitale “Epistemologia della pandemia”. Un esperimento riuscito, che ha spiegato come informazione e comunicazione hanno luogo nello spazio pandemico, con tutte le distorsioni che questo racconto difficile comporta. Molti di quei concetti entrano in questo metaracconto: un’analisi di come è stata spiegata la pandemia e quali sono stati gli effetti che questo racconto ha prodotto sul piano politico, economico e tecnologico.
Professor Turco, come nasce Epimedia?
Nasce da una constatazione. Da una parte, la crisi pandemica è il punto di arrivo di una lunga tradizione, una convivenza arcaica dell’uomo con le malattie epidemiche. Dall’altra, questa pandemia non somiglia alle precedenti per due motivi. Il primo è che la stiamo affrontando con dei vaccini mentre la pandemia è in atto, un fatto assolutamente inedito e straordinario. Il secondo è che la stiamo vivendo in un’era tecnologica prima sconosciuta. Significa che il racconto della pandemia cessa di essere il monopolio di pochi per diventare il racconto corale di una massa sterminata di persone, ancora più numerosa di coloro che sono stati colpiti dal virus.
Un aspetto, quello tecnologico, che è messo in evidenza anche dal titolo, Epimedia.
Epimedia è l’anagramma di epidemia e credo non vi sia parola che oggi meglio interpreti la faccenda, cioè il nesso tra informazione e comunicazione nello spazio pandemico. Al centro c’è l’incertezza, che rende difficile le azioni politiche, la comprensione del fatto medico e del fenomeno di sanità pubblica. Credo che questa pandemia sarà ricordata proprio per il modo in cui è stata raccontata, e per gli effetti che questo metaracconto ha generato sul piano tecnologico, politico ed economico. L’idea di epimedia è quella di mostrare le pluralità delle voci e i modi in cui queste voci si possono declinare.
Che ruolo ha giocato il corso “Epistemologia della Pandemia” ospitato da Juorno nella stesura del saggio?
È stato la riprova che abbiamo fatto un ricorso deciso alla tecnologia digitale sin dall’inizio della pandemia. Quel corso è diventato un contenitore di idee che si sono diffuse, diventando di dominio pubblico. Ma quando noi le abbiamo pubblicate, fra marzo ed aprile dello scorso anno, erano cose molto innovative ed originali. Qui vorrei sottolineare il ruolo di Juorno e la lungimiranza del direttore Paolo Chiariello, che ha mostrato sin da subito interesse per la mia ricerca. Abbiamo provato a raccontare un mondo molto piccolo, in cui non solo il virus corre velocemente, ma anche il suo racconto.
Com’è strutturato il saggio?
È diviso in tre parti, corrispondenti a tre diversi modelli di scrittura. La prima ospita la scrittura scientifica, quella di uno studioso di scienze umane che indaga la fenomenologia epidemica e pandemica. La seconda parte è una riarticolazione per temi e problemi centrati sempre sul nesso tra informazione e comunicazione, che raccoglie i miei interventi su Juorno, distinguendo i linguaggi dell’informazione, che puntano sulla qualità, dai linguaggi della comunicazione, che puntano al successo. La terza parte riprende invece un paio di percorsi che ho strutturato su Facebook come lo cunto dei li cunti, riprendendo un famoso componimento napoletano del Seicento. Un titolo evocativo che spiega come si forma il racconto della pandemia: non attraverso gli eventi che accadono, ma attraverso il modo in cui sono raccontati. È dunque un metaracconto: ho cercato di mostrare come sui media non raccontassimo l’epidemia ma il suo racconto.
Interessanti appaiono anche gli spunti provenienti da prefazione e postfazione del libro.
Si tratta di due importanti momenti di riflessione. La prefazione mette l’accento sul fatto che io, per le tre parti del libro e per l’uso plurimo di linguaggi e modelli di rappresentazione dell’epimedia, sono contemporaneamente un professore, un giornalista e uno storyteller. La postfazione, d’altro canto, sottolinea un altro fatto significativo: un professore ordinario che lascia l’accademia e va per la strada, mettendoci la faccia. Qui non è più protetto dal linguaggio scientifico e cerca di comunicare in modo da farsi capire dal più grande numero di persone, i lettori di Juorno e gli amici di Facebook.
L’informazione distorta sul coronavirus viene spesso intesa come il ricorso a fake news e teorie del complotto. Lei col concetto di fuziness informativa, ci ha spiegato che c’è molto di più.
Nel corso di epistemologia della pandemia è contenuta la mappa della fuzziness informativa e dell’overinformation, che riassume le difficilissime condizioni mediatiche in cui avviene la comunicazione di crisi nell’età digitale. La fake news è solo l’espressione più rozza, nonché quella più facile da smontare, attraverso un lavoro di fact-checking. La fuzziness comprende in realtà sette diverse fenomenologie, correntemente usate nell’epimedia, che si intrecciano fra di loro. Il grande campione della fuzziness è stato Trump, che ha fatto proprie quasi tutte le categorie: dal complottismo al bikeshedding, dal negazionismo a fideismo e sindrome occultativa. L’unica categoria della fuzziness di cui è stato vittima e non protagonista è l’etica mediale, perché gli hanno tolto l’accesso ai social network quando alla fine il suo gioco era diventato troppo scoperto perché glielo si potesse lasciar fare.
La pandemia ha accentuato il ricorso massivo a media e servizi digitali, accelerazione di un processo che avrebbe forse avuto luogo nell’arco di dieci o quindici anni. Che lettura dà di questi eventi?
Vedo bene questa accelerazione, è una cosa che fa ormai parte della nostra storia dal marzo del 2020. Dobbiamo comprendere che il nostro mondo non si può più distinguere fra reale e virtuale. Il nostro mondo è tutto reale e viene esperito e vissuto in maniera crescente attraverso il digitale. Io penserei al digitale nel modo in cui lo hanno inteso i francesi. Hanno inventato due parole in grado di mettere fuori gioco l’idea del virtuale contrapposto al reale: présentiel e distanciel, parole che indicano attività di qualunque tipo, che si fanno in presenza oppure a distanza. Ma l’attività è comunque reale. Noi abbiamo affrontato la pandemia con questa tecnologia supplementare che ci ha aiutato moltissimo e ha imposto un fondamentale ripensamento del nostro modo di vivere, produrre e pensare.
Nel saggio parla anche di Pandemia del capitale. Colossi come Amazon hanno incassato miliardi in quest’ultimo anno, mentre milioni di persone perdevano il lavoro e lo Stato tornava ad intervenire nell’economia con sostegni economici. Come esce il sistema capitalistico dal Covid-19?
Il capitalismo come meccanismo di produzione ne esce rafforzato: sta dimostrando che è capace di trasformare in capitale anche le più feroci disgrazie. Se questo meccanismo cieco di accumulazione di capitali ha un costo sociale rilevante, al capitalismo interessa poco. La chiusura drammatica di tante aziende esige però un intervento massiccio ma consapevole dello Stato. Significa intervenire non in modo meramente conservativo, ma mettendo in campo soluzioni all’altezza delle sfide tecnologiche ed economiche poste dalla crisi, che altrimenti saranno raccolte dal capitalismo cieco. Per farlo, lo Stato deve intrattenere un dialogo fattivo con le associazioni degli imprenditori e con le organizzazioni dei lavoratori. Lo Stato deve quindi rivalutare il suo ruolo, con investimenti innovanti e collaborando con i corpi intermedi, le forze vive della produzione.
“Epimedia. Informazione e comunicazione nello spazio pandemico” di Angelo Turco
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.