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Politica

Alta tensione nel M5s, timori per accentramento Conte

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Passato il clamore e l’entusiasmo per l’adesione di Giuseppe Conte al Movimento e il battesimo officiato da Grillo per offrire il suo nome sull’altare della leadership pentastellata, il M5s affronta ora le conseguenze che questa scelta, un po’ affrettata e lontana dai protocolli delle forze politiche, sta imponendo al mondo pentastellato. Il progetto di rifondazione annunciato da Conte, al di la’ dei buoni propositi di rilancio ed innovazione della proposta politica, inizia infatti a suscitare qualche dubbio. Soprattutto nella parte, mai smentita, di voler azzerare gli organismi di rappresentanza di cui il Movimento, dopo un anno di preparazione degli Stati generali, si sta per dotare. Per arrivare, invece, ad una sorta di diarchia Conte-Luigi Di Maio che potrebbe poi tramutarsi, in vista delle future elezioni e una volta archiviata l’esperienza Draghi, ad un “tridente” anche con Alessandro Di Battista, il front-man delle piazze che la nuova dirigenza spera di poter recuperare. Non sono, dunque, solo le critiche al “caminetto” che, “senza alcun mandato della base”, ha deciso la svolta. E’ la sostanza della scelta di tornare ad affidare le redini del partito ad una “oligarchia”, come qualcuno gia’ la chiama, che impensierisce una parte del M5s. I dubbi sono emersi anche in occasione dell’assemblea dei gruppi. “C’e’ bisogno di un cambiamento” e l’ex premier “ci proporra’ un progetto”, annuncia Crimi cercando di smorzare le polemiche e assicurando come, finora, “nessuna decisione e’ stata assunta”. A porre la questione arriva pero’ l’intervento del senatore Primo Di Nicola che tuona, appunto, contro i “caminetti” convocati all’insaputa di tutti per decidere le sorti di un partito che invece si batte per una democratizzazione della sua organizzazione interna: “Mi auguro che voi non crediate ad una sola delle parole che avete detto” dice rivolto a Crimi e ai capigruppo. Lo sfogo segnala un malessere gia’ emerso nei giorni scorsi in Parlamento. Anche Luigi Gallo, esponente della vecchia ala ortodossa dei 5 stelle, evidenzia il problema. “Io spero in un processo democratico. E’ un’ esigenza emersa negli Stati Generali che hanno visto la partecipazione di 8 mila persone, in cui tutti hanno convenuto che il M5s ha bisogno di fortificare i processi di democrazia interna. Non e’ piu’ possibile continuare ad affidarci ad una democrazia ‘infantile'” dice il deputato che tuttavia assicura: “Io mi fido di Conte: credo che abbia capito”. Altra questione ormai divenuta bollente e’ quella del rapporto con Rousseau: “Bisogna decidere che fare, ci sono state ingerenze”, ammette Crimi in assemblea mentre si attende a breve anche una convocazione degli iscritti per votare sull’ingresso nella giunta laziale del M5s, con tutte le conseguenze che questa portera’ anche sul contestatissimo processo che portera’ per le candidature al Campidoglio. Ma la “tabula rasa” che la futura dirigenza intende portare avanti, include anche le relazioni con Davide Casaleggio, da “liquidare” con un assegno da circa 500 mila euro. Per poi ripensare tutta la comunicazione del Movimento, con altri strumenti, che decidera’ Rocco Casalino, che sara’ della partita. Intanto mentre tutti si chiedono che fine fara’ il dogma del tetto ai due mandati, restano le espulsioni. Al momento, resta la linea dura. Nessun reintegro, a meno che, in futuro, non dimostrino di aver cambiato idea. “A quel punto valuteremo”, e’ lo spiraglio aperto da Crimi. Anche se i ribelli, compresa Barbara Lezzi, procedono con i ricorsi: in Parlamento e in sede civile, dove chiederanno anche un’azione di risarcimento per “danni morali, di immagine ed esistenziali”.

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Separazione carriere, maggioranza accelera subito in Aula

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Forza Italia accelera sulla riforma della separazione delle carriere dei magistrati. E nelle stesse ore in cui la maggioranza incontrerà domani l’Associazione Nazionale Magistrati in Parlamento, il presidente dei senatori forzisti Maurizio Gasparri fa sapere di voler andare in Conferenza dei Capigruppo a chiedere che il testo venga calendarizzato per l’Aula anche senza che sia stato dato il mandato al relatore, cioè senza che si sia concluso l’esame in Commissione. In realtà lui, più che di accelerazione, preferisce parlare del “superamento del blocco dei lavori che si è creato in Commissione Affari Costituzionali per gli oltre 1000 emendamenti presentati dalle opposizioni”.

“Ci avrebbero inchiodato a quasi 700 ore di lavoro in Commissione e questo non è accettabile”, dichiara. Ma l’effetto, qualora la Capigruppo dovesse fissare per metà maggio la riforma in Aula, come si ipotizza, sarebbe comunque quello di arrivare al secondo voto del ddl (la Camera lo ha approvato il 16 gennaio), “ben prima dell’estate”. E questo significherebbe che si potrebbero riprendere in mano molte altre questioni, care soprattutto all’anima garantista di Forza Italia, che erano state messe in stand by per volere della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che non voleva avere troppi fronti aperti con i magistrati. Tra i ddl finiti nel cassetto c’è quello ad esempio di Pierantonio Zanettin (FI) che disciplina il sequestro di Pc e smartphone. E, probabilmente per far capire che a quelle battaglie Forza Italia non intende rinunciare, gli esponenti di punta in Commissione Giustizia e Affari Costituzionali della Camera, Enrico Costa e Tommaso Calderone, presentano tra le 10 e le 15 proposte di modifica al Decreto Sicurezza proprio su alcuni punti tra i più identitari della politica giudiziaria del partito. A cominciare da quella che difende la presunzione d’innocenza escludendo la custodia cautelare in carcere (nel caso in cui si tema la reiterazione di un reato dello stesso tipo di quello per il quale si è accusati) per chi è incensurato. Eccezion fatta per i casi di mafia e terrorismo.

Una misura che Costa aveva già sostenuto in un ordine del giorno presentato al decreto Nordio sulle carceri e che aveva già ricevuto il via libera del Governo. Anche la Lega, che con il ministro Roberto Calderoli sta rilanciando il tema dell’Autonomia, presenta degli emendamenti al provvedimento Sicurezza, un testo che è stato trasformato in decreto proprio per far prima e perché venga approvato così com’è. Ma, anche in questo caso, si fa capire che si tratta di battaglie di bandiera alle quali non si intende rinunciare e che probabilmente verranno riproposte non appena si garantirà un porto sicuro al disegno di legge costituzionale per la separazione delle carriere che è l’unica riforma, tra quelle annunciate da questo governo, che potrebbe davvero diventare legge. Si registra infatti una certa consapevolezza nella maggioranza che gli emendamenti di FI e Lega possano venir dichiarati inammissibili.

In ogni caso, Gasparri richiama alla realtà quando ricorda che il provvedimento Sicurezza, nella sua versione di disegno di legge, “era già stato approvato dalla Camera anche con il voto favorevole di Forza Italia”. Il che significa che, a prescindere dalle iniziative dei singoli, “il decreto Sicurezza verrà approvato nel testo e nei tempi previsti così come era avvenuto per il disegno di legge”. Con buona pace delle opposizioni che stanno depositando a Montecitorio valanghe di emendamenti al testo: solo 800 dal M5S e 500 dal Pd. E questo anche perché, a proposito di battaglie identitarie, nessun partito di maggioranza vuol lasciare all’altro, soprattutto alla vigilia di voti amministrativi importanti come quello di Genova, la bandiera della “sicurezza” e della “tutela delle forze dell’ordine”. Considerata da tutti patrimonio comune.

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L’ex ministro Bondi si racconta: «Ho scelto di farmi dimenticare, ma la politica non mi appartiene più»

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A distanza di anni dal suo addio alla scena pubblica, Sandro Bondi (foto Imagoeconomica in evidenza) torna a parlare. Lo fa con tono sommesso, riflessivo, in un’intervista al Corriere della Sera in cui ripercorre alcuni snodi della sua carriera politica, il rapporto con Silvio Berlusconi, l’attuale scenario politico e il senso della sua nuova vita a Novi Ligure, dove oggi ricopre — gratuitamente — il ruolo di direttore artistico del teatro Marenco.

«A Novi Ligure per amore e per restituire qualcosa»

«Ho accettato questo incarico per dare un contributo alla comunità in cui vivo. È un teatro bellissimo, restaurato anche grazie al Ministero dei Beni culturali», dice Bondi, senza mai ricordare che proprio lui fu, in passato, ministro della Cultura. Vive da quindici anni con Manuela Repetti, ex parlamentare come lui: «Ci siamo reinventati la vita. Di lei amo la sensibilità e la compassione per ogni essere vivente».

Lontano dalla politica, ma con uno sguardo vigile

«La politica non mi appartiene più», afferma con decisione. Nel 2018 si è ritirato a vita privata, convinto di aver partecipato a un progetto politico — Forza Italia — «di cui non è rimasto quasi nulla». Il giudizio su Matteo Renzi, con cui simpatizzò dopo l’addio al partito azzurro, è netto: «Una delusione politica e umana». E se di Elly Schlein apprezza l’onestà, ne critica l’indeterminatezza politica.

Il ricordo di Berlusconi e l’ammirazione per Meloni

Del suo lungo sodalizio con Silvio Berlusconi — iniziato grazie allo scultore Pietro Cascella — conserva «ricordi belli e meno belli». «Era un uomo complesso, indecifrabile. Avevamo un rapporto profondo». Lo affiancava ogni giorno ad Arcore, ma senza mai viaggiare con lui: «Avevo il terrore dell’aereo». Poi, con l’aiuto di Manuela, ha superato anche quella paura.

Di Giorgia Meloni dice: «Sta lavorando molto bene. L’Italia con lei è in buone mani». Apprezza anche Antonio Tajani e Raffaele Fitto: «Entrambi portano con sé un bagaglio europeo che li rende credibili. E Gianni Letta è una figura che continuo ad ammirare».

Il disincanto per il ministero e l’arte della rinascita

Della sua esperienza ministeriale non conserva nostalgia: «Non è un ricordo piacevole. Ogni cosa veniva strumentalizzata. Come il linciaggio per il crollo di un piccolo muro a Pompei». A Sgarbi, con cui condivise l’ambiente culturale, ha inviato un messaggio attraverso la sorella: «Spero possa rinascere».

«La mia fede è fragile. Come la memoria della Chiesa»

Bondi si descrive come un uomo semplice, tormentato dal pensiero della morte e dalla paura di non rivedere più chi ama. «La mia fede non è profonda. Anzi, ogni giorno che passa è sempre più fragile», confessa. E sul suo futuro dice con umiltà: «Mi piacerebbe essere ricordato come un uomo normale, con le sue paure, bisognoso di dare e ricevere amore».

 

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Il caso Almasri, il governo invia la memoria alla Cpi

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E’ stata trasmessa dal governo alla Corte penale internazionale la memoria difensiva sulla mancata consegna di Njiiem Almasri, il comandante libico arrestato e rimpatriato dopo pochi giorni nel gennaio scorso. Martedì sarebbero scaduti i termini della proroga chiesta e ottenuta da Roma rispetto alla deadline inizialmente fissata per il 17 marzo, e poi spostata al 22 aprile. Lunedì, dopo l’ultima richiesta di rinvio, l’incartamento è stato inviato agli uffici dell’Aja in formato digitale. L’atto, che riassume la posizione dell’esecutivo nell’affaire, è ora all’attenzione dei giudici con base nei Paesi Bassi che, in sostanza, accusano l’Italia di non aver eseguito il mandato d’arresto, di non aver perquisito Almasri, di non aver sequestrato i dispositivi in suo possesso e di aver sperperato denaro pubblico rimpatriandolo a Tripoli a bordo di un aereo dell’intelligence.

Secondo quando si apprende, non è escluso che nell’incartamento sia stato ribadito quanto affermato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel corso dell’informativa in Parlamento a febbraio scorso. In sostanza il numero uno di via Arenula aveva sostenuto che l’arresto del generale libico, accusato di crimini contro l’umanità, era avvenuto senza una preventiva consultazione con il ministero, che il mandato della Corte penale internazionale conteneva “gravissime anomalie” e dunque era “radicalmente nullo”. In Aula Nordio ha ricordato che è il ministero della Giustizia, secondo la legge 237 del 2012, a curare “in via esclusiva” – recita la norma – i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale. Ma nel caso di specie – è la posizione ribadita dal ministro – via Arenula è stata tagliata fuori fin dall’inizio.

Una notizia informale dell’arresto, avvenuto a Torino alle 9.30 del 19 gennaio, spiegò davanti ai parlamentari, “venne trasmessa da un funzionario Interpol a un dirigente del nostro ministero alle 12,37”. Solo il giorno dopo, lunedì 20 alle 12.40, il procuratore della Corte d’appello di Roma ha inviato “il complesso carteggio”. Ed alle 13.57 l’ambasciatore italiano all’Aja ha trasmesso al ministero la richiesta di arresto. La comunicazione della questura, ha spiegato a febbraio Nordio, “era pervenuta al ministero ad arresto già effettuato e, dunque, senza la preventiva trasmissione della richiesta di arresto a fini estradizionali emessa dalla Cpi al ministro”. Sul punto la Corte aveva assicurato di aver avviato il “dialogo con le autorità italiane per garantire l’efficace esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta” di arresto.

Il ministro ha puntualizzato che il dicastero “non ha” un ruolo da mero “passacarte”, ma è un “organo politico” che analizza e valuta bene prima di decidere. E mentre via Arenula valutava, la Corte d’appello di Roma scarcerava il libico, rilevando “irritualità” nell’arresto, perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia”, che, interessato il giorno prima dalla stessa Corte “non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito”. Nessuna negligenza, è stata quindi la posizione espressa dal Guardasigilli: nel documento della Cpi “c’erano tutta una serie di criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello”. La parola passa ora ai giudici della Corte penale che dovranno analizzare la memora trasmessa da Roma e se non dovessero essere convinti delle ragioni dell’Italia, potrebbero rinviare il dossier all’Assemblea degli Stati parte oppure al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

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