Collegati con noi

Politica

Dai cambi di governo agli Stadi, la corsa a ostacoli

Pubblicato

del

Cominciamo dai soldi. Il Recovery Plan Italiano, definito anche Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr,), vale 191,5 miliardi e a questi si aggiungono altri 30 miliardi del fondo complementare per un totale di circa 220 miliardi. La cifra ambiziosa venne strappata dal secondo Governo Conte e annunciata all’alba del 21 luglio 2020 dopo uno storico Consiglio Europeo che durò tutta una notte. L’Italia ottenne il 28% dell’intero Recovery Found europeo (750 miliardi). Meno di un mese dopo, il 13 agosto, arrivava un anticipo di quasi 25 miliardi di euro.

Ma subito poi iniziava la sfida contro le croniche debolezze dell’Italia ben riflesse nel suo Pnrr: frammentazione degli obiettivi, scarsa capacità di spesa, una macchina burocratica indebolita da decenni di blocco del turn over con quadri e dirigenze sempre più anziani e con numeri ridotti all’osso. Per tacere della litigiosità politica, attizzata dal fiume di denaro in arrivo. Il 6 gennaio 2021 il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri consegna al premier Giuseppe Conte la bozza aggiornata del recovery plan, giusto poco prima che il governo cada. Il 13 febbraio, a Palazzo Chigi arrivano i tecnici guidati da Mario Draghi, chiamati dal presidente Mattarella anche per garantire una marcia efficiente del Pnrr che, nell’entusiasmo generale, dovrebbe fare da leva a un nuovo boom dell’Italia nel dopo-Covid.

Il governo Draghi interviene sul piano e il nuovo Pnrr italiano, un volume di 269 pagine dal titolo “Italia domani”, passa l’esame europeo e il 31 dicembre 2021 riceve la prima rata da 21 miliardi di euro. Ma nel frattempo tutto il sistema è investito dall’aumento precipitoso dei prezzi delle materie prime, dall’impennata dell’inflazione. Il governo interviene con finanziamenti per permettere alle imprese di portare avanti i cantieri, e far fronte al quasi quotidiano saltare dei preventivi. Il 30 giugno 2022 arriva la seconda tranche di altri 21 miliardi, Quattro mesi dopo, il 22 ottobre, dopo le elezioni, il governo Draghi lascia Palazzo Chigi al governo Meloni. Lo scenario economico globale è totalmente diverso da quello in cui il Pnrr di Conte e gli aggiustamenti fatti da Draghi sono stati immaginati.

Le sanzioni alla Russia e la guerra in Ucraina hanno cambiato il paradigma. Il nuovo premier incarica del dossier Pnrr Raffaele Fitto, ministro degli Affari Europei. Viene istituita una cabina di regia, rivista la governance del piano, messi in cantiere alcuni decreti per aumentare il personale dedicato e si crea una piattaforma digitale per monitorare tutti gli obiettivi del Piano ed intervenire in caso di debolezze. Ma a fine marzo arriva una doccia fredda da Bruxelles: la terza tranche da 19 miliardi di euro è sospesa per un mese in attesa di ultimare la fase di “valutazione”. Nel mirino di Bruxelles ci sono opere che già in Italia hanno generato polemiche come lo stadio di Firenze e quello nuovo di Venezia.

Per Bruxelles non sono di “riqualificazione urbana e sociale”, ma piuttosto mega strutture realizzate con soldi pubblici da passare poi a soggetti privati per il loro sfruttamento. Piace poco anche la “furbata” fatta da Milano che invece di piantare alberi in terra come previsto ha pensato di cavarsela mettendo dei semi in vasi. Intanto secondo gli ultimi calcoli effettuati al 13 marzo scorso dalla Piattaforma della Ragioneria generale, la spesa finora effettuata è di 23 miliardi, che riguardano 107 misure (105 investimenti e 2 riforme) delle 285 elencate dal Pnrr con una percentuale di realizzazione vicina al 12% delle risorse complessive al 2026. La partita è aperta e si gioca da entrambe le parti con fair play. Intanto su tutto il Pnrr torna a profilarsi il “fatal flaw” dell’Italia, dimenticato durante il sonno del Patto di Stabilità. Parliamo del debito. Diversi esponenti di governo, ricordano in questi giorni che i soldi del Pnrr non sono gratis. Quasi 69 miliardi sono a fondo perduto, ma 122,6 sono prestiti che l’Italia dovrà restituire.

Advertisement

In Evidenza

Andrea Vianello lascia la Rai dopo 35 anni: “Una magnifica cavalcata, grazie a tutti”

Pubblicato

del

Dopo 35 anni di giornalismo, programmi, dirette e incarichi di vertice, Andrea Vianello (foto Imagoeconomica in evidenza) ha annunciato il suo addio alla Rai. L’annuncio è arrivato con un messaggio pubblicato su X, nel quale il giornalista ha comunicato di aver lasciato l’azienda con un «accordo consensuale».

Una lunga carriera tra radio, tv e direzioni

Nato a Roma il 25 aprile 1961, Vianello entra in Rai nel 1990 tramite concorso, dopo anni di collaborazione con quotidiani e riviste. Inizia al Gr1 con Livio Zanetti, poi al Giornale Radio Unificato, raccontando da inviato alcuni dei momenti più drammatici della cronaca italiana: dalle stragi di Capaci e via D’Amelio al caso del piccolo Faruk Kassam.

Nel 1998 approda a Radio anch’io, e successivamente a Tele anch’io su Rai2. Tra il 2001 e il 2003 è autore e conduttore di Enigma su Rai3, per poi guidare Mi manda Rai3 fino al 2010. Dopo l’esperienza ad Agorà, nel 2012 diventa direttore di Rai3.

Nel 2020 pubblica “Ogni parola che sapevo”, un racconto toccante della sua battaglia contro un’ischemia cerebrale che gli aveva tolto temporaneamente la parola, poi recuperata con grande determinazione.

Negli ultimi anni ha diretto Rai News 24, Rai Radio 1, Radio1 Sport, il Giornale Radio Rai e Rai Gr Parlamento. Nel 2023 viene nominato direttore generale di San Marino RTV, ma si dimette dopo dieci mesi. Di recente si parlava di un suo possibile approdo alla guida di Radio Tre.

Le parole d’addio: “Sempre con me il senso del servizio pubblico”

«Dopo 35 anni di vita, notizie, dirette, programmi, emozioni e esperienze incredibili, ho deciso di lasciare la ‘mia Rai’», scrive Vianello. «Ringrazio amici e colleghi, è stato un onore e una magnifica cavalcata. Porterò sempre con me ovunque vada il senso del servizio pubblico».

Il Cdr del Tg3: “Un altro addio che pesa”

Dura la reazione del Comitato di redazione del Tg3: «Anche Andrea Vianello è stato messo nelle condizioni di dover lasciare la Rai», scrivono i rappresentanti sindacali, parlando apertamente di “motivi politici”. «È l’ennesimo collega di grande livello messo ai margini in un progressivo svuotamento di identità e professionalità». E concludono con un appello: «Auspichiamo che questa emorragia si arresti, e che la Rai possa recuperare la sua centralità informativa e culturale».

Continua a leggere

Politica

L’ex ministro De Lorenzo torna a percepire il vitalizio: sono stato un perseguitato politico

Pubblicato

del

Francesco De Lorenzo (foto Imagoeconomica in evidenza), 87 anni, ex ministro della Sanità della Prima Repubblica, torna a percepire il vitalizio parlamentare grazie alla riabilitazione concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. Una cifra importante tra arretrati e pensione, che giunge 31 anni dopo l’arresto per Tangentopoli e una condanna definitiva a 5 anni per associazione a delinquere e corruzione.

«Ho pagato più di tutti, ho subito una persecuzione»

«Sono stato il capro espiatorio perfetto» ha dichiarato De Lorenzo al Corriere del Mezzogiorno, rivendicando la correttezza del proprio operato. Secondo l’ex ministro, i magistrati dell’epoca avrebbero voluto colpire un simbolo e lui si prestava bene al ruolo, specie dopo la riforma della sanità che vietava il doppio lavoro ai medici. «Non ho mai preso una lira per me – ha aggiunto – la Cassazione ha riconosciuto che i soldi finivano interamente al Partito Liberale».

«Vitalizio? È un diritto, come stabilito dalla Boldrini»

De Lorenzo ha ribadito che la richiesta del vitalizio è legittima: «La delibera del 2015 firmata da Laura Boldrini prevede la restituzione in caso di riabilitazione. Io l’ho ottenuta, come altri prima di me». A pesare sulla sua memoria, anche la condanna della Corte dei Conti per danno d’immagine: «Ho dovuto vendere la mia casa di Napoli per affrontare le conseguenze economiche di quella sentenza, pur non avendo causato alcun danno erariale».

Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica

Arrestato a Napoli nel 1994, De Lorenzo fu al centro di uno dei più noti scandali di Tangentopoli. «Durante la stagione giudiziaria serviva un terzo nome dopo Craxi e Andreotti, e io ero perfetto», ha detto. Ricorda con amarezza il clima di quegli anni: «Mi ritrovai contro i medici per la riforma e contro i malati per i tagli alla sanità. Il bersaglio ideale».

«Non ho mai tradito per salvarmi»

«Mi venne chiesto di accusare altri ministri, anche Berlusconi – racconta – ma non l’ho mai fatto». Critico nei confronti della magistratura, De Lorenzo ha sottolineato le irregolarità nel suo arresto e nella gestione del processo. «I miei coimputati si avvalevano della facoltà di non rispondere. Il mio processo è stato un coro di muti».

Rapporti con il passato: «Non sento più nessuno»

Con i vecchi compagni di partito come Paolo Cirino Pomicino e Giulio Di Donato i contatti si sono interrotti: «Ho chiuso ogni rapporto con loro», ha ammesso De Lorenzo. Nonostante l’età, conserva ancora una voce lucida e battagliera: «Sono malato di giustizia, non dimentico quello che ho subito».

Continua a leggere

Politica

Addio a Giancarlo Gentilini, lo “Sceriffo” di Treviso simbolo della Lega Nord

Pubblicato

del

È morto a 95 anni Giancarlo Gentilini (foto Imagoeconomica in evidenza), storico sindaco e vicesindaco di Treviso, conosciuto come “lo Sceriffo” per la sua spilla simbolo di ordine, disciplina e rispetto delle leggi. Figura centrale della Lega Nord, è stato per vent’anni un riferimento assoluto per la città e per il movimento federalista e nordista. Gentilini si è spento ieri all’ospedale di Treviso, dopo un improvviso malore. Aveva appena trascorso le festività pasquali con familiari e amici.

Dal 1994 un’era politica fuori dagli schemi

Eletto per la prima volta nel 1994, in piena frattura con la Prima Repubblica, Gentilini ha rappresentato il primo grande esperimento amministrativo della Lega Nord in Veneto. La sua leadership ha ispirato generazioni di sindaci padani. Rimasto in carica fino al 2013, ha saputo imprimere un’impronta personale, carismatica e controversa al governo della città, definendosi “al servizio del mio popolo”.

Una vita di provocazioni e polemiche

Uomo fuori dagli schemi, Gentilini è stato amato e odiato. Amatissimo dal suo elettorato, detestato dalle opposizioni per uscite spesso offensive: frasi contro immigrati, rom, comunità omosessuale, disegni di teschi agli incroci pericolosi e panchine rimosse per evitare che vi si sedessero stranieri. La sua comunicazione era brutale, talvolta al limite del razzismo, ma efficace. Una figura che ha spesso messo in difficoltà anche la sua stessa Lega, incapace di contenerne la dirompenza.

L’ultimo capitolo di una vita sorprendente

Nel 2017 ha perso la moglie, e l’anno successivo, a 89 anni, si è risposato. Un uomo che non ha mai smesso di sorprendere, nel bene e nel male. Sempre fedele alla sua immagine, sempre diretto, spesso divisivo, ma instancabile e coerente con il proprio sentire.

Il cordoglio delle istituzioni

Tra i primi a ricordarlo, Luca Zaia, presidente del Veneto: «È stato un grande amministratore, ha saputo intercettare i sentimenti del popolo. Ha fatto la storia di Treviso e del Veneto». Lorenzo Fontana, presidente della Camera, ha parlato di «dedizione totale alla città». Il sindaco di Treviso, Mario Conte, ha espresso il dolore dell’intera comunità: «Il nostro Leone è andato avanti. Ha scritto la storia».

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto