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Corona Virus

Calo dei ricoveri nelle terapie intensive in 3 regioni, la crescita del contagio è meno intensa

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Il numero dei pazienti Covid ricoverati in terapia intensiva cala in 3 Regioni italiane ma aumenta in Puglia, mentre la Sardegna resta sulla soglia critica del 10% di occupazione dei posti letto in rianimazione. I dati giornalieri dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) segnalano delle criticita’ ma anche dei miglioramenti, a fronte di un quadro generale, affermano gli esperti, che vede stabilizzarsi la tendenza ad una crescita dell’epidemia meno intensa rispetto alle scorse settimane. I casi dunque stanno ora aumentando meno velocemente, tuttavia restano in crescita, come evidenzia il bollettino quotidiano del ministero della Salute che segnala 6.596 nuovi positivi nelle ultime 24 ore (rispetto ai 4.845 di ieri), mentre sono 21 le vittime in un giorno (ieri erano state 27). Anche Il tasso di positivita’, del 3%, e’ in aumento rispetto al 2,3% di ieri. La fotografia delle ospedalizzazioni segnala invece 260 pazienti ricoverati in terapia intensiva, 2 in piu’ rispetto a ieri nel saldo tra entrate e uscite, ed i ricoverati nei reparti ordinari sono 2.309, 113 in piu’ nel confronto col giorno prima. A livello nazionale, rileva l’Agenas nel confronto dei dati del 3 agosto con quelli del 2, resta fermo al 3% il tasso di occupazione delle intensive ma una regione, la Puglia, e’ in crescita dell’1% rispetto al giorno precedente, mentre Marche, Sicilia e Provincia autonoma di Bolzano vedono un calo dell’1%. Nessuna regione supera la soglia di saturazione del 10%, indicata come uno dei nuovi parametri principali per il cambio di colore delle regioni, tranne la Sardegna che gia’ si trova su questo valore (le altre sono tutte sotto il 4%). E resta stabile al 4%, a livello nazionale, anche l’occupazione dei posti letto nei reparti ospedalieri, ma 4 regioni vedono un aumento giornaliero dell’1%, ovvero Friuli Venezia Giulia (che sale a quota 2%), Lazio (che sale al 6%), Lombardia (sale al 4%), Puglia (che arriva al 3%), mentre l’Umbria segna un -1%. Sono le regioni del Centro Sud quelle che vedono in questo periodo un maggior peso nei reparti ordinari. Nessuna pero’ supera la soglia critica del 15%. Proprio questi numeri, secondo gli epidemiologi, evidenziano come siamo in un momento particolarmente delicato per l’evoluzione della pandemia. “L’andamento dell’epidemia e’ ancora in crescita ma diminuisce l’accelerazione, ovvero la velocita’ di crescita dei nuovi casi. Non siamo dunque ancora in una fase di decrescita della curva ma la crescita e’ meno intensa di prima”, sottolinea l’epidemiologo Cesare Cislaghi, gia’ presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia. Se il trend attuale sara’ mantenuto, rileva, “si va verso una diminuzione dei casi e la crescita si arrestera’”. Cio’ “in virtu’ del venir meno delle piu’ accentuate condizioni di assembramento verificatesi a meta’-fine giugno e grazie anche alle vaccinazioni”. Secondo l’esperto, “si dovrebbe arrivare ad un arresto della crescita epidemica in circa una settimana, per poi avere una lenta fase di decrescita, ma i tempi – ha precisato – non sono ovviamente prevedibili con certezza e va tenuto conto di eventuali variabili che possono nel frattempo presentarsi”. Quanto ai nuovi parametri maggiormente incentrati sulle ospedalizzazioni e sulla base dei quali decidere la collocazione delle Regioni nelle diverse fasce di rischio, Cislaghi non nasconde delle perplessita’: “E’ scorretto – afferma – valutare il trend dei ricoveri prescindendo dal trend dei contagiati. La dinamica dell’epidemia e’ infatti determinata dal numero di persone che contraggono il virus, e poi eventualmente la gravita’ del contagio e’ specificata dalla percentuale di positivi che vengono ricoverati”. Pertanto, conclude l’esperto, la “scelta del governo di adottare degli indicatori di occupazione dei posti letto invece che di incidenza dei contagi fa pensare che ci sia piu’ preoccupazione per la sostenibilita’ dell’offerta ospedaliera che della salute della comunita’”.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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