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Milano protesta, in piazza contro la Regione: sanità malata, troppi morti da covid

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Milano e’ scesa in piazza per protestare contro la gestione sanitaria dell’emergenza Covid da parte della Regione e quello che rischiava di essere un pomeriggio ad alta tensione, soprattutto per la presenza dei centri sociali sotto la sede della Lombardia, si e’ trasformato in una grande manifestazione in piazza Duomo, organizzata da decine di sigle e associazioni, e in un mini corteo pacifico degli antagonisti che, comunque, non hanno risparmiato slogan e scritte durissime contro i vertici dell’amministrazione regionale.

Alla manifestazione davanti al Duomo dal titolo ‘Salviamo la Lombardia’, promossa da Medicina Democratica, I Sentinelli, Milano 2030, Arci, Acli e molte altre sigle, per un totale, secondo gli organizzatori, di circa 3mila persone (con mascherine listate a lutto), un grande striscione bianco con una scritta rossa ha espresso l’obiettivo della piazza: “Commissariate la sanita’ lombarda”. Per l’eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino, tra gli organizzatori dell’evento a cui hanno preso parte anche parenti degli anziani morti nelle Rsa, “e’ il momento di dire basta alla Regione perche’ Fontana e soci hanno fatto molti danni e vanno fermati”.

Una protesta, quella davanti alla cattedrale, che si e’ aperta con un minuto di silenzio per i morti di Coronavirus, oltre 16mila in Lombardia, seguito da un applauso carico di commozione. Mentre dal palco si sono susseguite le testimonianze di familiari, medici di base e altri operatori che hanno lottato contro l’epidemia. “Abbiamo dovuto guardare i nostri concittadini che morivano da soli a casa – ha detto dal palco Cecilia Strada, ex presidente di Emergency – Serve aprire una riflessione sul sistema sanitario”. Intanto, davanti al palazzo della Regione si radunavano centri sociali, collettivi studenteschi e sindacati di base con l’obiettivo, come ripetevano ad uno ad uno gli antagonisti, di “cacciare chi ha gestito in modo criminale” la crisi del Covid.

E proprio un’enorme scritta “cacciamoli” e’ stata tracciata su una strada proprio sotto Palazzo Lombardia, mentre esponenti dei Carc (comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), alcuni dei quali gia’ indagati per minacce e diffamazione per altre scritte assieme a giovani del centro sociale Zam, hanno appeso cartelli con su scritto ancora una volta ‘Fontana assassino, commissariamento popolare’ e ‘Fontana Gallera Bonomi assassini, cacciarli e’ possibile’. E cori come ‘assassini, assassini’ hanno risuonato mentre i manifestanti, piu’ di 500, sfidando per solo una ventina di minuti i divieti anti Covid, hanno inscenato un corteo attorno a Palazzo Lombardia, raccomandando, pero’, il mantenimento delle distanze e l’uso delle mascherine, controllati dalle forze dell’ordine che non sono mai dovute intervenire. Tra i leader della protesta Valerio Ferrandi (figlio di Mario, ex di Prima), da anni ormai un nome dell’antagonismo milanese, coordinatore anche delle ‘brigate solidali’ che hanno portato cibo ai malati a casa in questi mesi. Era blindato anche piazzale Loreto perche’ si temevano disordini da parte degli anarchici, circa 200 in tutto, che hanno protestato al grido di ‘non vogliamo tornare alla normalita”. Si sono mossi in corteo e hanno imbrattato alcune vetrine di banche, ma non ci sono mai stati momenti di tensione. Tra loro anche Lello Valitutti, storico anarchico, amico di Pietro Valpreda.

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Last Banner, aumentano le condanne per gli ultrà della Juventus

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Sugli ultrà della Juventus la giustizia mette il carico da undici. Resta confermata l’ipotesi di associazione per delinquere, l’estorsione diventa ‘consumata’ e non solo più ‘tentata’, le condanne aumentano. Il processo d’appello per il caso Last Banner si chiude, a Torino, con una sentenza che vede Dino Mocciola, leader storico dei Drughi, passare da 4 anni e 10 mesi a 8 anni di carcere; per Salvatore Ceva, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo la pena raggiunge i 4 anni e 7 mesi, 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 mesi, 3 anni e 11 mesi. A Franzo viene anche revocata la condizionale.

La Corte subalpina, secondo quanto si ricava dal dispositivo, ha accettato l’impostazione del pg Chiara Maina, che aveva chiesto più severità rispetto al giudizio di primo grado. Secondo le accuse, le intemperanze da stadio e gli scioperi del tifo furono, nel corso della stagione 2018-19, gli strumenti con cui le frange più estreme della curva fecero pressione sulla Juventusper non perdere agevolazioni e privilegi in materia di biglietti. Fino a quando la società non presentò la denuncia che innescò una lunga e articolata indagine della Digos. Già la sentenza del tribunale, pronunciata nell’ottobre del 2021, era stata definita di portata storica perché non era mai successo che a un gruppo ultras venisse incollata l’etichetta di associazione per delinquere. Quella di appello si è spinta anche oltre.

Alcune settimane fa le tesi degli inquirenti avevano superato un primo vaglio della Cassazione: i supremi giudici, al termine di uno dei filoni secondari di Last Banner, avevano confermato la condanna (due mesi e 20 giorni poi ridotti in appello) inflitta a 57enne militante dei Drughi chiamato a rispondere di violenza privata: in occasione di un paio di partite casalinghe della Juve, il tifoso delimitò con il nastro adesivo le zone degli spalti che gli ultrà volevano per loro e allontanò in malo modo gli spettatori ‘ordinari’ che cercavano un posto. Oggi il commento a caldo di Luigi Chiappero, l’avvocato che insieme alla collega Maria Turco ha patrocinato la Juventus come legale di parte civile, è che “il risultato, cui si è giunti con una azione congiunta della questura e della società, è anche il frutto dell’impegno profuso per aumentare la funzionalità degli stadi”. “Senza la complessa macchina organizzativa allestita in materia di sicurezza – spiega il penalista – non si sarebbe mai potuto conoscere nei dettagli ciò che accadeva nella curva”. Fra le parti civili c’era anche Alberto Pairetto, l’uomo della Juventus incaricato di tenere i rapporti con gli ultrà.

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Malore in caserma, muore vigile del fuoco

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Ha accusato un malore nella notte tra domenica e lunedì nella caserma dei vigili del fuoco del Lingotto a Torino ed è morto dopo circa un’ora all’ospedale delle Molinette, dove era stato ricoverato. L’uomo, Samuele Del Ministro, aveva 50 anni ed era originario di Pescia (Pistoia). In una nota i colleghi del comando vigili del fuoco di Pistoia ricordano come Del Ministro avesse iniziato il suo percorso nel corpo nazionale dei vigili del fuoco con il servizio di leva, per poi entrare in servizio permanente nel 2001, proprio al comando provinciale di Torino, da cui fu poi trasferito al comando di Pistoia.

Per circa vent’anni ha prestato servizio nella sede distaccata di Montecatini Terme (Pistoia), specializzandosi in tecniche speleo alpino fluviali e tecniche di primo soccorso sanitario. Ha partecipato a tante fasi emergenziali sul territorio nazionale: dal terremoto a L’Aquila, all’incidente della Costa Concordia all’Isola del Giglio, fino al terremoto nel centro Italia. “Un vigile sempre in prima linea – si legge ancora -, poi il passaggio di qualifica al ruolo di capo squadra con assegnazione al comando vigilfuoco di Torino e a breve sarebbe rientrato al comando provinciale di Pistoia. Del Ministro lascia la moglie e due figli”.

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Nei campi 200 milioni di danni, razzia cinghiali

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Vigneti e uliveti, ma anche pascoli e prati, campi di mais e cereali, coltivazioni di girasole, ortaggi: è lunga la lista della razzia compiuta dalla fauna selvatica “incontrollata” dove i cinghiali, con una popolazione che ha raggiunto i 2,3 milioni di esemplari sul territorio nazionale, costituiscono il pericolo maggiore. La conseguenza sono 200 milioni di euro di danni solo nell’ultimo anno all’agricoltura italiana. La Puglia, con oltre 30 milioni di euro e 250mila cinghiali, e la Toscana con oltre 20 milioni di cui l’80% a causa dei 200mila cinghiali, sono le regioni che hanno pagato di più. Questa la fotografia scattata dalla Coldiretti in occasione delle 96 Assemblee organizzate in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con la partecipazione di oltre 50mila agricoltori, per celebrare dai territori gli 80 anni dell’associazione agricola.

In particolare, secondo la mappa realizzata da Coldiretti, nel Lazio i danni stimati dai soli cinghiali (100mila esemplari) superano i 10 milioni di euro e in alcuni casi riguardano anche l’80% del raccolto. Oltre 10 milioni di euro i danni stimati in Calabria. Un fenomeno che si sta espandendo anche ad aree prima meno frequentate come quelle del Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (20mila esemplari) e in Valle d’Aosta dove i cinghiali si sono spinti fino a quote che superano i 2mila metri. Pesante la situazione in Emilia Romagna dove solo nel Reggiano si stimano almeno 50mila esemplari; “dramma” sul fronte seminativi (specie per mais e girasole) in Umbria con una popolazione stimata di circa 150mila cinghiali. Sei milioni di euro i danni in Basilicata e 5 in Piemonte.

Qui la superficie danneggiata nel 2023 è stata di 34.432 ettari. Colpiti anche l’Abruzzo (i capi superano ampiamente le 100mila unità) con 4,5 milioni di euro di risarcimenti richiesti nel 2022, il Molise (40mila cinghiali) e la Campania (stimati danni per circa oltre 4 milioni di euro). Critica la situazione in Sardegna soprattutto a ridosso delle aree protette mentre in Sicilia non ci sono territori immuni e salgono i costi per la difesa, come i recinti elettrici. In Liguria da tempo i cinghiali si sono spinti fino alla costa e tanti i danni non solo alle colture ma anche ai tipici muretti a secco. Nelle Marche il 75% dei danni in agricoltura da fauna selvatica è causato dai cinghiali. Tra risarcimenti alle aziende agricole e da incidenti stradali la Regione spende circa 2 milioni di euro all’anno.

Risarcimenti, lamentano gli agricoltori, che arrivano spesso dopo molti anni e solo in minima parte. “Non coprono mai il valore reale del prodotto distrutto, con la conseguenza – rileva Coldiretti – che molti rinunciano a denunciare”. Cinghiali e fauna selvativa anche causa di incidenti, 170 nel 2023, ricorda l’associazione agricola, secondo l’analisi su dati Asaps, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A questo si aggiunge l’allarme della peste suina africana, non trasmissibile all’uomo, che i cinghiali, ricorda Coldiretti, rischiano di diffondere nelle campagne mettendo in pericolo gli allevamenti suinicoli e con essi un settore che, tra produzione e indotto, vale circa 20 miliardi di euro e dà lavoro a centomila persone. Da qui la richiesta dalle Assemblee Coldiretti “di mettere un freno immediato alla proliferazione dei selvatici, dando la possibilità agli agricoltori di difendere le proprie terre. Mancano, infatti, i piani regionali straordinari di contenimento”.

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