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Banksy, l’Ucraina martoriata e il negoziato più che mai necessario

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Ho visto come tutti voi i murales di Banksy a Borodyanka, periferia di Kiev, e presumibilmente – come è nella leggenda di questo artista che compare e scompare- in altre città e insediamenti ucraini. La forza immaginativa dell’arte che risponde alla violenza irriflessiva della guerra.  Banksy ancora una volta, più che altrove, mi ha commosso. Il bambino judoka che mette a terra il massiccio adulto, è una metafora visiva della “piccola” Ucraina che batte la “grande” Russia. E’ la rappresentazione ammonitrice ed eterna di Davide che sconfigge Golia. Senza dimenticare che Putin ha da sempre coltivato un’immagine pubblica di campione di judo. Banksy si conferma capofila assoluto della “street art“, di cui sono un estimatore incondizionato. “L’Ucraina è la mia casa”, dice presentando le opere sul suo profilo Instagram. Una frase che esprime il sentimento di tutti noi. (http://www.banksy.co.uk/).


Ho pensato, guardando i dipinti sulle residue parti pericolanti di quell’edificio oscenamente sventrato, osservando i racconti di quelle speranze in macerie, sì ho pensato al fatto che se i negoziati tra Russia e Ucraina fossero cominciati a marzo, a due o tre settimane dall’inizio della guerra, quell’edificio sarebbe stato ancora intatto e Banksy avrebbe potuto dipingerci sopra scene di “Buon Governo” –accanto a quelle di “Cattivo Governo”- come A. Lorenzetti a Siena alla vigilia della “peste nera”.


Le armi avrebbero fatto silenzio. Decine e decine di migliaia di soldati ucraini e russi sarebbero ancora in vita, milioni di profughi ucraini sarebbero nelle loro case e non piangerebbero i loro bambini sofferenti su queste fredde strade dell’inverno steppico o massacrati dall’insulsa violenza della guerra, dall’inescusabile furia moscovita. Se invece che a combattere, questi 9 mesi fossero stati dedicati a ragionare, non avremmo avuto le emergenze alimentari nel Sahel, con altri bambini dalle pance gonfie di denutrizione. Non avremmo avuto, in Europa, le bollette alle stelle, la povertà crescente, l’inflazione fuori controllo. Non avremmo avuto, è vero, la narrativa dell’eroica resistenza del popolo ucraino: nessuna resistenza, in realtà: sono due eserciti che si combattono, con la gente presa in mezzo. Eh già: si dimentica troppo facilmente che questa n.o.n è una guerra di popoli, è una guerra di armate che si combattono. Seguendo logiche militari -molto tattiche, a quanto pare, e poco strategiche- inserite a loro volta nel quadro di dottrine dello Stato che hanno a che fare con formule arcaiche: faccende come lo “spazio vitale” (F. Ratzel) o lo “spazio destinale”, da tempo smascherate dalla scienza e liquidate dalla storia. E’ uno dei contenuti salienti del libro dedicato alla crisi ucraina, appena pubblicato

Queste pulsioni etologiche, come le chiama I. Eibl-Eibesfeldt (Etologia della guerra), riconducibili a rozzi imperativi di spacing, di distanziamento, di sicurezza garantita dal puro fatto animale di stare  lontani l’uno dall’altro, hanno l’effetto di allontanarci dalla politica. La politica, dico: la delicata miscela di tecnica e arte, di scienza e immaginazione, che gli umani hanno pur messo a punto nel corso dei secoli per prevenire e governare le crisi. Per evitare di scannarsi ad ogni momento, per ogni cosa, anche minima. 

Insomma, non mi entusiasmano le epiche piogge di sangue, né le astuzie mortali anche se ci aprono le porte Scee, come a Troia.  Men che meno mi prendono le retoriche belliche: altro che V. Zelensky “uomo dell’anno”! Come studioso che diffida delle culture morali della guerra, penso piuttosto al fatto che, se si fosse avviato un tavolo negoziale a marzo, non avremmo avuto i referendum-fantoccio nelle regioni russofone del Donbass. Un enorme problema in meno, quindi. Né avremmo avuto, per dire, i missili Himars, segretamente modificati dagli ucraini e pertanto capaci ormai, a quanto sembra, di colpire il territorio russo: contrariamente agli intendimenti americani. Un altro enorme problema quest’ultimo, che avvicina i pericoli di una generalizzazione del conflitto –ciò che gli ucraini non hanno fatto mistero di volere fin dall’inizio- anche al prezzo di una evoluzione nucleare: che sia tattica (come si  dice) o strategica (come si teme).

Intendiamoci bene. Asserire che Putin non vuole la pace, come dicono i falchi del “fronte Biden”, dalla NATO alla Gran Bretagna, dalla Polonia agli Stati baltici e scandinavi, agli stessi USA; o asserire che “si farà la pace quando e come vuole l’Ucraina” secondo la posizione buonista ed ipocritamente rispettosa di E. Macron: ebbene, ciò significa nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo. Russia ed Ucraina, semplicemente, non riescono a pensare la pace e tanto meno sanno farla. E’ qui che si delinea l’immensa responsabilità dell’Occidente ed emerge, per contrasto, la mirabile lungimiranza di Papa Francesco. Toccava all’Occidente, più che armare senza condizioni e a tempo indeterminato l’Ucraina per combattere una sanguinosa e distruttiva duplice guerra contro la Russia, la sua e quella della Nato, toccava all’Occidente, dicevo, costruire un tavolo di pace, offrendo mezzi e soluzioni e ”onorevoli compromessi” e “solide garanzie”. Sedendosi a quel tavolo, come USA e come UE, accanto a Kiev. E portando a quel tavolo, con buoni argomenti, la Cina, nella considerazione che Pechino è l’unica oggi ad avere una non elusiva possibilità di dialogo con Mosca. Ma abbiamo visto come, invece di giocare “questa” partita, invece di cercare e trovare per il conflitto russo-ucraino, una “pace subito”, infinitamente più praticabile di quanto oggi non sia, si è preferito giocare un’altra partita. Tutta incentrata, si badi, sul Pacifico orientale, rivestita per ora degli inconsistenti panni di Taiwan, ma di fatto tutta interna alle dottrine egemoniche non meno che agli interessi strategici, politici ed economici del globalitarismo americano. Insomma, la crisi ucraina ha persola sua centralità a Washington. Ha perso perfino la sua autonomia ideologica. Non è più un problema internazionale in sé, si direbbe. E’ diventata almeno da quattro mesi, la metà del tempo di questa guerra, una pedina da giocare su un altro e ben più importate scacchiere. 

In queste condizioni, siamo con Banksy. Sinceramente, fortemente. Ma vogliamo scommettere in mano a chi resterà il cerino acceso?    

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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‘Chora è una moschea’, scintille Erdogan-Mitsotakis

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La moschea di Kariye a Istanbul, un tempo chiesa ortodossa di San Salvatore in Chora e tesoro del patrimonio bizantino, diventa tempio della discordia tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier greco Kyriakos Mitsotakis, nel giorno della visita del leader ellenico ad Ankara proprio per confermare la stagione di buon vicinato tra i due Paesi dopo decenni di tensioni. Le divergenze sulla moschea si sono riaccese nei giorni scorsi, dopo che il 6 maggio scorso San Salvatore in Chora, chiesa risalente al V secolo e tra i più importanti esempi dell’architettura bizantina di Istanbul, è stata riaperta dopo lavori di restauro durati quattro anni.

Convertita in moschea mezzo secolo dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani del 1453, Chora è stata trasformata in un museo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Turchia cercò di creare una repubblica laica dalle ceneri dell’Impero Ottomano. Ma nel 2020 è nuovamente diventata una moschea su impulso di Erdogan, poco dopo la decisione del presidente di riconvertire in moschea anche Santa Sofia, che come Chora era stata trasformata in un museo. La riapertura aveva suscitato malcontento ad Atene, con Mitsotakis che aveva definito la conversione della chiesa come “un messaggio negativo” e promesso alla vigilia del suo viaggio ad Ankara di chiedere a Erdogan di tornare sui suoi passi in merito. Una richiesta respinta al mittente: “La moschea Kariye nella sua nuova identità resta aperta a tutti”, ha confermato Erdogan in conferenza stampa accanto a Mitsotakis.

“Come ho detto al premier greco, abbiamo aperto al culto e alle visite la nostra moschea dopo un attento lavoro di restauro in conformità con la decisione che abbiamo preso nel 2020”, ha sottolineato. “Ho discusso con Erdogan della conversione della chiesa di San Salvatore in Chora e gli ho espresso la mia insoddisfazione”, ha indicato in risposta il leader greco, aggiungendo che questo “tesoro culturale” deve “rimanere accessibile a tutti i visitatori”. Nulla di fatto dunque sul tentativo di Atene di riscrivere il destino del luogo di culto. Ma nonostante le divergenze in merito, la visita di Mitsotakis ad Ankara segna un nuovo passo nel cammino di normalizzazione intrapreso dai due Paesi, contrapposti sulla questione cipriota e rivali nel Mediterraneo orientale. A dicembre i due leader hanno firmato una dichiarazione di “buon vicinato” per sancire una fase di calma nei rapporti iniziata dopo il terremoto che ha ucciso più di 50.000 persone nel sud-est della Turchia, all’inizio del 2023. “Oggi abbiamo dimostrato che accanto ai nostri disaccordi possiamo scrivere una pagina parallela su ciò che ci trova d’accordo”, ha sottolineato Mitsotakis accanto a Erdogan, confermando la volontà di “intensificare i contatti bilaterali”. Perché “l’oggi non deve rimanere prigioniero del passato”.

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Kiev, più di 30 località sotto il fuoco russo nel Kharkiv

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Sono ancora in corso i combattimenti nella regione di Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, dove più di 30 località sono sotto il fuoco russo e quasi 6.000 residenti sono stati evacuati, secondo il governatore regionale. “Più di 30 località nella regione di Kharkiv sono state colpite dall’artiglieria nemica e dai colpi di mortaio”, ha scritto Oleg Synegoubov sui social network.

Il governatore ha aggiunto che dall’inizio dei combattimenti sono stati evacuati da queste zone un totale di 5.762 residenti. Le forze russe hanno attraversato il confine da venerdì per condurre un’offensiva in direzione di Lyptsi e Vovchansk, due città situate rispettivamente a circa venti e cinquanta chilometri a nord-est di Kharkiv, la seconda città del Paese.

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Insulti sui social tra Netanyahu e il leader colombiano Petro

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Scambio di insulti, sui social, tra il presidente colombiano, Gustavo Petro, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo ha detto che il suo Paese non avrebbe preso “lezioni da un antisemita che sostiene Hamas”, dopo che Petro, pochi giorni fa, aveva chiesto alla Corte penale internazionale dell’Aja di emettere un ordine d’arresto nei confronti di Netanyahu. “Signor Netanyahu, passerai alla storia come un genocida”, ha risposto a sua volta il leader progressista colombiano, smentendo di appoggiare Hamas in quanto “sostenitore della democrazia repubblicana, plebea e laica”. “Sganciare bombe su migliaia di bambini, donne e anziani innocenti non fa di te un eroe. Ti poni al fianco di coloro che hanno ucciso milioni di ebrei in Europa. Un genocida è un genocida, non importa se ha una religione o no. Cerca almeno di fermare il massacro”, ha postato Petro.

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