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Capire la crisi Ucraina

Capire i negoziati di Istanbul: l’Ucraina, la Russia, l’Europa e la diatopia geopolitica

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Dove porterà l’incontro di Istanbul? A un accordo in cui uno guadagna e uno perde, gettando così le premesse per una prossima guerra: che ci sarà, siamone certi, presto o tardi. Oppure si chiuderà con un accordo win-win, nel quale, cioè, il compromesso possa essere letto non già come un risultato nel quale ciascuno ci rimette qualcosa, ma piuttosto come l’occasione grazie alla quale ognuna delle parti in conflitto si porta a casa qualcosa. 

Come si arriva sul tavolo negoziale russo-ucraino ad un esito -come si dice- a somma non nulla? Un accordo, cioè, in cui non è che quel che uno raccoglie l’altro lo lascia, ma dove invece entrambi gli interlocutori, in qualche modo, ottengono qualcosa? Ecco: i nodi di una informazione analitica, che ragiona documentando, riemergono e tornano al pettine. Il mainstream della comunicazione della crisi ucraina aveva ridotto tutto -o quasi- alla comunicazione di guerra. I contenuti esplicativi della crisi, cacciati dalla finestra dall’invasione russa, rientrano ora dalla porta negoziale di Istanbul. Un luogo altamente significativo: la politica che ritorna al centro delle preoccupazioni mediatiche attraverso la Sublime Porta, il simbolo di quello che fu l’Impero Ottomano.

Guerra sul campo. I vertici militari della Federazione russa in conclave per decidere il futuro della guerra

Richiamare una logica imperiale, in questa crisi, è più che opportuno: è necessario. Sul Corno d’Oro, in effetti, va in scena quella che proverò a chiamare la “diatopia geopolitica”, come mostra la Figura in evidenza. Di che si tratta? Di uno strumento analitico –insomma: un concetto- che richiama i due modelli fondamentali di spazio che gli interlocutori di Istanbul hanno in mente per i loro due Paesi. Dai quali modelli, pur apparentemente astratti, dipende tuttavia il tipo di condotta negoziale che russi e ucraini adotteranno concretamente al tavolo. Il primo consiste nel vedere nei loro rispettivi Paesi uno “spazio destinale”, una formazione geografica, cioè, che realizza un percorso segnato dal destino: una pulsione metafisica, perseguita dai soggetti che interpretano e realizzano la politica dei singoli Stati come un dovere sacro. E’ un topos geopolitico di matrice culturale, relativamente indipendente dal regime politico, che troviamo in Germania (come Sonderweg), negli Stati Uniti (come Manifest Destiny), in Italia (il richiamo di Mussolini ai “colli fatali di Roma” nel discorso del 9 Maggio 1936). Il secondo interpreta invece il singolo Paese come una costruzione storica del territorio. Questa territorialità in divenire è priva di finalismo. Essa, piuttosto è affidata alla capacità, intelligenza e buona volontà dei popoli, dei loro leader, delle istituzioni internazionali, di far prevalere il buon senso nella rivendicazione delle proprie (buone) ragioni. E’ un topos geopolitico di tipo pragmatico: si fa quel che si può, nelle condizioni date, che non si vogliono cambiare con un atto di violenza, non si vogliono sovvertire a proprio favore con una guerra. E’ il senso più profondo dell’espressione “Realpolitik” ed anche la lettura culturalmente più sofisticata, nonostante ogni apparenza rinunciataria, degli “interessi nazionali”. I quali tendono a coincidere con l’esistenza e il benessere e i diritti di una comunità di interessi e di valori costruiti storicamente, senza alcun disegno precostituito da chissà chi, in base a chissà quali pulsioni cosmiche o teologiche.

Negoziati di pace. A Istanbul le delegazioni ucraina e russa fanno fatica a trovare un accordo ma si intravede uno spiraglio di pace

Sappiamo bene come la vicenda storica e politica dell’Ucraina indipendente abbia potuto e possa leggersi, attorno agli eventi di un luogo altamente simbolico come Maidan, la Piazza per antonomasia, come fabbricazione in qualche modo necessaria di uno “spazio destinale”. Peraltro conflittuale in sé: giacché opponeva da una parte i partigiani di una “vocazione europea” (Euromaidan) e, dall’altra quanti credevano a un “destino russo”, pur con diverse gradazioni, dell’Ucraina post-sovietica. Ecco: sedersi al tavolo di Istanbul, o a qualsiasi tavolo, avendo in mente questa idea di Ucraina come spazio destinale (l’uno o l’altro, poco importa nel contesto di questo ragionamento), seppure si diriga da qualche parte, non porterà molto lontano. 

Allo stesso modo, se quel che ha in mente Putin inviando i propri negoziatori a Istanbul è un sonderweg russo che in questa fase debba passare attraverso la restaurazione di un principio imperiale neo-zarista, nessun negoziato serio sarà possibile. L’opposizione realmente sentita o soltanto strumentale di due spazi destinali, da parte russa e da parte ucraina, peraltro controversi nel seno stesso delle parti in causa, ebbene tale opposizione è la ragione vera per cui dopo 30 giorni di combattimenti, di morti, di distruzioni, di fuga dalle terre invase, la guerra è ancora in corso. E l’Occidente vede il dito che indica la Luna, ma non la Luna: si ferma sulla guerra, ma non va all’attacco culturale e p.o.l.i.t.i.c.o. delle ragioni che la tengono in piedi.

Sul tavolo stambuliota deve fare la sua comparsa la territorialità storica, questo è il punto. I negoziatori, se davvero vogliono negoziare, devono parlare senza scandalo non solo di ciò che vogliono, ma di ciò che possono ottenere, introducendo due prospettive finora sottovalutate. 

La prima è quella dei tempi medio-lunghi. Se non capiamo che nei tempi brevi l’essenziale è “fermare la guerra”, prepariamo per i tempi lunghi un avvenire disastroso. Che non è necessariamente, come con troppa faciloneria si dice, la terza guerra mondiale. Ma può essere altresì la congiunzione di due eventi che genereranno instabilità e dolorose conseguenze per un secolo almeno. Una ha a che fare con lo sbriciolamento dell’Ucraina, che è già inscritto nelle mappe della manovra militare russa. E ciò, nonostante le assurdità di chi dice che con l’invasione i russi hanno sottovalutato questo e quello e che, addirittura, la Russia sta perdendo la guerra. Ma ce n’è un’altra, che pochi evocano, ed è l’implosione della Russia. Sto parlando non solo della fine del nazionalismo imperiale russo, ma della Russia come stato unitario. Insomma, lo vediamo, l’esaltante “geografia dei destini” rischia di fare piazza pulita della faticosa “geografia della storia”.

La seconda prospettiva da prendere in carico è quella delle scale geografiche. Ricordando che questa partita non la giocano soltanto Putin e Zelensky, ma prevede un ruolo non marginale per almeno altri due attori che occorre richiamare alle loro responsabilità: la Cina e gli Stati Uniti. Intendiamoci: entrambi questi Paesi hanno concezioni di se stessi nel mondo come “spazi destinali” su un pianeta “destinato”. Ma hanno altresì, nelle loro “iconografie” come direbbe J. Gottmann, delle robuste culture realpolitiche. Le quali derivano, per il verso cinese, dal “confucianesimo”; e per il verso americano, dal “pragmatismo”. Il quale, come gli USA rivendicano con giusto orgoglio, rappresenta l’affrancamento filosofico definitivo dell’America dall’Europa.

Per essere realisti, dobbiamo pensare che sul Bosforo né lo “spazio destinale” potrà essere eliminato, né la “territorialità storica” potrà essere instaurata. Perlomeno, non nella loro integralità. Ma uno slittamento dell’uno e dell’altro verso una centralità diatopica della geopolitica dove si incrocino assonanze e convenienze degli uni e degli altri, è pur possibile. E chiediamoci, infine: in questa afflittiva inanità di Bruxelles, sarebbe così ardito pensare che potrebbe essere questa congiunzione di opposte “specie di spazi”, il senso “politico” di una mediazione dell’Unione Europea?   

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Ucraina: tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti… per cosa?

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Dunque, facciamo un riassunto. Tre anni fa, il 24 febbraio 2022, la Russia invadeva l’Ucraina. L’idea di Putin era chiara: una blitzkrieg, due giorni per arrivare a Kiev, eliminare il governo e sostituirlo con una marionetta del Cremlino. Facile, no? Peccato che la storia non abbia seguito il copione scritto a Mosca.

La “non-guerra” russa e l’ecatombe in corso

In Russia, guai a chiamarla guerra. È una “operazione speciale militare”, un po’ come definire il Titanic “un incidente nautico di lieve entità”. Eppure, questa non-guerra ha prodotto una ecatombe: centinaia di migliaia di soldati russi morti, oltre 80mila ucraini caduti. E queste sono solo le stime ufficiali, perché il numero reale di vittime potrebbe essere ancora più tragico.

Ma non parliamo di numeri. Parliamo di morti, di una carneficina che ha lasciato città distrutte, milioni di sfollati e un’Europa che per tre anni ha investito miliardi per difendere l’integrità territoriale ucraina, la democrazia e i principi cardine del diritto internazionale.

L’Occidente che armava Kiev (fino a ieri)

Per tre anni, l’Europa e gli Stati Uniti di Joe Biden hanno riversato in Ucraina decine di miliardi di euro e dollari, inviando armi, addestrando soldati, costruendo difese, imponendo sanzioni alla Russia e isolando il Cremlino. La NATO ha fatto il possibile per tenere l’Ucraina in vita, ma soprattutto per tenere i russi fuori dai confini europei.

E nonostante tutto, la grande Armata Rossa non ha mai sfondato. Putin ha mandato in battaglia galeotti, ha chiesto aiuto ai nordcoreani, ha arruolato mercenari, ha schierato la famigerata Wagner. Eppure, gli ucraini non hanno ceduto. Hanno preferito morire piuttosto che tornare sotto la sferza russa.

L’Unione Europea accelerava per accogliere Kiev nell’UE. La NATO era pronta a fare dell’Ucraina un suo membro. Ma poi…

Trump entra alla Casa Bianca, Putin sorride

Il 20 gennaio 2025 Donald Trump torna presidente degli Stati Uniti d’America. In meno di un mese, qualcosa cambia. Washington e Mosca riprendono a parlarsi, Trump e Putin si sentono al telefono come vecchi amici. E soprattutto, decidono che la guerra deve finire.

Come? Semplice. L’America di Trump smette di inviare armi e suggerisce che gli ucraini devono rassegnarsi a perdere pezzi del loro Paese. Niente NATO per Kiev, niente resistenza fino alla fine. E soprattutto, gli Stati Uniti vogliono le terre rare ucraine, quelle risorse minerarie fondamentali per l’industria tecnologica.

Dunque, riepiloghiamo: tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, miliardi di euro investiti per difendere l’Ucraina… e ora tutto si risolve così? Trump e Putin spartiscono il Paese, gli ucraini devono ingoiare il rospo, e il mondo guarda in silenzio.

La spartizione dell’Ucraina e il nuovo ordine mondiale

Il nuovo accordo sembra scritto con un righello:

  • Un pezzo all’Ucraina (giusto per non cancellarla del tutto).
  • Un pezzo alla Russia, che si tiene le terre occupate.
  • Un pezzo agli Stati Uniti, che si prendono le risorse minerarie strategiche.
  • Un pezzo ai caschi blu dell’ONU, o a qualche “forza internazionale” che piaccia a Putin.

Nel frattempo, Trump pensa in grande: riannettere il Canale di Panama, erigere nuovi muri con il Messico, ribattezzare il Golfo del Messico in “Golfo d’America”, comprare la Groenlandia, annettere il Canada. Sì, perché gli Stati Uniti hanno bisogno di espandersi, non solo in Ucraina, ma ovunque Trump voglia lasciare il segno.

Tre anni di guerra… per cosa?

Alla fine, quello che per tre anni era stato un punto fermo – la difesa dell’Ucraina, della democrazia, dei confini europei – non conta più nulla. Si fa come decidono Trump e Putin. L’Ucraina viene smembrata. I morti? Un dettaglio di cui nessuno parlerà più.

E noi, in Europa, guardiamo in silenzio. Perché, alla fine, sembra che la storia sia scritta sempre dai più forti. E gli ideali? Quei principi che hanno giustificato tre anni di guerra, le parole sulle libertà, la sovranità, la democrazia? Tutto inutile. Basta una stretta di mano tra due uomini e il destino di una nazione cambia per sempre.

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Cremlino, è Kiev che non vuole colloqui di pace

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“Mosca è pronta a risolvere il conflitto ucraino attraverso colloqui di pace, ma Kiev rifiuta di impegnarsi in questo processo”: così il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov (foto in evidenza) commentado le parole del premier ungherese Viktor Orban, secondo cui il conflitto armato in Ucraina finirà nel 2025, “o attraverso un trattato di pace o dopo il crollo di uno dei belligeranti”. “Vladimir Putin ha ripetutamente sottolineato che siamo aperti a risolvere le nostre divergenze attraverso colloqui di pace. Tuttavia, poiché l’Ucraina attualmente si rifiuta di impegnarsi nei colloqui, continuiamo la nostra operazione”, ha detto il responsabile alla Tass. “Per noi è importante raggiungere tutti gli obiettivi che abbiamo di fronte per garantire la sicurezza del nostro Paese”, ha ribadito.

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La spia che venne dagli Usa, l’uomo di Mosca nel Donbass

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Le prime foto di lui, con il viso pixelato e abbracciato a un soldato, erano apparse sui canali di blogger militari russi il 28 ottobre, subito dopo l’operazione che lo aveva esfiltrato dal territorio ucraino. Ma oggi Daniel Martindale si è presentato a volto scoperto e mostrando i suoi documenti di americano davanti ai giornalisti a Mosca, affermando di aver operato per oltre due anni dietro le linee nemiche fornendo preziose informazioni alle truppe di Mosca nel Donbass. Ora Martindale, che ha 33 anni, dice di voler farsi una vita e una famiglia in Russia e lavorare come agricoltore.

Oltre che acquisire la cittadinanza russa. Come Edward Snowden, l’informatico e attivista statunitense già tecnico della Cia che dal 2013 vive in Russia dopo aver rivelato i dettagli di diversi programmi top secret di sorveglianza di massa del governo di Washington e quello di Londra. E non sarà certo una sorpresa se Mosca deciderà di concedere la cittadinanza anche al nuovo transfuga, che promette di diventare una importante pedina della macchina propagandistica. “Dal 2005 considero gli Usa il mio nemico”, ha dichiarato Martindale, presentatosi alla stampa in camicia arancione e un cappellino nero con visiera. Quello che accade in Ucraina, ha insistito, “è un tentativo dell’America di contenere la Russia per non permetterle di competere ad armi pari con gli Stati Uniti”.

Poi un messaggio diretto a Washington: “Se qualcosa succede a me o a qualche mio parente non sarà un incidente, ma opera delle autorità americane per costringermi a tornare negli Usa e accusarmi di tutti i peccati”. Martindale ha detto di essere stato un “missionario” in Polonia. Quando ha capito che stava per scoppiare una guerra, si è trasferito in Ucraina e, dopo essere passato per Kiev, è arrivato nel territorio della regione di Donetsk controllato dalle forze governative solo una decina di giorni prima dell’attacco russo. Da lì, ha detto, si è messo in contatto con le forze separatiste filorusse scrivendo sul loro canale Telegram. Lo stesso sistema ha utilizzato per mantenere poi i contatti con le agenzie di sicurezza russe, che gli hanno fatto arrivare un nuovo telefono cellulare con un drone.

La settimana scorsa le forze speciali della 29/a Armata hanno fatto un’incursione in territorio ucraino per farlo uscire, dopo che, sostengono i canali degli osservatori militari russi, aveva avuto “un ruolo chiave nella preparazione dell’assalto al villaggio di Bogoyavlenka”, caduto in mano russa qualche giorno fa. Anche oggi Mosca ha annunciato la conquista di nuovi villaggi, quelli di Kurakhivka nella regione di Donetsk e quello di Pershotravneve nella regione di Kharkiv, in un’avanzata nell’est dell’Ucraina che ha accelerato nelle ultime settimane. Le truppe ucraine stanno affrontando una delle più “potenti” offensive della Russia dall’inizio dell’invasione, ha detto il comandante delle forze armate, Oleksandr Syrsky. La situazione è difficile, e “le ostilità in alcune aree richiedono un costante rinnovamento delle risorse delle unità ucraine”, ha aggiunto.

Difficoltà confermate dall’intelligence militare dell’Estonia, secondo la quale solo nell’ultima settimana le forze russe hanno occupato circa 150 chilometri quadrati di territorio nella regione di Donetsk. Il presidente Volodymyr Zelensky ha denunciato massicci attacchi di droni nella notte su varie regioni, compresa Kiev, dove le autorità locali hanno parlato di incendi scoppiati in vari edifici residenziali. Due feriti sono segnalati nella capitale e cinque, di cui tre bambini, a causa di un bombardamento di artiglieria nella città meridionale di Kherson. “I costanti attacchi terroristici contro le città ucraine provano che la pressione esercitata sulla Russia e i suoi complici non è sufficiente”, ha affermato Zelensky. Le autorità russe hanno invece detto che quattro civili sono rimasti feriti in attacchi di droni ucraini sulla regione frontaliera di Kursk e uno su quella di Belgorod. Oltre a due persone rimaste ferite in un attacco di artiglieria delle forze di Kiev a Gorlovka, località nel Donetsk controllata dalle truppe di Mosca.

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