Abbassare le armi e tornare a parlarsi, tutte le anime della Libia, per impedire che il paese esploda. Luigi Di Maio e’ volato a Tripoli, Bengasi e Tobruk per incontrare i principali protagonisti della crisi, a partire dal premier Fayez al Sarraj e dal suo sfidante, Khalifa Haftar: per portare un messaggio, a nome dell’Europa, che la “soluzione non puo’ essere militare”. Non si puo’ negare che l’Italia abbia “perso terreno in Libia”, dira’ in serata il titolare della Farnesina al suo rientro a Roma, “ma e’ il momento in cui deve riprendersi il suo ruolo naturale di principale interlocutore”. Per questo, il Governo ha deciso di nominare “un inviato speciale” che rispondera’ direttamente al ministero degli Esteri “per poter avere un rapporto di alto livello politico continuo, intenso, con tutte le parti libiche”. Ed e’ pronto ad appoggiare tutte le iniziative europee utili per frenare l’escalation, a partire dalla conferenza che Berlino sta organizzando per gennaio, ma anche una nuova missione in Libia sotto la guida del nuovo Alto rappresentante Ue Josep Borrell. La visita del ministro degli Esteri, la prima di un esponente del governo da un anno (l’ultima fu quella di Giuseppe Conte il 23 dicembre 2018), si colloca in una fase in cui la battaglia intorno alla capitale ha toccato un nuovo picco, dopo mesi di conflitto a bassa intensita’.
Con le milizie del generale della Cirenaica in crescente pressione per entrare in citta’. Di Maio ha espresso agli interlocutori libici le preoccupazioni europee per l’escalation di violenza, che si sono tradotte giorni fa in una dichiarazione comune Berlino-Parigi-Roma in cui si fa appello a tutte le parti per una cessazione delle ostilita’ e la ripresa del negoziato sotto l’egida Onu. A Tripoli il titolare della Farnesina ha incontrato tutto lo stato maggiore del governo di unita’ nazionale, incluso il premier Sarraj. Ed ha ribadito che l’Italia “appoggia gli sforzi dell’inviato delle Nazioni Unite Ghassam Salame’ per il ritorno ad un processo politico”. In questa chiave, Di Maio ha chiarito quanto sia fondamentale che la conferenza di Berlino lasci il segno. Ossia, faccia comprendere a tutti gli attori regionali coinvolti nella partita libica che il loro sostegno militare alle parti in conflitto non portera’ nulla di buono: un messaggio rivolto soprattutto alla Russia e alla Turchia, che stanno fornendo supporto sul terreno ad Haftar e Sarraj, come a voler spartirsi la Libia come hanno fatto in Siria. Con Di Maio, Sarraj ha riconosciuto il tradizionale impegno italiano a sostegno del suo governo, puntualizzando tuttavia che “l’unita’ del territorio libico e il rafforzamento della sovranita’ nazionale” non possono essere messe in discussione, ne’ da Haftar ne’ da nessun altro.
Conferenza di pace Palermo. La stretta di mano tra Haftar e Serraj sotto gli occhi di Conte e Al Serraj
Proprio Haftar, finora, non ha mostrato nessun segno di voler deporre le armi, denunciando che Tripoli e’ ostaggio di “milizie e terroristi”. Di Maio lo ha raggiunto a Bengasi, nel suo quartier generale, per tentare una mediazione. Potendo contare sul fatto che l’Italia, pur appoggiando il governo basato a Tripoli, non ha mai interrotto i contatti con il generale, riconoscendone il ruolo imprescindibile per risolvere la crisi. Tanto che l’uomo forte della Cirenaica e’ stato invitato “nelle prossime settimane” a Roma per continuare il negoziato. Analogo tentativo e’ stato fatto a Tobruk con Aghila Saleh, presidente di un Parlamento libico che fa da contropotere al governo di Tripoli e braccio politico di Haftar. La speranza della diplomazia italiana, e di quella europea, e’ quindi di riannodare i fili di un dialogo che sembrava ben avviato dopo i summit di Parigi e Palermo del 2018 e che si e’ invece bruscamente interrotto lo scorso aprile, quando Haftar ha lanciato la sua campagna sulla capitale. Dialogo, sulla carta, incoraggiato anche da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, che in un colloquio telefonico hanno espresso il sostegno agli sforzi dell’Onu e alla conferenza di Berlino. Sul terreno, pero’, le notizie raccontano una realta’ ben diversa. Il portavoce di Haftar proprio oggi ha denunciato la presenza di miliziani turchi in Libia per fare scudo a Tripoli, mentre da Mosca continuano ad affluire aiuti e armi a sostegno del generale. E mentre le milizie contrapposte si contendono chilometro su chilometro, dopo Misurata, che e’ il principale bastione di Tripoli, altre otto citta’ dell’ovest hanno annunciato una “mobilitazione generale di tutte le loro forze per lanciare una grande operazione” contro Haftar. Pronta, e minacciosa, la replica del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, un altro peso massimo della regione al fianco del generale: il suo Paese non consentira’ che in Libia si crei uno “Stato delle milizie o di formazioni estremiste e terroriste”.
Il presidente russo, Vladimir Putin, ha ringraziato in un messaggio i soldati nordcoreani che hanno preso parte alla “liberazione della regione di Kursk” dalle truppe d’invasione ucraine, definendoli “eroi”. Lo riferisce il servizio stampa del Cremlino.
“Il popolo russo non dimenticherà mai l’impresa delle forze speciali coreane, onoreremo sempre gli eroi coreani che hanno dato la vita per la Russia, per la nostra comune libertà, al pari dei loro compagni d’armi russi”, si legge nel messaggio di Putin. Il presidente russo sottolinea che l’intervento è avvenuto “nel pieno rispetto della legge internazionale”, in base all’articolo 4 dell’accordo di partenriato strategico firmato nel giugno dello scorso anno tra Mosca e Pyongyang, che prevede assistenza militare reciproca in caso di aggressione a uno dei due Paesi. “Gli amici coreani – ha aggiunto Putin – hanno agito in base a un senso di solidarietà, giustizia e genuina amicizia. Lo apprezziamo molto e ringraziamo con sincerità il presidente Kim Jong-un personalmente”.
Volodymyr Zelensky è “più calmo” e “vuole un accordo”. È quanto ha riferito Donald Trump, secondo quanto riportato dai media americani, dopo il loro incontro avvenuto nella suggestiva cornice di San Pietro, a margine dei funerali di papa Francesco.
Un incontro positivo e nuove prospettive
Trump ha descritto l’incontro con il presidente ucraino come «andato bene», sottolineando che Zelensky sta «facendo un buon lavoro» e che «vuole un accordo». Secondo il tycoon, il leader ucraino avrebbe ribadito la richiesta di ulteriori armi per difendersi dall’aggressione russa, anche se Trump ha commentato con tono scettico: «Lo dice da tre anni. Vedremo cosa succede».
La questione della Crimea
Tra i temi toccati nel colloquio, anche quello della Crimea. Alla domanda se Zelensky sarebbe disposto a cedere la Crimea nell’ambito di un eventuale accordo di pace, Trump ha risposto: «Penso di sì». Secondo il presidente americano, «la Crimea è stata ceduta anni fa, senza un colpo di arma da fuoco sparato. Chiedete a Obama». Una posizione che conferma il suo approccio pragmatico alla questione ucraina.
L’appello a Putin: “Smetta di sparare”
Trump ha ribadito di essere «molto deluso» dalla Russia e ha lanciato un nuovo appello al presidente Vladimir Putin: «Deve smettere di sparare, sedersi e firmare un accordo». Il tycoon ha anche rinnovato la convinzione che, se fosse stato lui presidente, la guerra tra Mosca e Kiev «non sarebbe mai iniziata».
Un contesto suggestivo
Riferendosi all’incontro tenutosi a San Pietro, Trump ha aggiunto: «È l’ufficio più bello che abbia mai visto. È stata una scena molto bella». Un commento che sottolinea anche la forza simbolica del luogo dove i due leader si sono parlati, all’ombra della basilica vaticana.
Due giornalisti italiani sarebbero stati espulsi ieri sera dalle autorità marocchine con l’accusa di aver cercato di entrare illegalmente nella città di Laayoune (El Aaiun). Lo rivela il quotidiano marocchino online Hespress. Matteo Garavoglia, 34 anni, giornalista freelance originario di Biella e collaboratore del ‘Manifesto’, e il fotografo Giovanni Colmoni, avrebbero tentato di entrare nella città marocchina meridionale al confine con la regione contesa del Sahara Occidentale “senza l’autorizzazione richiesta dalla polizia”.
I due erano a bordo di un’auto privata e, secondo quanto riporta il quotidiano marocchino, sarebbero stati fermati dagli agenti che hanno interpretato il tentativo di ingresso come un “atto provocatorio, in violazione delle leggi del Paese che regolano gli ingressi dei visitatori stranieri”. Sempre secondo l’Hespress, i due reporter avrebbero cercato di “sfruttare il fatto di essere giornalisti per promuovere programmi separatisti. Per questo sono stati fermati e successivamente accompagnati in auto nella città di Agadir”. Non era la prima volta che i due tentavano di entrare a Laayoune, secondo il quotidiano, ma sempre “nel disprezzo per le procedure legali del Marocco”.