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Champions: rigore-beffa al 94′, Atalanta va ko a Bruges

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Dalla Serie A alla Champions League, non si ferma la serie nera degli orrori arbitrali e a farne le spese, stavolta, è l’Atalanta, con un discusso rigore che consente al Bruges di centrare la vittoria al 4′ di recupero con Nilsson, su cui Hien avrebbe sbracciato dopo averlo anticipato. L’andata dei playoff si risolve per la Dea in una beffarda sconfitta per 2-1, comunque non proprio inaspettata, visto il possesso palla ceduto nettamente, nell’ordine del 57% al 43%, ad avversari dal tasso tecnico inferiore, con i bergamaschi che hanno corso a vuoto per metà di entrambe le frazioni. Avvio contratto dell’Atalanta e svantaggio ovvio al quarto d’ora sul rinvio di Hien non agganciato da Posch, che lascia passare Talbi con palla al centro per il centravanti Jutglà, bravo ad alzarsela sul destro per la girata a mezz’altezza.

In precedenza, fiamminghi pericolosi sempre in ripartenza e sulle uscite troppo alte della difesa ospite, come al 7′, quando il futuro marcatore di casa pressa Hien agevolando la corsa di Tzolis conclusa da un destro debole e centrale. Consumato il vantaggio, i belgi sfiorano il raddoppio nel rimpallo sullo schema di De Cuyper dalla trequarti destra superato il ventesimo, ma Pasalic salva tutto opponendosi a Vanaken. Gasperini a questo punto inverte di posizione i braccetti difensivi, con Djimsiti a sinistra per un Posch in evidente difficoltà. Per la prima conclusione atalantina occorre attendere 20 minuti dall’intervallo quando Zappacosta controlla e calcia alto e largo un servizio da destra di Bellanova rinviato di testa da De Cuyper. Al 28′ proprio Posch raccoglie davanti alla lunetta un disimpegno corto Vanaken-Jashari su palla dentro di De Ketelaere senza impensierire Mignolet.

Il segnale del risveglio atalantino, anche se alla mezz’ora la fase difensiva a sinistra corre un ultimo pericolo con la discesa di Ordonez rifinita da Tzolis per De Cuyper che calcia sull’esterno della rete. Retegui, in precedenza cercato in gioco aereo, al 40′ riceve un recupero alto di Hien liberando il collo esterno a lato del primo palo, occasione che precede il pari di Pasalic, che con un imparabile colpo di testa a palombella corregge in porta il cross da sinistra di Zappacosta. La ripresa comincia male come il primo tempo per gli atalantini, che rischiano tantissimo all’8′ quando Talbi prende la linea di fondo, Jutglà scarica per Ordonez cui si oppone Djimsiti e De Cuyper sfiora il secondo palo dal limite. Sempre dalla stessa ala destra di casa il tentativo successivo ma il sinistro, il piede debole, e la distanza al 12′ non depongono a suo favore.

Al 20′ e oltre, doppia chance atalantina con Mignolet a difendere il palo dal colpo di testa di Zappacosta e l’inserimento per il diagonale di Samardzic, sostituto del primo marcatore nerazzurro, non premiato dalla mira su velo dello stesso esterno sinistro lungo il filtrante di De Ketelaere. Che al 38′, convergendo da destra, scambia con lo stesso Samardzic impegnando Mignolet nel tuffo in corner. Zappacosta fa lo stesso da sinistra alzando la parabola dal vertice e a 1′ dal 90′ ci prova anche Cuadrado ricevendo dal secondo angolo bergamasco, ma il suo sinistro a difesa schierata non è angolato. Nel finale, al 3′ di recupero, Siquet ruba palla a Palestra e riesce ad allungare il pallone in area: Nilsson è alle spalle di Hien che lo anticipa, la sua caduta mani in faccia convince l’arbitro turco Meler a indicare il dischetto, con conferma del Var, da cui il danese spiazza Rui Patricio. Inutili le proteste degli atalantini, che incassano anche tre ammonizioni. “Arbitro arrogante. Fa male perdere così, all’ultimo. Non è giusto”.” commenta a caldo De Katalaere, accolto in nodo caloroso dal suo ex pubblico.

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Luciano Spalletti: «Con De Laurentiis troppe battaglie. Se ci fosse stato più rispetto, sarei rimasto a Napoli»

Nel libro “Il Paradiso esiste… ma quanta fatica”, Spalletti racconta il rapporto con De Laurentiis: «Troppe frizioni, ma lo ringrazierò sempre». Anticipazione esclusiva al Corriere della Sera.

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Nel giorno dell’uscita del suo libro autobiografico Il Paradiso esiste… ma quanta fatica (Rizzoli), Luciano Spalletti regala al Corriere della Sera un’anticipazione destinata a far discutere. Al centro, uno dei passaggi più delicati e appassionati della sua carriera: il rapporto con Aurelio De Laurentiis e l’anno dello scudetto vinto con il Napoli.

«Due partite: una in campo, una con il presidente»

Spalletti racconta senza filtri i continui attriti avuti con De Laurentiis: «Sono andato via perché non avevo più voglia di sostenere questo continuo conflitto caratteriale con un imprenditore capace, ma con un ego molto, forse troppo grande». Il tecnico toscano descrive una convivenza fatta di battaglie quotidiane, «dare una maglia a un figlio, cambiare albergo senza un motivo chiaro», che lo hanno logorato.

Il “Sultano” e il silenzio dello scudetto

L’autore definisce De Laurentiis «estroso» e «imprevedibile», ma riconosce anche un momento di grande intelligenza da parte del presidente: «Quando ha smesso di parlare pubblicamente durante la stagione dello scudetto ha dato un segnale importante». Un sacrificio notevole per «un uomo di spettacolo che ama la scena».

Ma al momento della vittoria, il gelo. Spalletti svela: «Non telefonò a nessuno, né a me, né ai calciatori, né al team manager. Arrivò una telefonata solo il giorno dopo, per organizzare l’atterraggio a Grazzanise».

Una lettera e l’addio

La rottura definitiva avvenne con una lettera scritta a mano da De Laurentiis che, pur ringraziandolo per il trionfo, imponeva il prolungamento automatico del contratto. Spalletti rispose con un’altra lettera, altrettanto formale: «Sarebbe stato utile parlarsi, per il bene del Napoli. Farlo, forse, avrebbe cambiato il corso delle cose».

«Se ci fosse stato più rispetto, sarei rimasto»

Alla domanda che in tanti gli pongono — se sarebbe rimasto a Napoli con un altro tipo di rapporto — Spalletti oggi risponde: «Sì. Se ci fosse stato più rispetto umano, più dialogo e più apertura su cosa servisse per rivincere, alla fine sarei rimasto».

Eppure, chiude con una nota di gratitudine: «Lo ringrazierò sempre per avermi permesso di allenare il Napoli».


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Tennis, Tyra Grant: «Sogno di giocare per la Nazionale italiana. L’Italia è casa mia»

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La giovane tennista italo-statunitense ha scelto di rappresentare l’Italia: “Parlo questa lingua, sono cresciuta qui. È casa mia”. A 17 anni, Tyra Caterina Grant ha già preso una decisione che definisce “naturale”: giocare per l’Italia. Nata negli Stati Uniti, figlia dell’ex cestista Tyrone Grant, Tyra è cresciuta in Italia, parla fluentemente italiano e si allena da anni nell’Accademia di Riccardo Piatti, dove ha condiviso gli spazi con Jannik Sinner.

«Italia, la mia casa. Sogno la maglia azzurra»

«Sono cresciuta qui, parlo italiano, i miei amici sono italiani. Giocare con la maglia della Nazionale è il mio sogno», racconta con entusiasmo. Ha scelto l’Italia anche per affetto: «Caterina è il nome di mia nonna, è il mio secondo nome, ma tutti mi chiamano Tyra».

La prima da italiana al Foro Italico

«Poter giocare a Roma come primo torneo da italiana è bellissimo», dice alla stampa statunitense con cui dialoga passando con disinvoltura dall’italiano all’inglese. «Spero di scendere in campo sul Centrale. Non ho la pressione di fare subito risultato, ora mi godo tutto questo amore che sento attorno a me».

I ricordi con Sinner e l’Accademia Piatti

«Quando sono arrivata all’Accademia, Jannik aveva già 17 anni, ma lì si viveva tutti insieme come in una grande famiglia», racconta. L’Accademia ha rappresentato per lei un punto di riferimento e un trampolino di lancio per la sua crescita tennistica.

Nessun episodio di razzismo

A differenza di quanto accaduto ad altre atlete azzurre di colore, Tyra non ha mai subito discriminazioni: «È un tema importante e delicato. Personalmente, non ho mai vissuto brutte esperienze, nessuno mi ha mai presa di mira».

L’America? Solo per lo sport

Se dovesse portare qualcosa degli Stati Uniti in Italia, non ha dubbi: «Il modo in cui si vive lo sport là. Ma vedo che anche in Italia le cose stanno cambiando». Tuttavia, aggiunge, «quando sono in America mi manca tutto dell’Italia: la cultura, il cibo, le città».

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Inzaghi sogno Champions: col Barca serve vera Inter

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Una notte per la storia, un sogno lungo tredici anni. L’Inter torna a San Siro per la semifinale di ritorno di Champions League contro il Barcellona, con negli occhi l’eco della storica gara del 2010 e nel cuore la speranza di scrivere un nuovo capitolo europeo, con la coppa dalle grandi orecchie che manca appunto dal 2010 con José Mourinho in panchina. Dopo il pareggio dell’andata al Montjuic, i nerazzurri si giocano tutto davanti al loro pubblico: novanta minuti per tornare in finale a due anni di distanza dal ko con il Manchester Citty, con l’obiettivo di tornare all’ultimo atto anche per vendicare la sconfitta contro Pep Guardiola a Istanbul. Davanti ci sarà ancora il Barcellona, come nel 2010, ma l’Inter stavolta disputerà il ritorno a San Siro.

E la carica del Meazza potrà essere decisiva, perché dopo il 3-3 in Catalogna servirà vincere, a meno di non guardare anche a supplementari ed eventuali rigori. Una carta fondamentale in più per battere i blaugrana risponde al nome di Lautaro Martinez, che va verso un clamoroso recupero: a meno di una settimana dall’infortunio muscolare alla coscia subito proprio all’andata, l’attaccante dell’Inter è stato provato da Simone Inzaghi nella formazione titolare nell’allenamento della vigilia.

La decisione finale sarà presa domani, parlando anche con lo stesso giocatore. “Decideremo insieme allo staff medico e insieme agli stessi calciatori, perché saranno loro che mi dovranno dire le proprie sensazioni”, le parole del tecnico nerazzurro in conferenza stampa, riferendosi anche a Benjamin Pavard che sembra tuttavia andare verso la panchina per la distorsione alla caviglia con Yann Bisseck in pole per una maglia da titolare. “Lautaro meglio dall’inizio o in corsa? Dipenderà anche dalle sue sensazioni. Un giocatore che non può partire dall’inizio è difficile che ci dia una mano negli ultimi 25 minuti”, ha aggiunto Inzaghi, quasi confermando la volontà di farlo partire dal 1′. L’allenatore interista si gioca anche un pezzetto di storia, considerando che in quella nerazzurra solo Helenio Herrera era riuscito a centrare due finali di Coppa dei Campioni/Champions League.

“Sappiamo tutti l’importanza della gara, va fatta insieme: con i tifosi e con il gruppo. Il Barcellona è fortissimo, abbiamo visto tanti video e ci vorrà una grande Inter. Solo Herrera ha fatto due finali? È emozionante”, ha proseguito Inzaghi. “All’andata abbiamo fatto una grande gara, ma potevamo anche fare meglio giocando la palla anche se loro sono bravi nelle riaggressioni. Domani sarà una finale e la giochiamo davanti ai nostri tifosi, ci sarà un vincitore passando anche dai supplementari e dai rigori”. Molto parte anche da quel ko con il City in finale nel 2023. “La sconfitta di Istanbul è stata una notte difficile da digerire, si era giocata una grande partita ma si vive di presente. Quella gara fa parte del percorso fatto in questi quattro anni, ma vogliamo proseguire. Siamo a due partite da un eventuale trofeo, abbiamo portato l’Inter ad essere prima nel ranking e siamo partiti 17esimi: vogliamo prosguire questo grande percorso”.

Di fronte, però, c’è un Barcellona che già all’andata ha impresssionante in fase offensiva, meno in quella difensiva. A partire da Lamine Yamal, osservato speciale dei nerazzurri. “Dobbiamo cercare di non fargli arrivare palla ma è impossibile. Sarà ovviamente raddoppiato, sarà un osservato speciale”, ha spiegato Inzaghi, che potrebbe dover fare i conti anche con il ritorno di Lewandowski, convocato ma verso la panchina. “Lo conosciamo bene, è tra i 3-4 attaccanti più forti al mondo. Ma il Barcellona è forte con o senza Lewandowski”.

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