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Von der Leyen, l’economia dell’Italia cresce come non mai

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 L’Italia cresce, e cresce bene, come non mai. L’Ue certifica il percorso virtuoso avviato da Roma, facendo sembrare lontani anni luce i tempi in cui a Bruxelles ci si preoccupava soprattutto dei conti in disordine. Una crescita, sottolinea la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, favorita dalla “solidarieta’ europea”, grazie alle ingenti risorse del Recovery fund, ma anche dalla “capacita’ dell’Italia di gestire efficacemente la pandemia”. Un riconoscimento che arriva alla vigilia del primo bilaterale tra Mario Draghi ed il neocancelliere tedesco Olaf Scholz, a Palazzo Chigi. La recessione del 2020, dopo il primo anno di pandemia, sembra alla spalle. Quanto all’Italia, “sta crescendo piu’ in fretta che in qualunque altro momento dall’inizio di questo secolo”, ha sottolineato la presidente von der Leyen, al centenario dell’Universita’ Cattolica di Milano. Ricordando che il pil “ritornera’ ai livelli pre-crisi gia’ entro la meta’ del prossimo anno”. Una promozione piena per l’Italia, dopo gli attestati dell’Fmi e del settimanale britannico Economist, che ha incoronato l’Italia Paese dell’anno. “Impegno e risultati riconosciuti da tutti”, ha rilevato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Per l’Ue, adesso, la sfida e’ consolidare la crescita creando “un’economia piu’ sostenibile”, ha sottolineando von der Leyen, evocando una “nuova fase della storia”. Di questa nuova fase Italia e Germania saranno protagoniste, per il loro peso specifico tra i 27, e da questo punto di vista assume particolare rilevanza l’arrivo a Roma domani del capo del governo tedesco Olaf Scholz, terza tappa del suo tour nelle capitali europee dal suo insediamento, dopo Parigi e Bruxelles. Il faccia a faccia con Draghi si annuncia articolato, sullo sfondo della presidenza tedesca del G7 nel 2022: dalla crisi ucraina e alla lotta alla pandemia, alla luce della nuova emergenza Omicron, fino al dossier immigrazione. Anche se il piatto forte non potra’ non essere la riflessione sulla modifica del patto di stabilita’, per non imbrigliare la ripresa. Nella discussione su una riforma del patto, sospeso fino al 2023, l’Italia e’ in prima linea. Lo ha ribadito piu’ volte Draghi, sottolineando che i vincoli attuali di bilancio su deficit e debito sono insostenibili e dannosi, tanto piu’ che la pandemia ha reso necessarie enormi spese per affrontare le transizioni ecologiche e digitali. Roma puo’ contare sul sostegno di Parigi, che a gennaio assumera’ il semestre di presidenza Ue ed ha sollecitato regole piu’ semplici e un sistema che tenga anche conto di investimenti nuovi. Anche dalla Germania di Scholz Italia e Francia si attendono molto. Il nuovo esecutivo a guida socialdemocratica, almeno a parole, ha rinunciato al mantra del rigorismo dell’era Merkel ed ha iniziato un confronto sulle regole fiscali. Ed il suo ministro delle finanze, il leader liberale Christian Lindner, ha smesso i panni del falco riconoscendo la necessita’ di maggiori investimenti. Allo stesso tempo lo stesso Scholz ha puntualizzato che il patto di stabilita’ cosi’ com’e’ e’ gia’ flessibile. E questo lascia pensare che Berlino voglia mediare tra i falchi della disciplina fiscale, i cosiddetti frugali del Nord Europa, e i sostenitori di regole piu’ espansive. Che vorrebbero scorporare gli investimenti green e digitali dal deficit, aumentare le soglie del debito e fare in modo che i singoli Stati concordino con la Commissione un percorso personalizzato di riduzione del debito nazionale. A Bruxelles c’e’ ottimismo, e secondo commissario all’economia Paolo Gentiloni “il compromesso con i Paesi del rigore e’ possibile”. E segnali significativi in questo senso arrivano dall’Olanda, dove il premier conservatore Mark Rutte ha promesso un’ingente spesa per casa, istruzione, lotta al cambiamento climatico. Segnali opposti, tuttavia, continuano ad arrivare da altre capitali. E’ il caso del neoministro delle finanze austriaco, Magnus Brunner, che al suo primo Ecofin ha invocato un ritorno a “regole piu’ severe”.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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