Credevamo di sapere cosa fosse il nazionalismo: un monolite ideologico fondato sul binomio inscalfibile “sangue e suolo”. Per dire una combinazione di “etnia” e “territorio” in base alla quale si costruivano le politiche, si stringevano le alleanze, si disegnava l’iconografia geopolitica dei diversi “Stati” rappresentati -ed autorappresentati- appunto come “Nazioni”. Si pensava, anche, che i nazionalismi, in forza di queste fondamenta concettuali comuni, si condensassero in entità statuali affini, portate all’intesa, convergenti nella realizzazione dei rispettivi obiettivi.
La crisi ucraina, la sua trasformazione in un conflitto armato da parte della Russia, hanno dimostrato che il nazionalismo non è la montagna granitica che si poteva pensare. Piuttosto, è un vasto sistema collinare argilloso, malleabile, che si adatta alle circostanze storiche e geografiche che si trova ad affrontare.
Volodymyr Zelensky
Vladimir Putin
Per vero, già lo scontro tra i due attori primari della crisi può essere letto in chiave di conflitto tra due nazionalismi: quello secolare della Russia, quello fattuale dell’Ucraina. Tuttavia, ciò non rappresenta altro che la manifestazione di una contraddizione che il nazionalismo, comunque declinato, si porta dentro: il modello ralazionale di questa dottrina non è cooperativo, ma oppositivo. Porre se stessi in cima alla piramide dei valori, considerare come sacrilega ogni concessione a un altro Stato che non solo attentasse, ma anche solo limitasse, i propri interessi, non può che portare a una pratica competitiva delle relazioni internazionali con tutti i rischi di controversie, e dunque di conflitto, che ciò può comportare.
Queste piccole considerazioni devono accompagnarci per intendere che tipo di vento è quello che soffia da Est, dai regimi democratici dell’Europa orientale, che fanno parte o vogliono divenire membri dell’Unione Europea. Ieri, domenica 3 Aprile, si sono svolte libere elezioni in Ungheria e in Serbia. La destra nazionalista ha trionfato, in entrambi i Paesi.
I legami tra i partiti sovranisti di Salvini e Orban. Migranti ed economia sono spesso argomenti di discussione tra Matteo Salvini e Viktor Orban
Viktor Orban (nella foto in evidenza con il leader della Lega Salvini), con oltre il 53% dei voti, porta al Parlamento di Budapest i 2/3 dei seggi che gli serviranno quando, come è presumibile, vorrà cambiare la Costituzione: e cioè in rapporto al bisogno politico, come è perfettamente legale in regime democratico. Qualcuno aveva pensato che la grande e eterogenea coalizione guidata da Peter Marki-Zay avrebbe tallonato il FIDESZ, o addirittura sarebbe riuscito a disarcionare Orban, al potere dal 2010. Niente di tutto ciò: l’opposizione ha raccolto uno scarso 35%. Il fatto è che l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato il paesaggio politico-elettorale. Dal 24 Febbraio, quindi nelle ultime settimane a ridosso delle elezioni, non si è più parlato dei problemi dell’Ungheria: le libertà civili, le riforme sociali, lo sviluppo economico, la corruzione, la cristallizzazione del potere orbaniano. Si è parlato invece dell’Ucraina. E, in primis, della necessità –difesa a spada tratta da Orban- di non farsi coinvolgere nella “guerra degli altri” come massimo “interesse della Nazione”, accanto ovviamente ai buoni affari con la Russia, comprese le fonti energetiche da cui l’intero sistema produttivo e insediativo ungherese dipende. Un nazionalismo sceglie dunque la consonanza –non troppo strombazzata ma sostantiva- con un altro nazionalismo, quello russo, per delle “buone” ragioni nazionalistiche. Poco importa se ciò avviene in completa rottura con la posizione dell’UE e, più ampiamente, occidentale. Anzi. “La nostra vittoria si vede dalla Luna…e quindi non sfuggirà certo a Bruxelles” ha detto il premier a Budapest, ricevendo prontamente le congratulazioni dei sovranisti più accreditati, da Matteo Salvini a Marine Le Pen. E poco importa se ciò spacca la compattezza del gruppo (nazionalista) di Visegrad, dove la Polonia (nazionalista) è fortemente schierata con l’Ucraina fino al limite del coinvolgimento militare, ponendosi risolutamente al fianco degli Stati Uniti e ricevendo la visita del Presidente Biden in occasione del suo recente viaggio in terra d’Europa.
Serbia. Aleksandar Vucic ha rivinto le elezioni
Un copione, quello ungherese, che si replica in buona misura in Serbia, dove il voto ha premiato ancora una volta il Presidente
Aleksandar Vucic con il 60% di consensi sulla sua persona. Mentre il suo Partito Progressista Serbo (centro destra), è accreditato –a scrutinio ancora in corso- del 44%. Vittorie schiaccianti. Anche qui, i temi su cui l’opposizione Moramo (Dobbiamo) era riuscita a focalizzare la campagna elettorale, vale a dire l’ecologia, l’educazione, l’equità fiscale, la salute, la corruzione, sono stati spazzati via dalla guerra ucraina. La gente a Belgrado sa con chi sta Kiev, ricorda bene le bombe della NATO del 1999. Vucic ha costruito un discorso molto abile. Per un verso, si è proposto come “difensore della Nazione serba”, a cui ha promesso “Pace e Stabilità”. Per altro verso, ha fatto leva su questa memoria anti-NATO, ma proponendo il suo atteggiamento sostanzialmente pro-russo nel quadro di una interessante dottrina evolutiva del nazionalismo. Il messaggio che il presidente è riuscito a far passate, obliterando tutto il resto, è l’autonomia politica della Serbia perseguita senza tradire le radici storico-culturali serbe. Conciliare, cioè, il “nazionalismo etnico” e il “nazionalismo civico”. Probabilmente un’anticipazione delle frontiere ideologiche su cui si giocheranno le partite sovraniste del prossimo decennio.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Il segretario di Stato Marco Rubio ha detto al ministro degli esteri russo Serghei Lavrov che è il momento di mettere fine alla “guerra senza senso” in Ucraina. Rubio, in una recente intervista, ha definito la settimana in corso “cruciale” per capire le intenzioni di Russia e Ucraina, e per gli Stati Uniti per decidere se continuare o meno lo sforzo per la pace.
Nel corso del colloquio telefonico con Lavrov, Rubio ha messo in evidenza che “gli Stati Uniti sono seriamente intenzionati a porre fine a questa guerra insensata”, riferisce il Dipartimento di stato. Il segretario di stato ha quindi discusso con il ministro degli esteri russo dei “prossimi passi nelle trattative di pace e della necessità di porre fine alla guerra ora”.
L’era Merkel è lontana e anche la politica, per molti troppo prudente, di Olaf Scholz è alle spalle. Friedrich Merz ufficializza la squadra dei futuri ministri conservatori e punta, per tirare la Germania fuori dalla crisi, su nomi nuovi: due top manager per l’economia e la digitalizzazione del Paese, un mastino bavarese agli Interni per la svolta sull’immigrazione, e un esperto di Difesa versato in diplomazia, fautore del massimo sostegno a Kiev, al ministero degli Esteri. Con queste scelte il cancelliere in pectore, che dovrebbe essere eletto al Bundestag il 6 maggio, si è detto pronto ad affrontare le sfide dei prossimi anni e le molte incognite che assillano un’Europa “minacciata” e incerta del futuro.
“Il supporto all’Ucraina è necessario per preservare la pace e la libertà in Germania”, ha scandito prendendo la parola al piccolo congresso di partito dei democristiani, che hanno approvato a Berlino il contratto di coalizione firmato coi socialdemocratici di Lars Klingbeil. “Consideriamo il nostro aiuto all’Ucraina come uno sforzo congiunto di europei e americani dalla parte dell’Ucraina. Non siamo parte in causa in questa guerra e non vogliamo diventarlo, ma non siamo neanche terzi estranei o mediatori tra i fronti. Non ci devono essere dubbi sulla nostra posizione: senza se e senza ma, dalla parte di questo paese attaccato”, ha incalzato ribadendo il rifiuto di una pace imposta. Merz ha anche ribadito di non volere alcuna guerra commerciale con gli Usa, e di esser pronto a spendersi “con ogni forza per un mercato aperto”. Sul fronte migranti, ha assicurato la svolta, che dovrà strappare la Germania alla seduzione dell’ultradestra: “Dal giorno numero uno proteggeremo al meglio le nostre frontiere, con respingimenti massicci”.
Per realizzare questi piani, Merz ha scelto Johann Wadephul, 62 anni, come ministro degli Esteri. L’uomo della Cdu che in passato ha spinto per un sostegno pieno a Kiev, contestando le remore di Scholz e spingendo ad esempio per la consegna dei Taurus, che il Kanzler uscente ha sempre negato a Zelensky. Ex riservista dell’esercito, giurista e poi deputato dal 2009, è un fidatissimo di Merz, e viene ritenuto un grosso esperto di difesa: avrebbe potuto essere anche ministro del settore che andrà invece all’SPD e resterà a Boris Pistorius. Agli Interni sarà nominato il noto volto della Csu bavarese Alexander Dobrindt, “il nostro uomo di punta a Berlino per la questione centrale della svolta sui migranti”, nelle parole di Markus Soeder che ha presentato i tre ministri in quota del suo partito.
La stampa tedesca ha accolto con interesse anche le nomine della brandeburghese Katherina Reiche, 51 anni, all’Economia – top manager del settore energetico, e proveniente dall’est – e quella di Karsten Wildberger, 55 anni, ceo di Mediamarkt e Saturn, colossi dell’elettronica, designato alla Digitalizzazione all’Ammodernamento dello Stato. All’Istruzione andrà Karen Prien, dello Schleswig-Holstein, prima ebrea a ricoprire un incarico da ministra, secondo quanto ha scritto Stern. In squadra ci sono poi Patrick Schnieder ai Trasporti, Nina Warken alla Salute, Thorsten Frei come ministro per la Cancelleria e l’editore conservatore Wolfram Weimer come ministro di Stato alla Cultura. Mentre è stato ancora Soeder a ostentare la scelta del suo partito per la ministra alla Ricerca e all’Aerospazio, Dorothea Baer, e il ministero dell’Alimentazione Agricoltura e Patria: “Dopo un vegano verde arriva un macellaio nero”. Basta col tofu, ha ironizzato il populista bavarese. Il governo di Merz sarà completo soltanto quando i socialdemocratici ufficializzeranno i loro nomi, il 5 maggio. Il partito di Klingbeil attende il referendum della base, che dovrà pronunciarsi sul patto con Merz: il risultato è atteso il 30 aprile. E solo se sarà positivo Merz sarà eletto cancelliere al Bundestag, il 6 maggio. Ma all’Eliseo non hanno dubbi: è stata già annunciata una sua visita a Parigi il 7.
Poco dopo le 12 di oggi, migliaia di cittadini in tutta la Spagna continentale e in Portogallo sono stati colpiti da un improvviso blackout elettrico. Come riportato dal quotidiano “El País”, il governo spagnolo ha attivato diversi team tecnici di vari ministeri per indagare sulle cause dell’interruzione, anche se al momento non esiste ancora una spiegazione ufficiale.
Secondo quanto riferito da Red Eléctrica, l’azienda pubblica responsabile della gestione del sistema elettrico nazionale, si sta lavorando intensamente per ripristinare la fornitura di energia. Anche l’Istituto nazionale di cybersicurezza è coinvolto nelle analisi, valutando la possibilità che il blackout possa essere stato causato da un attacco informatico, sebbene non ci siano ancora conferme in tal senso.
Reti di comunicazione e trasporti in tilt
Il blackout ha avuto ripercussioni su diversi settori strategici: sono stati colpiti reti di comunicazione, aeroporti e linee ferroviarie ad alta velocità in Spagna e Portogallo. Problemi sono stati segnalati anche nella gestione del traffico stradale, con numerosi semafori fuori servizio, oltre che in centri commerciali e strutture pubbliche.
La ministra spagnola della Transizione ecologica, Sara Aagesen, ha fatto visita al centro di controllo di Red Eléctrica per seguire da vicino le operazioni di ripristino. L’azienda ha attivato un piano di emergenza che prevede il graduale ritorno alla normalità, iniziando dal nord e dal sud della penisola iberica.
Coinvolta anche la Francia meridionale
Le interruzioni non hanno riguardato esclusivamente la Spagna e il Portogallo: alcune aree del sud della Francia, interconnesse con la rete elettrica spagnola, hanno subito disagi simili. Le autorità francesi stanno monitorando attentamente la situazione in coordinamento con le controparti spagnole.