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Un altro Natale sotto Covid, festa a metà a Betlemme

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Nella Piazza della Mangiatoia a Betlemme i pochi cappelli di Babbo Natale e il suono dei tamburi ci ricordano che oggi e’ un giorno di festa. Ma la folla e’ scarsa, perche’ anche quest’anno il coronavirus ha rovinato i festeggiamenti del 24 dicembre. Secondo la tradizione cristiana luogo di nascita di Gesu’, Betlemme di solito vede affluire a Natale migliaia di turisti e pellegrini stranieri. Ma la citta’ della Cisgiordania occupata ha dovuto accontentarsi ancora una volta di celebrazioni ristrette, con Israele – che controlla l’accesso a questo territorio palestinese – che ha chiuso i confini per limitare la diffusione della variante Omicron del Covid-19. “E’ cosi’ diverso dagli altri anni, quando era affollato”, afferma Kristel Elayyan, proveniente da Gerusalemme. “‘Oh mio Dio, uno straniero!’, pensiamo ora quando ne incontriamo uno”, racconta sorridendo questa donna olandese sposata con un palestinese. Il Natale ai tempi del coronavirus e’ “un’esperienza interessante” e “piacevole”, ammette, ma non dovrebbe diventare un’abitudine. “Per una citta’ come Betlemme, che dipende interamente dal turismo, la pandemia e’ stata estremamente difficile. Non vediamo l’ora di rivedere i turisti”. Il ministro del turismo palestinese Rula Maayah e’ lieto che quest’anno, “grazie ai vaccini”, la citta’ torni a festeggiare dopo un’edizione 2020 ristretta. Nell’omelia per la messa di mezzanotte celebrata nella chiesa di Santa Caterina a Betlemme, l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, ha sottolineato che le celebrazioni sono state “certamente piu’ gioiose” dell’anno precedente. “Rispetto al Natale 2020, i partecipanti sono molto piu’ numerosi e questo e’ un segnale incoraggiante”, ha dichiarato davanti a un’assemblea interamente coperta dalle mascherine, lamentando pero’ l’assenza di fedeli stranieri.

“Preghiamo per loro e chiediamo loro di pregare per noi, affinche’ questa pandemia finisca presto e la citta’ di Betlemme sia di nuovo piena di pellegrini, come prima”. Nell’attigua Basilica della Nativita’, i visitatori hanno avuto la possibilita’ durante il giorno di poter meditare quasi da soli nella grotta dove nacque Gesu’. “Surreale”, ammette Hudson Harder, uno studente americano di 21 anni. “Egoisticamente, pensiamo che sia bello vedere questo posto cosi’ vuoto”, ha detto il giovane. “Ma d’altra parte, ci dispiace per i negozi, per i soldi che perdono. E’ piuttosto tragico”. I numerosi hotel della citta’ sono praticamente deserti in questi giorni. Alcune attivita’, pur essendo il giorno piu’ importante dell’anno, non si sono nemmeno degnate di aprire ieri. A pochi metri dalla basilica, davanti a un negozio di souvenir, le effigi dei papi Giovanni Paolo II e Francesco attendono i clienti. All’interno, Victor Epiphane Tabache festeggia il suo 57mo Natale dietro il bancone del piccolo negozio che pullula di statuine in legno e presepi. Per lui, come per molti commercianti intervistati in giro per la Piazza della Mangiatoia, “non c’e’ niente da dire sul Natale. Solo i boy-scout danno l’impressione che sia una festa”, si lamenta mentre tamburi, trombe e cornamuse risuonano nella loro sfilata. “La situazione e’ difficile”, spiega l’uomo che ha superato la pandemia solo grazie all’esportazione della sua merce, che nessun cliente e’ venuto ad acquistare di persona. “Abbiamo vissuto le intifade (rivolte palestinesi), le guerre. Ma il coronavirus e’ peggio”. Fuori, Maram Saeed fa un selfie di famiglia davanti al grande albero decorato con palline rosse e dorate. Per questo cristiano di Gerusalemme e’ un giorno di gioia dopo tanti giorni di depressione. “Ma non e’ ancora un anno normale: temiamo ancora il peggio, abbiamo ancora paura del Covid”, afferma. Il coronavirus “e’ peggio” dei conflitti: “in guerra conosciamo il nemico. Con il Covid parliamo di un nemico piccolissimo, che non vediamo”, conclude.

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Cina, a difesa della giustizia in colloqui con Usa su dazi

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La Cina promette di “non sacrificare la sua posizione di principio” e difendere “la giustizia” nei colloqui con gli Usa, assicurando di aver avviato negoziati dopo “appelli dell’industria e dei consumatori americani”, in merito agli incontri sul commercio che il vicepremier He Lifeng, a capo del dossier per conto di Pechino, avrà col segretario al Tesoro americano Scott Bessent nella sua visita in Svizzera del 9-12 maggio. “Se gli Usa vogliono risolvere la questione coi negoziati devono affrontare il grave impatto negativo delle tariffe unilaterali su sé stessi e sul mondo”, ha detto un portavoce del ministero del Commercio cinese.

La nuova amministrazione americana “ha adottato una serie di misure tariffarie irragionevoli e unilaterali, che hanno gravemente compromesso i legami economici e commerciali bilaterali e l’ordine economico e commerciale internazionale, ponendo serie sfide alla ripresa dell’economia globale”. Al fine di difendere i propri diritti e interessi legittimi, la Cina ha adottato contromisure decise, ha aggiunto il portavoce in una nota. Di recente, gli Usa “hanno espresso la volontà di avviare un dialogo sui dazi e sulle questioni correlate attraverso diversi canali”.

Dopo un’attenta valutazione dagli Stati Uniti, la Cina ha deciso di dialogare in scia “ad aspettative globali, interessi nazionali e richieste dell’industria e dei consumatori americani”. Il portavoce ha osservato che “la posizione della Cina è stata coerente: se costretta a combattere, combatterà fino alla fine e, sui colloqui, la porta è aperta. Qualsiasi negoziato deve basarsi sul rispetto reciproco, sull’uguaglianza e sul reciproco vantaggio”.

Pertanto, se gli Stati Uniti “vogliono risolvere i problemi attraverso il dialogo, devono affrontare l’impatto negativo dei loro dazi unilaterali e rispettare le regole del commercio internazionale, l’equità e la giustizia, nonché le voci razionali di tutti i settori”. Il portavoce ha osservato poi che gli Stati Uniti “devono dimostrare sincerità, correggere le proprie pratiche scorrette e venire incontro alla Cina nel tentativo di risolvere le preoccupazioni di entrambe le parti con una consultazione paritaria”, mettendo in guardia “contro qualsiasi tentativo di usare il dialogo come copertura per coercizione o ricatto”.

La Cina “non cercherà di raggiungere alcun accordo sacrificando i propri principi o la causa dell’equità e della giustizia internazionale”. Sui negoziati in corso tra Washington e altre economie, il portavoce ha notato che “il compromesso non guadagna rispetto”, mentre solo attenendosi con fermezza “a principi, equità e giustizia i Paesi possono salvaguardare i propri interessi”. Per questo, Pechino resta impegnata ad ampliare l’apertura e a difendere il sistema commerciale multilaterale incentrato sull’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).

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Caracas, i 5 dell’ambasciata liberi grazie a Usa e Italia

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Il giornalista venezuelano David Placer riferisce che le cinque persone che da oltre 14 mesi avevano ottenuto lo status di rifugiati da Buenos Aires nell’ambasciata argentina a Caracas sono state liberate da un’operazione congiunta di Stati Uniti e Italia. I cinque sono già arrivati “in salvo in territorio statunitense”, ha confermato poco fa l’account ufficiale del Dipartimento di Stato americano in lingua spagnola. Si sarebbe trattato dunque di una vera e propria fuga e non, come riportato inizialmente dal sito venezuelano AlbertoNews, di una liberazione dopo la concessione dei lasciapassare da parte del governo di Maduro.

“Gli Stati Uniti accolgono con favore il successo del salvataggio di tutti gli ostaggi trattenuti dal regime presso l’ambasciata argentina a Caracas. Dopo un’operazione precisa, tutti gli ostaggi sono ora sani e salvi sul suolo statunitense. L’illegittimo regime di Maduro ha minato le istituzioni venezuelane, violato i diritti umani e messo a repentaglio la nostra sicurezza regionale. Esprimiamo la nostra gratitudine a tutto il personale coinvolto in questa operazione e ai nostri partner che hanno contribuito alla liberazione sicura di questi eroi venezuelani”, ha scritto su X il segretario di Stato americano Marco Rubio.

Da parte sua, la leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado ha definito “impeccabile ed epica” l’operazione guidata dagli Stati Uniti. “Un’operazione impeccabile ed epica per la Libertà di cinque eroi del Venezuela. Il mio riconoscimento e infinito ringraziamento a tutti coloro che l’hanno resa possibile”, ha scritto la Machado sul suo profilo di X promettendo che “libereremo ciascuno dei nostri 900 eroi imprigionati da questa tirannia e 30 milioni di venezuelani. E con la libertà verrà il cambiamento irreversibile verso una Venezuela di prosperità, giustizia e pace”.

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Kashmir, l’India attacca e il Pakistan parla di “atto di guerra”

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Dopo settimane di tensioni seguite all’attentato in Kashmir del 22 aprile scorso, lo scontro tra India e Pakistan si fa aperto. L’esercito indiano ha avviato un’operazione contro obiettivi definiti terroristici con lancio di missili che hanno colpito il territorio pakistano del Punjab e infrastrutture nel Kashmir controllato dal Pakistan. Islamabad riferisce di avere abbattuto almeno cinque jet indiani e il portavoce dell’esercito pakistano, il tenente generale Ahmed Chaudhry, parla di otto civili uccisi, tra cui una bambina di tre anni, in 24 raid indiani in sei localita’ del Pakistan.

L’attacco indiano e’ un “atto di guerra al quale reagiremo in maniera forte”, ha fatto sapere il portavoce pakistano. Secondo l’esercito di Nuova Delhi tre civili indiani sono stati uccisi dai raid pakistani. La comunita’ internazionale e’ in allarme per un altro fronte di guerra che potrebbe aprirsi tra due potenze nucleari: gli Stati Uniti chiedono una ricomposizione della crisi, il Segretario di Stato Marco Rubio ha parlato con i consiglieri per la sicurezza nazionale dell’India e del Pakistan. Ha esortato entrambi a mantenere aperte le linee di comunicazione ed evitare l’escalation”. L’Iran si propone come mediatore: il ministro degli Esteri di Teheran, dopo una visita a Islamabad ieri sara’ in giornata a Nuova Delhi. “Il mondo non puo’ permettersi una guerra tra Inia e Pakistan”, dice il portavoce del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.

Le tensioni tra India e Pakistan, da sempre presenti, sono aumentate dopo il massacro di 25 turisti indiani e un cittadino nepalese avvenuto nella contesa regione himalayana del Kashmir il 22 aprile scorso. Un gruppo militante islamico sconosciuto, che si autodefinisce Fronte della Resistenza, ha rivendicato la responsabilita’ dell’attacco. L’India ha immediatamente accusato il Pakistan di fiancheggiare i terroristi senza fornire pubblicamente alcuna prova. Il Pakistan ha negato qualsiasi coinvolgimento ma le accuse reciproche tra Delhi e Islamabad sono andate avanti per giorni, con l’India che ha messo in atto una serie di misure punitive declassando i rapporti diplomatici, sospendendo un trattato fondamentale sulla condivisione delle acque e revocando tutti i visti rilasciati ai cittadini pakistani.

Per rappresaglia, il Pakistan ha chiuso il suo spazio aereo a tutte le compagnie aeree di proprieta’ indiana o gestite da indiani e ha sospeso tutti gli scambi commerciali con l’India, compresi quelli da e verso qualsiasi paese terzo. La regione del Kashmir e’ contesa dai due Paesi fin dalla sua istituzione nel 1947. Entrambe la rivendicano interamente, ma ciascuna controlla una porzione del territorio, separata da uno dei confini piu’ militarizzati al mondo: la cosiddetta “linea di controllo”, basata su un confine di cessate il fuoco stabilito dopo la guerra del 1947-48. La Cina controlla un’altra parte a est. L’India e il Pakistan sono entrati in guerra altre due volte per il Kashmir, l’ultima delle quali nel 1999.

La disputa ha origine dalla divisione dell’India coloniale nel 1947, quando piccoli “stati principeschi” semi-autonomi del subcontinente vennero annessi all’India o al Pakistan e il sovrano locale scelse di diventare parte dell’India nonostante la zona fosse a maggioranza musulmana. Gli insorti armati in Kashmir resistono a Delhi da decenni, con molti musulmani del Kashmir che sostengono l’obiettivo dei ribelli di unificare il territorio sotto il controllo pakistano o come stato indipendente.

L’India accusa il Pakistan di sostenere i militanti, un’accusa che il Pakistan nega. Nel 2019 il governo di Narendra Modi ha avviato una dura repressione della sicurezza nel Kashmir amministrato dall’India e ha revocato lo status speciale della regione, che le garantiva un’autonomia limitata dal 1949. L’iniziativa ha rispettato una promessa nazionalista indu’ di lunga data ed e’ stata accolta con favore in tutta l’India ma ha suscitato l’ira di molti nel territorio stesso. In un contesto di diffusa repressione, la violenza degli insorti si e’ attenuata e i turisti sono tornati nella regione. Fino all’attentato del 22 aprile che ha riacceso il conflitto tra le due potenze nucleari.

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