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Cronache

Il Csm caccia Palamara dalla magistratura e lui scende in politica con i Radicali

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Radiato dalla magistratura, di cui e’ stato a lungo un autorevole rappresentante, dopo essere stato espulso a giugno dal sindacato dei giudici e un anno fa sospeso dalle funzioni di sostituto procuratore a Roma e dal relativo stipendio. E’ la parabola di Luca Palamara, che e’ stato condannato dalla Sezione disciplinare del Csm alla sanzione piu’ severa, la rimozione dall’ordine giudiziario. Non era mai accaduto che un simile provvedimento fosse inflitto a una toga che come lui e’ stato presidente dell’Associazione nazionale magistrati e consigliere del Csm ,con ruoli chiave al vertice di Commissioni e di giudice disciplinare.La sua condanna e’ l’esito di una vicenda che ha provocato un terremoto senza precedenti nella magistratura italiana, con le dimissioni di cinque consiglieri del Csm e lo spettro, a lungo aleggiato, dello scioglimento dell’organo di autogoverno dei magistrati.

Luca Palamara. In un momento conviviale assieme alla signora Elena Boschi e l’ex vicepresidente del Csm Legnini

Lui comunque non demorde. Rinuncia a fare in aula dichiarazioni spontanee ma in una conferenza stampa al Partito Radicale annuncia che impugnera’ la condanna davanti alle Sezioni Unite della Cassazione e alla Corte dei diritti dell’Uomo di Straburgo .E va all’attacco: “sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava e che nei fatti si e’ dimostrato obsoleto e superato”, dice riferendosi a quello delle correnti della magistratura, di cui lui e’ stato uno dei principali leader. La vicenda che come dice lui gli ha bruciato 23 anni di carriera, e’ la riunione notturna in un hotel romano il 9 maggio del 2019 con i 5 consiglieri che si sono poi dimessi e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Oggetto, le strategie sulle future nomine dei procuratori di Roma e Perugia. Secondo la procura generale della Cassazione- che ha chiesto e ottenuto la dura condanna- fu Palamara a organizzare quell’incontro e a “pilotare” con i due politici (Lotti all’epoca era gia’ imputato nel processo Consip della procura di Roma) la nomina del successore di Giuseppe Pignatone. Lui agiva per “interessi personali”, perche’ concorreva nella capitale per il posto di procuratore aggiunto, e fini’ cosi’, -sempre secondo l’accusa -per condizionare le funzioni costituzionali del Csm. Addebiti che la Sezione disciplinare ha ritenuto fondati, ma che sia Palamara sia il suo difensore Stefano Guizzi, hanno respinto radicalmente, spiegando che le interlocuzioni sulle procure erano quelle normali di un capocorrente. “Non ho mai barattato la mia funzione per fare un favore al politico di turno . Non ho mai fatto accordi con nessun parlamentare perche’ un ipotetico procuratore della Repubblica potesse accomodare qualche processo” assicura Palamara nella conferenza stampa. Sarebbe stato “meglio” che Lotti non avesse partecipato a quella riunione,ma la sua presenza “non ha in alcun modo in alcun alterato la nomina del procuratore di Roma” .

Il Csm. Ricorso contro la nomina di Cantone a Perugia

Palamara spiega di non aver incontrato solo il parlamentare dem, visto che per i suoi ruoli di presidente dell’Anm e consigliere del Csm aveva, come pure i suoi colleghi, tanti rapporti politici sulle questioni della giustizia e sulle nomine: “di cene ne ho fatte tantissime e i nomi dei politici che ho incontrato li faro'”. Quel che e’ certo e’ che non intende affatto arrendersi: “porto e portero’ sempre la toga nel cuore, non intendo abbattermi, proseguiro’ il mio impegno per affermare la verita’ dei fatti” Poi l’annuncio dell’impegno accanto al Partito Radicale (che chiede una Commissione di inchiesta su questa vicenda).”Metto a disposizione della collettivita’ e del Partito radicale i valori che mi hanno sempre ispirato in nome del principio della giustizia giusta”.

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Last Banner, aumentano le condanne per gli ultrà della Juventus

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Sugli ultrà della Juventus la giustizia mette il carico da undici. Resta confermata l’ipotesi di associazione per delinquere, l’estorsione diventa ‘consumata’ e non solo più ‘tentata’, le condanne aumentano. Il processo d’appello per il caso Last Banner si chiude, a Torino, con una sentenza che vede Dino Mocciola, leader storico dei Drughi, passare da 4 anni e 10 mesi a 8 anni di carcere; per Salvatore Ceva, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo la pena raggiunge i 4 anni e 7 mesi, 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 mesi, 3 anni e 11 mesi. A Franzo viene anche revocata la condizionale.

La Corte subalpina, secondo quanto si ricava dal dispositivo, ha accettato l’impostazione del pg Chiara Maina, che aveva chiesto più severità rispetto al giudizio di primo grado. Secondo le accuse, le intemperanze da stadio e gli scioperi del tifo furono, nel corso della stagione 2018-19, gli strumenti con cui le frange più estreme della curva fecero pressione sulla Juventusper non perdere agevolazioni e privilegi in materia di biglietti. Fino a quando la società non presentò la denuncia che innescò una lunga e articolata indagine della Digos. Già la sentenza del tribunale, pronunciata nell’ottobre del 2021, era stata definita di portata storica perché non era mai successo che a un gruppo ultras venisse incollata l’etichetta di associazione per delinquere. Quella di appello si è spinta anche oltre.

Alcune settimane fa le tesi degli inquirenti avevano superato un primo vaglio della Cassazione: i supremi giudici, al termine di uno dei filoni secondari di Last Banner, avevano confermato la condanna (due mesi e 20 giorni poi ridotti in appello) inflitta a 57enne militante dei Drughi chiamato a rispondere di violenza privata: in occasione di un paio di partite casalinghe della Juve, il tifoso delimitò con il nastro adesivo le zone degli spalti che gli ultrà volevano per loro e allontanò in malo modo gli spettatori ‘ordinari’ che cercavano un posto. Oggi il commento a caldo di Luigi Chiappero, l’avvocato che insieme alla collega Maria Turco ha patrocinato la Juventus come legale di parte civile, è che “il risultato, cui si è giunti con una azione congiunta della questura e della società, è anche il frutto dell’impegno profuso per aumentare la funzionalità degli stadi”. “Senza la complessa macchina organizzativa allestita in materia di sicurezza – spiega il penalista – non si sarebbe mai potuto conoscere nei dettagli ciò che accadeva nella curva”. Fra le parti civili c’era anche Alberto Pairetto, l’uomo della Juventus incaricato di tenere i rapporti con gli ultrà.

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Malore in caserma, muore vigile del fuoco

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Ha accusato un malore nella notte tra domenica e lunedì nella caserma dei vigili del fuoco del Lingotto a Torino ed è morto dopo circa un’ora all’ospedale delle Molinette, dove era stato ricoverato. L’uomo, Samuele Del Ministro, aveva 50 anni ed era originario di Pescia (Pistoia). In una nota i colleghi del comando vigili del fuoco di Pistoia ricordano come Del Ministro avesse iniziato il suo percorso nel corpo nazionale dei vigili del fuoco con il servizio di leva, per poi entrare in servizio permanente nel 2001, proprio al comando provinciale di Torino, da cui fu poi trasferito al comando di Pistoia.

Per circa vent’anni ha prestato servizio nella sede distaccata di Montecatini Terme (Pistoia), specializzandosi in tecniche speleo alpino fluviali e tecniche di primo soccorso sanitario. Ha partecipato a tante fasi emergenziali sul territorio nazionale: dal terremoto a L’Aquila, all’incidente della Costa Concordia all’Isola del Giglio, fino al terremoto nel centro Italia. “Un vigile sempre in prima linea – si legge ancora -, poi il passaggio di qualifica al ruolo di capo squadra con assegnazione al comando vigilfuoco di Torino e a breve sarebbe rientrato al comando provinciale di Pistoia. Del Ministro lascia la moglie e due figli”.

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Nei campi 200 milioni di danni, razzia cinghiali

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Vigneti e uliveti, ma anche pascoli e prati, campi di mais e cereali, coltivazioni di girasole, ortaggi: è lunga la lista della razzia compiuta dalla fauna selvatica “incontrollata” dove i cinghiali, con una popolazione che ha raggiunto i 2,3 milioni di esemplari sul territorio nazionale, costituiscono il pericolo maggiore. La conseguenza sono 200 milioni di euro di danni solo nell’ultimo anno all’agricoltura italiana. La Puglia, con oltre 30 milioni di euro e 250mila cinghiali, e la Toscana con oltre 20 milioni di cui l’80% a causa dei 200mila cinghiali, sono le regioni che hanno pagato di più. Questa la fotografia scattata dalla Coldiretti in occasione delle 96 Assemblee organizzate in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con la partecipazione di oltre 50mila agricoltori, per celebrare dai territori gli 80 anni dell’associazione agricola.

In particolare, secondo la mappa realizzata da Coldiretti, nel Lazio i danni stimati dai soli cinghiali (100mila esemplari) superano i 10 milioni di euro e in alcuni casi riguardano anche l’80% del raccolto. Oltre 10 milioni di euro i danni stimati in Calabria. Un fenomeno che si sta espandendo anche ad aree prima meno frequentate come quelle del Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (20mila esemplari) e in Valle d’Aosta dove i cinghiali si sono spinti fino a quote che superano i 2mila metri. Pesante la situazione in Emilia Romagna dove solo nel Reggiano si stimano almeno 50mila esemplari; “dramma” sul fronte seminativi (specie per mais e girasole) in Umbria con una popolazione stimata di circa 150mila cinghiali. Sei milioni di euro i danni in Basilicata e 5 in Piemonte.

Qui la superficie danneggiata nel 2023 è stata di 34.432 ettari. Colpiti anche l’Abruzzo (i capi superano ampiamente le 100mila unità) con 4,5 milioni di euro di risarcimenti richiesti nel 2022, il Molise (40mila cinghiali) e la Campania (stimati danni per circa oltre 4 milioni di euro). Critica la situazione in Sardegna soprattutto a ridosso delle aree protette mentre in Sicilia non ci sono territori immuni e salgono i costi per la difesa, come i recinti elettrici. In Liguria da tempo i cinghiali si sono spinti fino alla costa e tanti i danni non solo alle colture ma anche ai tipici muretti a secco. Nelle Marche il 75% dei danni in agricoltura da fauna selvatica è causato dai cinghiali. Tra risarcimenti alle aziende agricole e da incidenti stradali la Regione spende circa 2 milioni di euro all’anno.

Risarcimenti, lamentano gli agricoltori, che arrivano spesso dopo molti anni e solo in minima parte. “Non coprono mai il valore reale del prodotto distrutto, con la conseguenza – rileva Coldiretti – che molti rinunciano a denunciare”. Cinghiali e fauna selvativa anche causa di incidenti, 170 nel 2023, ricorda l’associazione agricola, secondo l’analisi su dati Asaps, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A questo si aggiunge l’allarme della peste suina africana, non trasmissibile all’uomo, che i cinghiali, ricorda Coldiretti, rischiano di diffondere nelle campagne mettendo in pericolo gli allevamenti suinicoli e con essi un settore che, tra produzione e indotto, vale circa 20 miliardi di euro e dà lavoro a centomila persone. Da qui la richiesta dalle Assemblee Coldiretti “di mettere un freno immediato alla proliferazione dei selvatici, dando la possibilità agli agricoltori di difendere le proprie terre. Mancano, infatti, i piani regionali straordinari di contenimento”.

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