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Economia

Confindustria, parte la corsa alla presidenza: chi prenderà il posto di Bonomi?

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Parte il primo febbraio, con la nomina della commissione dei ‘saggi’, l’articolato iter di Confindustria per l’elezione del nuovo presidente. La data cruciale sarà il 4 aprile quando, nel consiglio generale di via dell’Astronomia, gli industriali voteranno per la designazione del prossimo leader.

Da quel momento ci sarà un nome solo che porterà avanti il percorso previsto dallo statuto per l’elezione, presentando programma e squadra di presidenza (il 18 aprile), per arrivare al voto dell’assemblea, il 23 maggio, il giorno del passaggio di consegne alla scadenza per Carlo Bonomi dei quattro anni di un mandato che nell’immediato per statuto non è rinnovabile. Puntualmente, all’appuntamento con le elezioni il clima in via dell’Astronomia si infiamma ma il dibattito, sui nomi, sulle possibili alleanze, su equilibri e dinamiche del consenso, è tutto dietro le quinte se non per quanto emerge dalle indiscrezioni che puntualmente non mancano. Le diplomazie di via dell’Astronomia sono al lavoro lontano dalla ribalta pubblica come è previsto da rigide regole che vietano agli aspiranti candidati di esprimere pubblicamente programmi e ambizioni personali. Ad oggi, è uno scenario che appare ancora frammentato, in evoluzione: prenderà una forma più chiara e definitiva in base a come si orienterà il consenso, nei prossimi giorni. “Ancora tutto è possibile”, fanno notare i più attenti osservatori.

L’attenzione nelle ultime settimane è soprattutto sulle mosse di Edoardo Garrone (Erg, presidente del Sole 24 Ore), una possibile candidatura forte che – a sentire le indiscrezioni – sarebbe stata promossa da ‘big’ dell’autorevolezza di Emma Marcegaglia, Diana Bracco, Sergio Dompè. Anche altri, tra chi ha un maggior peso specifico in Confindustria, non guardano con sfavore a questa ipotesi ma restano cauti per costruire un gioco di squadra, per evitare lo scontro con un altro industriale genovese, Antonio Gozzi (Duferco, presidente di Federacciai).

Così c’è chi lavora per tentare di imbastire, tra i due, una alleanza presidente-vicepresidente che appare anche possibile ma che, al momento, non sarebbe una soluzione vicina. Dopo quattro anni dalle precedenti elezioni, ed una vicepresidenza nella squadra di Bonomi, tra i possibili candidati torna nel ruolo dell’outsider l’emiliano Emanuele Orsini: può giocarsi oggi il vantaggio di essersi mosso con grande anticipo, già da mesi, quando in Confindustria ancora si stentava a delineare lo scenario delle possibili candidature.

I riflettori si sono accesi, negli ultimi mesi, su altri due degli attuali vicepresidenti di via dell’Astronomia: Alberto Marenghi, che in questi anni ha vissuto in prima persona tutte le articolazioni del sistema associativo per la sua delega su ‘organizzazione, sviluppo e marketing’, e Giovanni Brugnoli, che ha lavorato sulla sfida delle competenze e del lavoro con la delega sul ‘capitale umano’.

Nelle regole di Confindustria serve una base di consenso, dimostrabile, per iscritto, già per poter presentare la propria candidatura alla commissione di designazione, i ‘tre saggi’, nella prima settimana dal suo insediamento (almeno il 10% dei voti rappresentati nell’assemblea o dei componenti del consiglio generale) o al termine delle consultazioni per essere ammessi di diritto alla fase successiva e arrivare quindi al voto di designazione (almeno il 20% dei voti rappresentati nell’assemblea).

I tre saggi riceveranno le eventuali candidature e ne potranno far emergere altre dalla “più ampia consultazione” – è il compito che gli assegna lo statuto – dei presidenti di tutte le articolazioni del sistema di rappresentanza e degli altri componenti del consiglio generale. Solo al termine delle consultazioni, pesando il consenso, la commissione individuerà uno o più candidati e li inviterà a illustrare il programma di fronte al consiglio generale almeno due settimane prima del voto che, il 4 aprile, a scrutinio segreto, designerà il nome che verrà portato il 23 maggio al voto dell’assemblea.

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Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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