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Latte materno, lo studio del professor Berni Canani: un composto immunoregolatore protegge i bambini dalle allergie

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Il butirrato, un composto immunoregolatore, farebbe del latte materno una preziosa protezione contro le allergie nei bambini nei primi mesi di vita. È quanto emerge da una ricerca del CEINGE-Biotecnologie avanzate, che ha analizzato un campione di latte donato da cento madri campane nei primi mesi di allattamento. Il composto individuato sarebbe in grado di esercitare un’azione protettiva estremamente potente nei confronti delle allergie, patologie croniche molto diffuse che colpiscono in Italia oltre un bambino su quattro. 

Roberto Berni Canani è uno dei massimi esperti nel campo della gastroenterologia e della nutrizione pediatrica, direttore del Laboratorio di Immunonutrizione del CEINGE e del Programma di Allergologia Pediatrica del Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali della Federico II. “Il butirrato è un piccolo acido grasso a catena corta – spiega Berni Canani -, molto preservato nelle specie viventi, che è in grado di regolare efficacemente tutti i principali meccanismi di difesa nei riguardi della comparsa di patologie allergiche nei più piccoli. Ricevere attraverso il latte materno quotidianamente elevati livelli di butirrato è quindi un grande vantaggio per il bambino”. 

I ricercatori del CEINGE hanno analizzato una popolazione di 100 mamme campane, arruolate subito dopo il parto e sino al quinto mese di allattamento. “Abbiamo collezionato informazioni sulle loro abitudini alimentari e raccolto circa 500 campioni di latte, analizzando la presenza in essi del butirrato, che rappresenta una delle sostante più potenti in natura nella protezione dalle allergie”. 

Ormai da tempo il latte materno viene considerato una prima e fondamentale strategia di prevenzione contro le patologie allergiche. I dati clinici in nostro possesso, però, sono piuttosto discordanti: non sempre il latte sembra essere efficace allo stesso modo.  “La nostra ipotesi è che la composizione del latte materno sia influenzata dalla dieta della mamma – chiarisce il professor Berni Canani -. Dalla nostra ricerca infatti è emerso che il latte contiene effettivamente concentrazioni significative di butirrato, ma questa concentrazione non è sempre la spessa: varia a seconda delle abitudini alimentari della mamma. Più la madre segue una dieta sana, con un giusto apporto di fibre vegetali e aderente alla dieta mediterranea, maggiori risultano i livelli di butirrato nel latte materno”. 

Un’ipotesi che spiegherebbe dunque i dati contrastanti presenti in letteratura sull’efficacia del latte materno nella prevenzione delle allergie del bambino. In molti studi, infatti, si è attinto ad un campione molto ampio ed eterogeneo di mamme in allattamento, senza considerare che il latte e la sua composizione variano a seconda dell’ambiente e all’alimentazione. “Non possiamo paragonare, ad esempio, l’alimentazione di una mamma newyorchese con quella di una mamma che vive in campagna e consuma i prodotti della dieta mediterranea”, aggiunge il ricercatore. “Lo studio è uno spunto ulteriore per spingere le mamme in allattamento a nutrirsi in modo sano ed equilibrato, evitando il ricorso al cibo spazzatura”. 

Non tutti i bambini, però, hanno la fortuna di poter ricevere il latte materno. “Avendo individuato questo composto così potente, e avendo compreso quali sono le concentrazioni ideali, possiamo impiegarlo in aggiunta alle formule per i bambini che non ricevono il latte materno, così da favorire la prevenzione dell’allergia anche in questi soggetti”, ha concluse Berni Canani. Lo studio è stato svolto dal gruppo del professor Berni Canani in collaborazione con ricercatori dell’Università di Salerno, del CNR e dell’Ospedale Evangelico Betania, ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Allergy, organo ufficiale dell’Accademia Europea di Allergologia e Immunologia Clinica. 

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Neonata con rara malformazione nata a Salerno e gestita con competenza dai medici

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Parto eccezionale all’ospedale di Salerno. Una donna di 38 anni è stata dimessa dal Reparto di Gravidanza a Rischio dell’Aou San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, diretto dal dottor Mario Polichetti, dopo aver dato alla luce una neonata con una rarissima malformazione. La paziente era stata trasferita dall’ospedale di Polla al Ruggi dove ha partorito sua figlia che sta bene anche se è tuttora ricoverata nel reparto di Neonatologia, diretto dalla dottoressa Graziella Corbo, per ulteriori controlli. La neonata, di quasi 3 chili, è portatrice di una condizione genetica molto rara, denominata ‘Situs Inversus’, ovvero un collocamento anomalo degli organi del torace e dell’addome con inversione di posizione, rispetto alla loro sede usuale.

La piccola paziente, ha infatti il cuore, lo stomaco e la colecisti a destra ed una malformazione della vena cava, vicariata dalla vena emiazygos. “Il parto in questione – spiega Polichetti – è un evento davvero straordinario e deve essere gestito con estrema competenza, per evitare eventuali complicazioni, ma siamo fieri ed orgogliosi che si sia concluso nel migliore dei modi”.

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Una vita più lunga di 5 anni con le giuste abitudini

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Quando si tratta di longevità, il patrimonio genetico è importante. Lo stile di vita, però, lo è altrettanto, ed è in grado di compensare gli svantaggi derivanti da una cattiva predisposizione genetica. Anche le persone che hanno un profilo genetico che le espone a un maggior rischio di morte prematura, infatti, possono ribaltare la sorte e guadagnare oltre 5 anni di vita aderendo a stili di vita sani: non fumare, evitare l’alcol, avere una corretta alimentazione, svolgere attività fisica. A questo risultato è giunto uno studio internazionale pubblicato sulla rivista BMJ Evidence- Based Medicine. La ricerca ha coinvolto oltre 350 mila persone, classificandole sulla base del loro profilo genetico e dello stile di vita.

La prima scoperta a cui sono giunti i ricercatori è che le abitudini hanno un peso maggiore della genetica sull’aspettativa di vita: le persone con stili di vita dannosi avevano un rischio di morte prematura (prima dei 75 anni) del 78% più alto rispetto a quelli con stili di vita sani. La genetica, invece, aumenta solo del 21% le probabilità di morte precoce. Le cose si complicano notevolmente quando una persona con profilo genetico negativo ha stili di vita non sani: il tal caso il rischio di morire prima di compiere i 75 è più che doppio. Ciò che è più importante, però, è che quando una persona con una cattiva genetica aderisce a stili di vita sani il suo rischio si riduce del 54%.

Tradotto in anni, ciò equivale a 5,2 anni di vita guadagnati. “Le politiche di sanità pubblica per favorire stili di vita sani potrebbero costituire un potente complemento all’assistenza sanitaria e diminuire l’impatto dei fattori genetici sulla durata della vita umana”, scrivono i ricercatori. Nelle stesse ore in cui veniva pubblicato lo studio, un’altra ricerca – in tal caso condotta dall’Ufficio europeo dell’Oms – ha confermato che, per quel che riguarda gli stili di vita, la pandemia ha avuto un effetto distruttivo, soprattutto nei bambini.

La ricerca ha mostrato che, durante la pandemia, per il 35% dei piccoli tra 7-9 anni è aumentato il tempo trascorso a guardare la Tv, a usare videogiochi o social media; per il 28% si è ridotto il tempo trascorso nelle attività all’aperto. È inoltre raddoppiata, passando dall’8 al 16%, la percentuale di bambini percepiti in sovrappeso dai genitori. Per alcuni aspetti, le cose sono andate anche peggio in Italia, che è stato uno dei Paesi in cui si è più ridotto il tempo trascorso fuori (-40%) e si è registrato un più ampio aumento del sovrappeso percepito dai genitori, passato dal 10 al 25%. È anche calato il consumo di frutta e verdura e aumentato quello di snack dolci e salati. “Non possiamo permetterci di ignorare queste tendenze: nella nostra Regione, 1 bambino su 3 è in sovrappeso o obeso e già il consumo di frutta e verdura è basso”, ha detto Kremlin Wickramasinghe, esperto dell’Oms Europa. “Spero che questo rapporto faccia scattare l’allarme”.

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Borotalco al cancro, J&J propone 6,5 mld di dollari per chiudere le cause sul cancro

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Il colosso farmaceutico americano Johnson & Johnson ha presentato un piano per porre fine alle cause civili sul talco accusato di provocare il cancro in base al quale è disposto a pagare circa 6,5 ;;miliardi di dollari. “Questo piano è il culmine della nostra strategia di risoluzione consensuale annunciata in ottobre”, ha spiegato Erik Haas, vicepresidente degli affari legali di J&J, citato in un comunicato stampa. “Da quella data, il gruppo ha lavorato con gli avvocati che rappresentano la stragrande maggioranza dei ricorrenti per trovare una soluzione a questa controversia, che anticipiamo con questo piano”, ha detto. Secondo il piano, J&J ha accettato di pagare circa 6,475 miliardi di dollari in venticinque anni per reclami relativi a problemi ovarici (99,75% dei reclami attuali).

Gli altri disturbi riguardano il mesotelioma, soprannominato ‘cancro da amianto’, e vengono trattati separatamente. Il piano proposto prevede un periodo di tre mesi durante il quale i ricorrenti saranno informati della sua esistenza. Sarà convalidato se il 75% lo accetterà. Il gruppo precisa che gli avvocati dei ricorrenti che hanno collaborato al suo sviluppo “lo appoggiano”. Il talco è accusato di contenere amianto e di provocare il cancro alle ovaie. Cosa che l’azienda continua a smentire, anche se l’ha ritirato dal mercato nordamericano. Haas ha denunciato in questo senso la “distorsione degli studi scientifici”. Una sintesi degli studi pubblicati nel gennaio 2020 e riguardanti 250.000 donne negli Stati Uniti non ha trovato un legame statistico tra l’uso del talco sui genitali e il rischio di cancro alle ovaie.

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