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Economia

Caro carburanti, il pieno per gli italiani sale di 9 miliardi

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L’escalation dei listini dei carburanti alla pompa e’ costato in soli 6 mesi agli italiani oltre 9 miliardi per i maggiori costi di rifornimento alle auto. Nello stesso periodo lo Stato ha incassato oltre 25 miliardi a titolo di Iva e accise su benzina e gasolio. Lo rileva una indagine condotta dall’associazione dei consumatori Consumerismo No Profit e dal centro ricerca di “Alma Laboris Business School”, societa’ specializzata in master e corsi di alta formazione, che ha analizzato l’andamento dei listini alla pompa degli ultimi 6 mesi per capire quanto sia costato alla collettivita’ il “caro-carburante” e quanto abbia guadagnato lo Stato grazie ai rincari alla pompa. In base ai dati ufficiali del Mite, l’escalation dei listini di benzina e gasolio e’ iniziata lo scorso ottobre, quando i prezzi della verde hanno sfondato la soglia di 1,7 euro al litro iniziando una corsa al rialzo senza freni – spiegano Consumerismo e Alma Laboris – Considerando il parco veicolare italiano, i prezzi medi mensili dei carburanti registrati dal Ministero e una media di 2,5 pieni al mese, emerge che gli italiani tra ottobre 2021 e marzo 2022 hanno speso nel complesso 44,7 miliardi (oltre 23,5 miliardi di euro per i rifornimenti di benzina, 21,1 miliardi per il gasolio). Nello stesso semestre dell’anno precedente i cittadini, in base ai prezzi medi dei carburanti in vigore da ottobre 2020 a marzo 2021, avevano speso per i medesimi consumi 35,6 miliardi di euro. Questo significa che negli ultimi 6 mesi gli italiani, a causa del caro-carburante, si sono ritrovati a spendere complessivamente 9,03 miliardi in piu’, pari in media a +347 euro a famiglia. La ricerca di Alma Laboris, poi, si sofferma sulla componente fiscale dei carburanti, e analizza gli introiti incamerati dalle casse statali negli ultimi 6 mesi. “Dall’elaborazione dei dati pubblici, e in base alle proiezioni sul parco veicolare italiano, da ottobre a marzo lo Stato ha incassato 8,1 miliardi di euro con l’Iva sui carburanti, 17,2 miliardi con le accise, per un totale di 25,3 miliardi di euro – riferisce l’amministratore di Alma Laboris, Dario Numeroso – Mentre il peso delle accise e’ rimasto invariato rispetto al 2021 (0,728 euro su ogni litro di benzina, 0,617 euro sul gasolio) le entrate garantite dall’Iva sono aumentate grazie ai rincari alla pompa, e hanno determinato per le casse statali un “tesoretto” aggiuntivo che sfiora 1,7 miliardi di euro in soli 6 mesi”. Il peso delle imposte sui carburanti si e’ ridotto negli ultimi giorni grazie all’intervento del Governo sul taglio delle accise. Secondo un Report dell’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli il peso delle imposte sul prezzo della benzina e’ sceso con l’intervento del Governo al 25% a fronte del 34% registrato prima del decreto. Ma nel 1977 questo peso era arrivato al 60%, Prima dell’intervento i prezzi in termini reali, quindi al netto dell’inflazione, erano simili a quelli toccati durante le crisi petrolifere negli anni Settanta. Guardando ai ai prezzi in euro, l’Italia, prima dell’intervento del Governo era il secondo paese dopo l’Olanda per valore delle imposte indirette per ogni litro di benzina e il terzo per prelievo fiscale per litro (dopo Olanda e Finlandia). Con l’intervento del Governo, il prelievo si riduce notevolmente, portando il livello delle imposte al di sotto della media europea (0,81 euro/litro in Italia contro 0,85 nell’UE). Il nuovo prezzo finale e’ allineato a quello della Spagna e un po’ piu’ alto della media europea, ma piu’ basso rispetto alle altre economie avanzate in Europa. ” L’Italia e’ al lavoro nella direzione di una maggiore indipendenza energetica in tempi rapidi – ha detto il viceministro dell’Economia, Laura Castelli – abbiamo fatto due decreti che hanno messo a terra 16 miliardi e un altro che abbiamo chiuso da poco che ne ha oltre 5. Probabilmente non sara’ abbastanza, e si sta ragionando di autonomia energetica” .

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Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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