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Economia

Fondazioni bancarie, un patrimonio pubblico immenso ad uso privato: l’atto di accusa del professor Fimmanò

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Nazionalizzazione delle fondazioni bancarie, debito pubblico e cattura del regolatore. Su questi argomenti che sembrano tabù per i media italiani, quasi inutili da trattare  in un momenti di difficile congiuntura politica, con una crisi di governo in corso i cui sbocchi sono complicati anche da immaginare, intervistiamo il Professor Francesco Fimmanò, Ordinario di diritto commerciale e Vice presidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, fine giurista ed esperto economista. Fimmanò nella sua recente prolusione pubblicata sulla rivista giuridica del Mezzogiorno, edizioni Mulino, ha stigmatizzato il grande problema italiano della “cattura del regolatore” sia con riferimento alle disastrose privatizzazioni di grandi aziende di Stato (a cominciare da Autostrade e Telecom) sia di converso delle privatizzazioni e liberalizzazioni che dovevano al contrario essere effettuate e non lo sono state. In particolare il professore auspica la nazionalizzazione delle fondazioni di origine bancaria, titolari di enormi patrimoni per decine di miliardi di euro. Tesori che potrebbero essere la strada maestra ed indolore per uscire dalla crisi economica ed il modo più agevole per disinnescare le clausole di salvaguardia a cominciare dall’aumento dell’Iva di cui tanto si parla, talvolta a casaccio.

Francesco Fimmanò. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche in campo giuridico ed economico

Innanzitutto, Professor Fimmanò, lei sostiene che la nazionalizzazione delle fondazioni bancarie sarebbe una cosa doverosa e naturale. Ci può spiegare il perchè?

La storia delle fondazioni affonda le proprie radici nei Monti di Pietà e nelle antiche Casse di Risparmio. I Monti nacquero come istituzioni finanziarie senza scopo di lucro nel tardo-medievo su iniziativa di alcuni frati francescani, con funzioni di microcredito e lotta alla devastante usura. Il Monte della Pietà, fondato a Napoli nel 1539 con lo scopo di concedere prestiti gratuiti su pegno a persone bisognose, cominciò, nella seconda metà del secolo XVI, anche a ricevere depositi, dando così vita all’attività bancaria in senso proprio. I Monti di Pietà cominciarono poi ad evolversi per divenire delle vere Casse di risparmio che nate nei primi anni del XIX secolo sempre al fine di sostenere lo sviluppo dei ceti sociali meno abbienti assunsero il ruolo di intermediari tra Stato e cittadini, indirizzando la propria attività verso scopi di natura previdenziale. Quindi già storicamente il fenomeno configura il paradigma dei “beni comuni” secondo la definizione del compianto Stefano Rodotà. 

Quindi, per seguire il suo ragionamento, lei dice: essendo beni comuni usiamoli per finalità pubbliche?

In realtà con la c.d. legge Crispi del 1888 le casse venivano qualificate come “Istituti”  ben distinti, anche per la funzione sociale assolta dalle altre aziende di credito e venivano sottratte all’influenza diretta dei fondatori e agli interessi privati. La Cassazione  nel 1930 ne riconobbe la natura pubblica e con la legge bancaria del 1936 vennero equiparate alle banche ordinarie e inserite, unitamente agli istituti di credito di diritto pubblico e ai Monti di Credito su Pegno, tra i soggetti pubblici sottoposti ad un penetrante controllo statale. 

Mi scusi, allora perché sono considerate private?

In realtà non lo sono. La legge Amato, infatti, non mirava ad una privatizzazione della proprietà ma, con un intervento di soft-law, promuoveva l’adozione di un modello privatistico di gestione, rimodulando, quindi, la veste giuridica degli enti coinvolti, per giungere alla netta separazione dell’impresa bancaria dalle altre attività non qualificabili come tali.  Agli enti conferenti veniva, così, assegnato un compito primario, con l’attribuzione e la gestione del pacchetto di controllo della banca – controllo che sugellava un legame necessario tra ente conferente ed spa bancaria-, ed uno secondario, con la promozione dello sviluppo economico, sociale e culturale della comunità. Di fatto gli enti conferenti, pur spogliandosi dell’attività bancaria, ne conservavano il controllo strategico, assumendo il ruolo di investitori stabili nelle banche ed accrescendo la propria influenza sul piano economico e politico. Il loro patrimonio deriva dal risparmio pubblico e comunque appartiene ad un ente che era pubblico e solo normativamente riqualificato in vitro”. Peraltro permane ancora oggi quell’“abbraccio mortale” con le banche conferitarie che ha determinato un loro drastico impoverimento, come più volte segnalato inconfutabilmente dagli economisti del Lavoce.info. E sono sfuggite financo all’originario disegno del legislatore divenendo potentati locali autoreferenziali in grado di influenzare pesantemente il mondo politico e finanziario.

Praticamente sono fondi sovrani double face?

Esattamente. Danno comodo a certi notabilati politici locali potentissime fondazioni “double face” che gestiscono patrimoni pubblici enormi ma erogano senza alcun procedimento di evidenza pubblica, assumono senza concorsi e spendono senza vincoli effettivi, non subendo la normativa sanzionatoria in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione né il controllo della Corte dei Conti. A quest’ultima assurda situazione sto lavorando e studiando nella mia qualità attuale di membro del Consiglio di Presidenza della magistratura contabile. Peraltro neppure più è utile il controllo delle banche che non sono più sostegno della struttura economica del Paese. Lo Stato avrebbe ben altri strumenti per governare il settore senza detenere partecipazioni. Quanto alle funzioni di sostegno culturale e sociale che avrebbero, sinceramente nessuno se ne è accorto specie al centro-sud.

Se il loro patrimonio è tutto di origine pubblica, ci spiega perché non torniamo al passato?  

Non crediamo che queste fondazioni abbiano dato grande prova di utilità nel “governo sociale” dei territori. In una ricerca della European Foundation Centre emerge che “nonostante pochi casi di buone pratiche, le fondazioni di origine bancaria rappresentano un quadro istituzionale molto asimmetrico ed irregolare, di recente colpito da gravi scandali, caratterizzato da una ambivalenza istituzionale tra la definizione statutaria di entità private ed il loro “pratico” comportamento come enti pubblici che frequentemente tratta o interagisce con questioni politiche e potere pubblico regionale o locale, che ha prodotto un livello crescente di biasimo”.  Orbene, i patrimoni delle fondazioni derivano dalle banche pubbliche trasformate e quindi sono risorse pubbliche. Attenzione, parliamo del vero fondo sovrano del Paese: è inammissibile che un sistema di tale portata, che ha ancora il controllo o comunque influenza  dominante sul sistema bancario, sia spesso ostaggio di notabilati locali. Facciamo riferimento a patrimoni rilevantissimi e a risorse enormi distribuite ogni anno sui territori di appartenenza. Pur volendo ammettere la logica del supporto ai territori, tutto deve avvenire secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, non come avviene adesso, peraltro sotto il controllo della Corte dei Conti, visto che non rileva la natura del soggetto ma la natura delle risorse.

Ma le comunità locali, specie nel Nord Italia, si vedrebbero sottratte queste funzioni, non le pare?

Investire i lauti profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio, nel quale le fondazioni assumono un ruolo di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione si rivela ambigua e gestita senza alcuna trasparenza, poichè qui non vi è un mecenate privato, ma un’istituzione che elargisce risorse derivanti dalla originaria proprietà pubblica. Vi sono presidenti di fondazioni che le gestiscono di fatto ormai da trent’anni, in modo da sopravvivere a se stessi. Peraltro, l’obbligo per le fondazioni di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il nord rispetto al sud del Paese, contribuendo a enfatizzare una differenza di disponibilità che ha ormai ampiamente superato il livello di guardia. Inoltre, se le sedi delle grandi fondazioni e delle relative grandi banche sono concentrate al nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti, o in generale della loro attività operativa. Sarebbe agevole trasformarle in S.p.A. e assegnare i pacchetti azionari al Ministero del Tesoro, che potrebbe utilizzare parte delle azioni realizzando valori prossimi ai 50\60 miliardi di euro in funzione di “taglia debito”.

 

Lei propone dunque l’uso delle risorse delle fondazioni per abbassare il deficit?

Per ridurre il deficit, effettuare investimenti e disinnescare le clausole di salvaguardia. Le fondazioni hanno risorse tali bastevoli non per una ma tre finanziarie. Si può agevolmente fare quanto fu fatto per l’Eni e l’Enel.  Trasformare per legge le banche pubbliche e le casse di risparmio in società per azioni, con attribuzione dei titoli azionari al ministero del Tesoro, che provvede con gradualità a mettere poi  sul mercato le azioni. Sarebbe una operazione di  privatizzazione a due livelli che comprenderebbe  anzitutto  i pacchetti azionari delle spa bancarie possedute ora dalle Fondazioni e poi tutti  i beni e le altre attività non bancarie che sono ora nel patrimonio delle Fondazioni. In ogni caso, lo Stato ripeto avrebbe strumenti per governare il settore senza detenere partecipazioni.

Mi scusi professore, a sentirla spiegare con una semplicità disarmante, sembra tutto così facile. Allora, mi dica, perché non si fa?

In realtà è difficilissimo a causa del vero problema italiano: la cattura del regolatore. Quello che le ho disegnata è la soluzione più facile ma la più difficile da perseguire in questo Paese. La lobby delle fondazioni è la più potente di tutte, altro che concessionari di autostrade o delle cave di massa carrara, o dei petroli o delle armi. Siamo di fronte al più grande potentato italiano che peraltro vive nell’ombra e di cui la gente non si accorge. Immagini i gestori dei fondi sovrani italiani, i loro accoliti, i notabili locali ed i politici beneficiati se si fanno sottrare il più grande bene pubblico ad uso privato del mondo moderno. Di fatto, le Fondazioni bancarie, pur nell’originario divieto, non hanno cessato di occuparsi delle attività bancarie perché hanno un ruolo determinante nella nomina degli amministratori. E nel contempo dispongono di cospicue risorse da destinare liberamente e senza evidenza pubblica sui territori a iniziative culturali e  beneficenza, di grande incidenza sulle realtà del territorio. Risorse che sono al di fuori di ogni regola di bilancio pubblico.  Sono quindi un centro di potere spaventoso ed ormai autoreferenziale. È più facile aumentare l’Iva, eliminare misure di sostegno al reddito e raddoppiare l’Imu ai semplici cittadini che non contano nulla. Scommettiamo che se qualcuno lo proponesse si alzerebbero armi di distrazione di massa e polverone che neppure all’epoca della glaciazione si cono mai visti……questa è l’Italia mio caro!

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Bankitalia,commissari affiancano cda Banca Credito Popolare

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La Banca d’Italia ha nominato due commissari per affiancare i vertici della Banca di Credito Popolare evitando comunqueil loro azzeramento e lasciando la gestione agli organi aziendali dell’istituto di credito di Torre del greco (Napoli). In particolare, come spiega una nota, la Banca d’Italia ha “adottato una misura di intervento precoce”, disponendo “la nomina di Francesco Fioretto e Dino Donato Abate in qualità di Commissari in temporaneo affiancamento al Consiglio di amministrazione attualmente in carica, a far data dal 10 maggio 2024. I due Commissari coadiuveranno gli organi sociali nella realizzazione delle iniziative funzionali al pieno ripristino di un’operatività improntata ai principi di sana e prudente gestione”. “La gestione della Banca di Credito Popolare rimane affidata agli organi aziendali. Banca di Credito Popolare prosegue la propria attività”.

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Il Btp Valore chiude con una raccolta di 11 miliardi

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La quarta edizione del Btp Valore chiude con 11,2 miliardi sottoscritti da parte dei risparmiatori, che portano il totale del titolo riservato al retail, e lanciato nel giugno 2023, a una raccolta totale di quasi 65 miliardi. Abbastanza per validare la strategia di puntare sulle famiglie italiane nel finanziamento del debito pubblico, anche se con un fisiologico calo delle sottoscrizioni rispetto al record dell’emissione di marzo.

Nell’ultimo giorno di collocamento la domanda è stata pari a 970 milioni per 34.857 contratti, che portano la quarta emissione, iniziata lunedì 6 maggio, a 11,227 miliardi di euro e 384.295 contratti totali. A marzo il totale era stato di 18,316 miliardi, a ottobre 2023 17,19 miliardi e al debutto in giugno 18,191 miliardi. Un calo, quello delle sottoscrizioni dell’ultima emissione ‘speciale’, da mettere in conto vista la scadenza ravvicinata alla precedente, dettata probabilmente di sfruttare la finestra di opportunità di tassi di mercato ancora attraenti per i risparmiatori, che lo saranno di meno con l’approssimarsi della riduzione del costo del denaro da parte della Bce a giugno. La soglia che, a fine 2022, una volta superata aveva innescato la corsa dei risparmiatori a sottoscrivere titoli pubblici era il 3% del Btp triennale, che ora si sta riavvicinando a quel livello. Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva sottolineato il segnale di “fiducia” delle famiglie in vista della nuova emissione. “È un titolo che offre rendimenti interessanti, soluzioni interessanti con il pagamento degli interessi ogni tre mesi” – aveva detto Giorgetti – “il successo che abbiamo avuto fino a oggi testimonia questa fiducia. Questa è un’edizione straordinaria che non era prevista, ma vista la grande richiesta abbiamo deciso di replicare”.

L’aver superato i 10 miliardi, pur senza avvicinarsi al precedente record, rappresenta comunque un tassello della strategia che punta sul retail, rivendicata dalla premier Giorgia Meloni a gennaio, “auspichiamo che quelli che stanno messi un po’ meglio ci diano una mano a mantenere il debito italiano in mano italiana”. Per proseguire la strategia il Mef lavora dunque a costituire una curva di titoli dotata di sufficiente liquidità, una sorta di benchmark con obbligazioni che hanno il premio fedeltà (lo 0,8% del capitale investito per l’emissione appena conclusa) e lo step up: cedole che salgono nel tempo, nel caso dell’emissione di maggio dal 3,35% dei primi tre anni al 3,90% per gli ultimi tre. Tassi che offrono, rispetto all’emissione di marzo, qualcosa di più sul primo triennio (era 3,25%) e qualcosa di meno sui restanti tre anni (era 4%).

Una scelta – quella di pagare qualcosa in più in termini di rendimento, ma assicurandosi una platea di investitori aggiuntiva rispetto agli istituzionali – che visto il rientro delle prospettive d’inflazione costituisce una valida alternativa da offrire agli investitori retail rispetto al Btp Italia indicizzato all’andamento dei prezzi. E che aiuta in due direzioni: “dobbiamo rimettere gran parte del debito italiano in mani italiane”, aveva detto Meloni poche settimane fa. Più debito ai risparmiatori italiani vuol dire aver una base di investitori meno volatile – anche se più vulnerabile – se in futuro ci fossero scossoni. In secondo luogo, è un bacino in più cui attingere vista la mole imponente del debito da collocare quest’anno. Ben 360 miliardi di euro solo per il 2024, che da gennaio ad ora sono però già coperti per oltre il 40% grazie anche al contributo dei due Btp Valore collocati nel 2024 e, da ultimo, dell’emissione di Btp a tre, cinque, sette e 30 anni per oltre 9,25 miliardi.

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Imprese pronte a 1,6 milioni di assunzioni entro luglio

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Quasi 494mila assunzioni previste a maggio e in totale 1,6 milioni in tre mesi, fino a luglio: sono i contratti di lavoro che le imprese si dicono pronte a mettere sul piatto, anche in vista dell’estate. Una programmazione che, però, spesso continua a fare i conti con la difficoltà a trovare i profili richiesti: per il 48% dei posti disponibili già questo mese non è facile trovare candidati. Questo significa che circa 238mila posizioni rischiano di restare scoperte.

Lo scenario è delineato dall’ultimo Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Viaggia comunque su ritmi positivi la domanda di lavoro che risulta in crescita di circa 27mila unità rispetto a maggio 2023 (+5,8%) e di quasi 35mila sul corrispondente trimestre dell’anno scorso (+2,2%). Una crescita trasversale nel Paese, ma a fare da traino sono il Sud e le Isole che si presentano come l’area più dinamica con 140mila (+15mila, +11,9%) contratti attesi. Contratti che, nel complesso, sono di durata variabile: da oltre un mese al tempo indeterminato. La disponibilità di posti riguarda sia l’industria che in tutto programma più di 136mila entrate nel mese e oltre 410mila nel trimestre, sia le imprese dei servizi che sono alla ricerca di 357mila lavoratori a maggio e di circa 1,2 milioni fino a luglio.

E tra queste, complice l’avvicinarsi della stagione estiva, spicca la filiera del turismo: tra alberghi e alloggi in generale, bar e ristoranti, sono 119mila le opportunità lavorative offerte questo mese e 405mila nel trimestre maggio-luglio. Molte le offerte che arrivano anche dal commercio, con 69mila entrate programmate nel mese e 220mila nel trimestre. Ma i candidati non sempre sono disponibili. Resta infatti elevato il mismatch tra domanda e offerta di lavoro: a maggio è difficile da reperire il 48,2% dei profili ricercati. Sono diverse le figure quasi introvabili, ma tra le più ricercate ci sono gli operai specializzati, fabbri, saldatori, elettricisti, e i tecnici, ad esempio nel campo della salute.

Tra tutti, al primo posto, come segnala il Borsino delle professioni, si piazzano gli operai addetti ai macchinari dell’industria tessile e delle confezioni (il 78,9% è di difficile reperimento). Invece tra le professioni scientifiche e con elevata specializzazione il primato spetta agli ingegneri (il 58,8% di quelli richiesti non si trova facilmente).

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