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Colombia, Petro: “Mercenarismo è tratta di uomini da uccidere”. Morti 40 colombiani in Sudan

Dopo l’abbattimento in Sudan di un aereo con mercenari colombiani, Petro chiede una legge urgente contro il mercenarismo: “Una tratta di uomini usati come merce per uccidere”.

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Il presidente della Colombia Gustavo Petro ha confermato la probabile morte di 40 cittadini colombiani in Sudan, dopo l’abbattimento di un aereo degli Emirati Arabi Uniti da parte dell’aviazione sudanese. L’aereo trasportava presunti mercenari colombiani, e la notizia ha scosso profondamente il governo di Bogotá.

“Ho ordinato alla nostra ambasciatrice in Egitto di verificare il numero esatto di vittime”, ha scritto Petro sul suo account X. “Si parla di 40 connazionali uccisi”.

Un appello urgente per vietare il mercenarismo

Nel suo messaggio, il presidente ha ribadito la necessità di approvare una legge contro il mercenarismo, già passata alla seconda Commissione della Camera. “Si tratta di una tratta di uomini, trasformati in merci da uccidere”, ha denunciato, criticando aspramente chi recluta giovani colombiani per combattere guerre in Paesi dove “nessuno ci ha fatto del male”.

“Volevano così tanta guerra in Colombia”, ha aggiunto Petro, “che, man mano che la guerra qui si spegneva, la cercavano fuori. I ‘capi’ che mandano i giovani a uccidere e a morire sono spettri della morte. Hanno tradito il giuramento a Bolívar”.

Un business internazionale della guerra

Il fenomeno dei mercenari colombiani reclutati per conflitti all’estero non è nuovo. Ex militari o giovani disoccupati vengono arruolati con promesse di guadagni elevati per partecipare a guerre lontane — spesso in Medio Oriente o in Africa — fuori da ogni cornice legale e morale.

L’episodio in Sudan, che coinvolge direttamente gli Emirati Arabi Uniti, getta nuova luce su un sistema opaco e pericoloso, in cui uomini diventano merce bellica su scala globale.

Una ferita diplomatica e politica

L’incidente rischia di avere ripercussioni internazionali: oltre al bilancio tragico, il coinvolgimento degli Emirati e del Sudan potrebbe aprire un caso diplomatico. Intanto, la Colombia si prepara a discutere in via urgente la legge per vietare il mercenarismo, nella speranza che tragedie simili non si ripetano.

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Vucic elogia Meloni dopo la visita a Belgrado: “È una delle donne più potenti del mondo”

Il presidente serbo Vucic definisce Giorgia Meloni “una delle donne più potenti del mondo” dopo il colloquio a Belgrado. Al centro dell’incontro: Balcani, riforme e percorso europeo della Serbia.

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La presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni è stata accolta a Belgrado dal presidente serbo Aleksandar Vucic, che ha definito il colloquio “di estrema importanza” per il futuro della Serbia. Nonostante la brevità della visita, Vucic ha sottolineato il peso politico dell’incontro e il valore personale della leader italiana: “Una delle donne più potenti del mondo, uno dei capi di governo più influenti non solo in Europa, ma a livello globale”.

Al centro: Balcani, Europa e stato di diritto

In un’intervista concessa all’emittente serba Prva, Vucic ha dichiarato che con Meloni ha discusso la situazione geopolitica internazionale e regionale, soffermandosi in particolare sui Balcani occidentali, la stabilità della regione e il percorso di adesione della Serbia all’Unione Europea.

“È stato un colloquio molto utile, che ha toccato riforme, stato di diritto e sviluppo interno”, ha spiegato il presidente serbo. Vucic ha anche aggiunto di aver ascoltato i consigli e le idee di Meloni, interessato a conoscere la visione italiana sul futuro della Serbia e dell’Europa.

Riconoscimento al ruolo internazionale dell’Italia

Le parole del presidente serbo confermano l’importanza crescente della diplomazia italiana nei Balcani, dove Roma punta a rafforzare i legami politici ed economici, sostenendo la stabilità e l’europeizzazione dell’area.

La visita di Meloni si inserisce in questo quadro e viene percepita da Belgrado come un segnale di attenzione e sostegno, non solo in ottica europea ma anche nel delicato equilibrio regionale.

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Lula: “Chi non accetta la legge brasiliana può lasciare il Paese”. Il presidente rilancia la regolamentazione delle Big Tech

Lula attacca le pressioni internazionali contro la regolamentazione delle Big Tech: “In Brasile valgono le nostre leggi. Se non vi sta bene, uscite dal Paese”.

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Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva è tornato con forza a porre la questione della regolamentazione delle piattaforme digitali, denunciando l’esistenza di pressioni esterne per ostacolare l’approvazione di leggi che disciplinino il potere delle Big Tech in Brasile.

Nel corso di una lunga intervista rilasciata a Reuters, Lula ha detto chiaramente: “Se non vuoi la regolamentazione brasiliana delle Big Tech, esci dal Brasile”. Una frase che ha immediatamente fatto il giro dei principali media del Paese.

“Anche le aziende straniere devono rispettare le leggi brasiliane”

Lula ha ribadito che le piattaforme digitali devono rispondere alla legislazione locale, come accade in qualsiasi altro Stato sovrano: “Negli Stati Uniti, un’azienda brasiliana è obbligata a seguire la legge americana, in Francia segue quella francese. E in Brasile deve rispettare la nostra”.

Il presidente ha poi chiarito che non si tratta di una forzatura ideologica, ma di un principio basilare di sovranità nazionale e rispetto della Costituzione: “Questo Paese ha una legislazione ed è nostro dovere regolare ciò che riteniamo opportuno in base agli interessi e alla cultura del popolo brasiliano”.

Il riferimento a Trump e alle resistenze degli Stati Uniti

Nel suo intervento Lula ha alluso direttamente al presidente statunitense Donald Trump, sottolineando che l’ingerenza di interessi stranieri nel dibattito interno brasiliano è inaccettabile. “Aspetta un attimo — ha detto —. Qui siamo in Brasile. Qui decidiamo noi. Non ammettiamo che qualcuno dall’esterno venga a dire cosa possiamo o non possiamo fare”.

Il nodo della regolamentazione digitale

Il dibattito sulle Big Tech è da mesi al centro dell’agenda politica brasiliana, tra iniziative parlamentari e accuse di scarsa trasparenza, diffusione di disinformazione e mancato rispetto delle norme fiscali e civili. Lula ha più volte chiesto un modello normativo solido per piattaforme come Google, Meta, X (ex Twitter) e TikTok.

Il messaggio del presidente è chiaro: nessuna piattaforma è al di sopra della legge. E il Brasile, ha detto Lula, intende difendere la propria sovranità anche nello spazio digitale.

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Amnesty chiede la liberazione di Emirlendris Benítez: detenuta e torturata in Venezuela da sette anni

Amnesty International denuncia la detenzione arbitraria di Emirlendris Benítez in Venezuela, arrestata nel 2018 e condannata a 30 anni per il presunto attentato a Maduro.

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Amnesty International ha lanciato un nuovo appello al presidente del Venezuela Nicolás Maduro per la liberazione di Emirlendris Benítez, definita “prigioniera politica” e arrestata arbitrariamente nel 2018, durante quello che il regime ha definito il “caso dei droni”, il presunto attentato contro Maduro durante la celebrazione della Guardia Nazionale del 4 agosto.

“Ricordiamo che ieri ha compiuto sette anni di crudele detenzione. È una madre, sorella e lavoratrice che è stata sottoposta a torture. Esigiamo la sua libertà e cure mediche urgenti”, ha scritto Amnesty sui suoi canali social.

Condannata a 30 anni senza prove

Benítez, all’epoca 38enne, fu arrestata in un posto di blocco della polizia a Caracas mentre lavorava come tassista con il compagno Yolmer Escalona. Le autorità l’hanno accusata, senza prove concrete, di aver preso parte al piano per assassinare Maduro. Nel 2022 è stata condannata a 30 anni di carcere, nonostante nessun elemento la colleghi direttamente all’attentato.

Secondo la giornalista Kaoru Yonekura, “Benítez fu arrestata, fatta sparire, torturata mentre era incinta, e ha perso il bambino. Oggi cammina a malapena. Non c’è nulla che possa cancellare questi sette anni. Va liberata”.

Misure cautelari ignorate e condizioni di salute gravi

La Commissione interamericana dei diritti umani aveva già concesso a Benítez misure cautelari nel 2019 per il suo grave stato di salute, ma le autorità venezuelane hanno ignorato ogni appello. Amnesty ora insiste: la sua detenzione è una palese violazione dei diritti umani.

OSA: “Repressione e opacità elettorale in Venezuela”

Intanto, la stessa Commissione interamericana ha denunciato anche un contesto di repressione sistematica in Venezuela, formalizzando una denuncia davanti al Consiglio permanente dell’Osa a Washington. Secondo la relatrice Gloria Monique de Mees, il governo venezuelano non ha ancora pubblicato i verbali ufficiali delle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024, vinte da Maduro, in violazione delle normative interne e degli standard internazionali.

Il rapporto documenta:

  • Oltre 2.000 arresti legati alle proteste post-elettorali

  • 25 morti, 24 dei quali per colpi d’arma da fuoco

  • Centinaia di casi di detenzione arbitraria e torture, spesso su giovani e civili

  • Arresti e intimidazioni nei confronti di giornalisti e operatori dei media

Silenzi e tensioni diplomatiche

Il dossier ha ottenuto il sostegno esplicito di Argentina, Stati Uniti, Canada, Paraguay, Costa Rica, Perù, Guatemala ed Ecuador. Al contrario, Messico, Colombia e Bolivia hanno mantenuto un “silenzio diplomatico”, mentre il Brasile ha invocato il principio della non ingerenza.

Una posizione che lascia isolate le vittime di una repressione che, secondo molte ONG internazionali, non conosce pause né giustificazioni.

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