Un contropiede fulmineo, che minaccia di annientare la Superlega nella culla: l’uscita dal progetto del nuovo calcio per ricchi modello show-business del Manchester City e del Chelsea – a due giorni scarsi dall’annuncio in pompa magna del via all’operazione – e’ il frutto della reazione compatta del calcio inglese, del popolo degli stadi d’Oltremanica, di un Paese intero che al football ha dato i natali. Ma e’ anche e soprattutto la vittoria d’immagine, almeno per ora, di un leader, Boris Johnson, che a questi umori ha saputo dare volto e voce: un po’ come, in un contesto pur diverso e ben piu’ controverso, aveva fatto con la Brexit. Estraneo a qualunque passione calcistica personale, a parte le sfocate esibizioni in maglia a strisce rievocata da qualche vecchia foto risalente ai tempi del liceo a Eton, scuola d’elite per eccellenza del Regno, il premier britannico non ha esitato fin dal primo minuto a fidarsi del proprio fiuto, a cogliere i sentimenti profondi di gran parte della sua gente. E a sfidare a viso aperto – “inorridito”, ha detto – i 12 club piu’ ricchi e titolari d’Europa che inizialmente avevano deciso di dare vita alla Superlega. Inclusi i 6 Grandi d’Inghilterra, due dei quali ha infine costretto a cedere sotto il peso d’una pressione crescente in attesa che anche altri (Liverpool e Manchester United, per esempio) possano seguire. La sua stella polare e’ stata la sintonia con il sentimento identitario del tifo calcistico inglese. E la forza di un movimento apertosi prima di tanti altri al business, ma non fino al punto estremo di arrendersi ora all’idea di un modello di sport-spettacolo americano. Questo progetto, aveva dichiarato Johnson gia’ domenica sera “e’ dannoso per il calcio”. Poi, assecondato dalle proteste dei fan di quasi tutte le squadre – comprese quelle candidate alla Superlega, fino alla discesa in piazza di centinaia di fan del Chelsea -, dallo sdegno della totalita’ dei partiti, dal no della stragrande maggioranza dei media, dal rifiuto di un numero crescente di addetti ai lavori (giocatori, vecchie glorie, allenatori di chiara fama come Jurgen Klopp o Pep Guardiola) e’ andato ancora oltre. Bollando l’iniziativa scissionista come una “operazione di cartello chiusa” alla competizione e ai valori dello sport. E non limitandosi alle critiche verbali – condivise con rara sintonia con Bruxelles e con altri leader di Paesi Ue – ma giungendo stamattina a convocare a Downing Street i vertici della FA (la Federcalcio inglese), della Premier League e rappresentanti delle tifoserie per ribadire nei fatti di essere “irremovibilmente” dalla loro parte, pronto a tutto – nessuna misura esclusa – per fermare il progetto dei 12, di voler rigettare il concetto che il football possa essere considerato solo “merce”. Tory e libertario di formazione, il primo ministro di Sua Maesta’ si e’ quindi spinto a bollare i potentati finanziari che controllano oggi i grandi club come “un pugno di miliardari” decisi a cercare di far valere il privilegio, in barba al fatto che le squadre di pallone – nemmeno se super danarose, nemmeno se ormai quotate in borsa – “non sono solo brand globali, bensi’ realta’ con un forte radicamento nelle proprie citta’ d’origine, nelle comunita’ locali, legati alla base dei loro sostenitori”. Sino alla minaccia finale, quella di una “bomba legislativa” – BoJo l’ha definita proprio cosi’ – di potenziali “soluzioni normative” ad hoc in grado di mettere i bastoni fra le ruote alla Superlega per sospetta violazione delle regole della concorrenza. Una minaccia che per il City degli arabi e il Chelsea di Roman Abramovich e’ stata sufficiente a indurre il ripensamento.