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Cronache

Silvia Romano, inchiesta su telefonate e video per tracciare i carcerieri

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I contatti tra il commando e i somali, avvenuti anche prima del rapimento, e i quattro video girati durante la prigionia e forniti come ‘prove di esistenza in vita’ di Silvia. Sono anche questi gli elementi che gli inquirenti hanno per cercare di individuare i carcerieri che per 18 mesi hanno tenuta segregata la volontaria italiana liberata venerdì scorso e tornata in Italia domenica. Un lavoro che punta ad individuare chi ha tradito la Romano e i livelli di sicurezza in chi operava in Kenia. I video in particolare, quattro in tutto e l’ultimo girato a ridosso del rilascio, potrebbero fornire elementi utili anche per agire sulla rogatoria con la Somalia: sono tutti stati fatti con un telefonino e girati dal carceriere che parlava inglese. “Mi diceva cosa dovevo dire, premettendo sempre nome, cognome e data”, ha ricordato Silvia Romano ai magistrati romani durante il primo colloquio di domenica scorsa.

Ph. da FB pagina Silvia Romano Libera

Dopo uno di questi video, il penultimo, filtrò anche l’indiscrezione di un matrimonio di Silvia e della sua conversione: la prima circostanza smentita dalla volontaria e la seconda invece confermata. Gli inquirenti ora stanno analizzando, mettendoli in connessione con la ricostruzione fornita dalla cooperante milanese, i documenti in loro possesso. Tra questi anche un serie di tabulati telefonici che potrebbero fornire risposte sui mandanti e organizzatori del sequestro. Agli atti dell’inchiesta ci sono, infatti, documenti acquisiti dai carabinieri del Ros nell’estate del 2019 nel corso di una missione effettuata in Kenia nell’ambito dell’accordo di collaborazione tra gli inquirenti dei due paesi culminato con un vertice a piazzale Clodio nel luglio dell’anno scorso.

I tabulati telefonici dimostrano come la banda di 8 criminali, che ha prelevato Silvia nel novembre del 2018, abbia avuto numerosi contatti con la Somalia sia prima che dopo il blitz avvenuto nelle vicinanze del villaggio Chakama a circa 80 chilometri da Malindi. Un elemento che avvalora ulteriormente l’ipotesi che quello della Romano è stato un sequestro fatto su commissione e pianificato in Somalia che ha fornito al commando criminale, denaro, armi e moto utilizzati per compiere l’azione e trasferire la ragazza in territorio somalo. Gli inquirenti potrebbero quindi svolgere ulteriori approfondimenti per cercare di risalire dai tracciati telefonici agli autori del sequestro che per chi indaga e’ stato messo in atto da appartenenti al gruppo islamista Al Shaabab.

Proprio oggi il gup di Bari ha condannato ad otto anni ed otto mesi di reclusione il 22enne somalo Mohsin Ibrahim Omar, alias Anas che in passato aveva avuto contatti con i jihadisti somali. Resta da chiarire chi ha tradito Silvia e se si nasconde tra chi doveva garantire la sua sicurezza nel villaggio dove svolgeva la sua attivita’ di volontariato per la onlus Africa Milele. Nei mesi in cui Romano è stata tenuta sotto sequestro, gli inquirenti hanno gia’ fatto indagini, ascoltando anche i vertici, sulla Onlus per verificare le modalita’ del viaggio e della permanenza della volontaria nel villaggio di Chakama. Ora dopo il racconto fatto dalla ragazza ai magistrati e alcune dichiarazioni rese dalla responsabile della ong i magistrati potrebbero volere proseguire su questo filone. Da quanto appreso Silvia, reduce già da un’esperienza come volontaria in Africa, fece un colloquio e un corso on line e poi fu mandata nel villaggio in Kenya. Conosceva l’inglese e dunque fu mandata in qualita’ di referente con diverse responsabilita’. “Non fu mai lasciata sola”, ha detto la responsabile della ong Lilian Sora sottolineando che per la sicurezza c’erano due “masai armati di machete” ma uno di loro “era al fiume” quando la ragazza fu rapita. Silvia era arrivata il 5 novembre e fu rapita il 20: “non avevamo fatto in tempo ad attivare l’assicurazione”, ha detto Lilian Sora.

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Cronache

Muore a 38 anni dopo intervento estetico in una clinica privata di Caserta

Sabrina Nardella, 38 anni di Gaeta, è morta durante un intervento estetico alla clinica Iatropolis di Caserta. Disposta l’autopsia per chiarire le cause del decesso.

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Sarà l’autopsia a stabilire con precisione che cosa ha provocato la morte di Sabrina Nardella (nella foto), 38 anni, madre di due figli piccoli, deceduta giovedì scorso nella clinica privata Iatropolis di Caserta durante un intervento di chirurgia estetica. La donna, residente a Gaeta, si era recata in Campania per sottoporsi a quello che le era stato prospettato come un intervento di routine, in anestesia locale e in day hospital.

Il malore improvviso e le indagini in corso

Durante l’operazione, però, Sabrina ha avuto un improvviso malore che l’ha portata a perdere conoscenza. I medici hanno tentato la rianimazione, ma ogni tentativo è stato vano. I vertici della clinica hanno subito avvertito i carabinieri, che su disposizione della Procura di Santa Maria Capua Vetere hanno sequestrato la cartella clinica e identificato l’équipe medica. I componenti saranno presto iscritti nel registro degli indagati in vista dell’autopsia, che servirà a chiarire cause e responsabilità.

Una comunità sconvolta dal dolore

La città di Gaeta è sotto shock. Il sindaco Cristian Leccese ha ricordato Sabrina con parole di grande commozione: «Era una persona dolce, un’ottima madre, conosciuta e stimata da tutti. La sua improvvisa scomparsa ha lasciato un profondo vuoto nella nostra comunità».

I precedenti inquietanti della clinica

La clinica Iatropolis non è nuova a casi simili. Un anno fa, la pianista Annabella Benincasa è morta dopo 14 anni di stato vegetativo, conseguenza di uno shock anafilattico subito nel 2010 proprio in questa struttura. In quell’occasione, i medici furono condannati per lesioni gravissime. Altri episodi di reazioni avverse all’anestesia si sono verificati negli anni, alimentando polemiche sulla sicurezza degli interventi praticati nella clinica.

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Cadavere nel lago, è un 51enne morto forse per un malore

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E’ un 51enne di Calvizzano (Napoli) l’uomo trovato senza vita nel lago di Lucrino a Pozzuoli. La salma è stata sequestrata per esami autoptici. Tra le ipotesi più accreditate c’è quella di un malore.

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Verso Conclave tra suffragio e diplomazia, domani la data

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Secondo il testo liturgico che definisce le regole e le modalità di cosa avviene dopo la morte di un Papa – l’Ordo Exsequiarum Romani Pontificis -, il Conclave inizia tra il 15/o e il 20/o giorno dal decesso, quindi tra il 5 e il 10 maggio prossimi. Oppure tra il 6 e l’11 maggio se si conta dal giorno successivo alla morte. Anche questo ‘busillis’ sarà risolto domattina, quando la quinta congregazione generale dei cardinali stabilirà la data definitiva. Il calendario della settimana prevede congregazioni la mattina alle 9.00 e, nel pomeriggio alle 17.00, le messe dei ‘novendiali’ nella Basilica vaticana: il ciclo dei nove giorni di suffragio, iniziato ieri con la messa esequiale presieduta in Piazza San Pietro dal cardinale decano Giovanni Battista Re, si esaurirà domenica 4 maggio.

Dopo di che il possibile ingresso in Sistina e l'”extra omnes” che apre il Conclave. I 135 ‘elettori’ (134 considerando il forfait per motivi di salute del cardinale di Valencia Antonio Canizares Llovera) stanno convergendo a Roma. Molti si conosceranno direttamente nelle congregazioni, dove, in tema di strategie che porteranno all’elezione del nuovo Papa, conterà molto anche il peso di non-elettori, cioè i cardinali ‘over-80’, che mantengono la loro capacità di influenza e di orientare consensi. Una sorta di ‘grandi elettori’, insomma, anche se poi nel chiuso della Sistina ognuno risponde a sé stesso e, secondo quello che è il metro cattolico, allo Spirito Santo. Tra questi ‘grandi vecchi’ c’è sicuramente il 91/enne decano Re, mentre non si sa tra gli italiani quanto potranno esercitare un ruolo di indirizzo ex presidenti Cei come Camillo Ruini e Angelo Bagnasco.

Fra gli stranieri con capacità di spostare voti, e non presenti in Conclave, ci sono il cardinale di Boston Sean Patrick O’Malley, il più attivo promotore della lotta agli abusi sessuali, quello di Vienna Christoph Schoenborn, fine teologo ex allievo di Joseph Ratzinger e fiduciario di papa Bergoglio in ruoli-guida di vari Sinodi come quelli sulla famiglia, o l’ex prefetto dei vescovi, il canadese Marc Ouellet, influente anche in America Latina, da ex presidente della Pontificia Commissione competente. Intanto oggi, la scena tra i ‘papabili’ è stata tutta per Pietro Parolin, già segretario di Stato, che ha presieduto in Piazza San Pietro la seconda messa dei ‘novendiali’, davanti ai 200 mila partecipanti al Giubileo degli adolescenti.

Da stretto collaboratore di papa Bergoglio, la sobrietà, il piglio sicuro ma anche affabile e umano con cui ha portato avanti la celebrazione ha ricordato quelli dell’allora prefetto per la Dottrina della fede e decano del Collegio cardinalizio Joseph Ratzinger nell’officiare venti anni fa i funerali di Giovanni Paolo II, uscendone come l’unico vero candidato alla successione. Nella messa di oggi, in cui ha assimilato la tristezza, il turbamento e lo smarrimento per la morte di Francesco a quelli degli “apostoli addolorati per la morte di Gesù”, Parolin è come se avesse esposto sinteticamente una sorta di suo ‘programma’, sulla scia del grande pontificato appena concluso. Ha spiegato che l'”eredità” del Pontefice “dobbiamo accoglierla e farla diventare vita vissuta, aprendoci alla misericordia di Dio e diventando anche noi misericordiosi gli uni verso gli altri”.

“Solo la misericordia guarisce e crea un mondo nuovo, spegnendo i fuochi della diffidenza, dell’odio e della violenza: questo è il grande insegnamento di Papa Francesco”, ha sottolineato, a proposito di un Pontefice che alla misericordia dedicò anche un Anno Santo straordinario. Papa Francesco “ci ha ricordato che non può esserci pace senza il riconoscimento dell’altro, senza l’attenzione a chi è più debole e, soprattutto, non può esserci mai la pace se non impariamo a perdonarci reciprocamente, usando tra di noi la stessa misericordia che Dio ha verso la nostra vita”. Una misericordia che è guida anche nell’azione diplomatica della Santa Sede, come si è visto ancora ieri nell’incontro in Basilica tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, in una foto che ha fatto il giro del mondo ed è rimasta l’emblema della giornata: non pochi l’hanno definita “l’ultimo miracolo di papa Francesco”.

Zelensky ieri ha anche incontrato proprio Parolin, capo della diplomazia d’Otretevere, ringraziando poi su X “per il sostegno al diritto dell’Ucraina all’autodifesa e al principio secondo cui le condizioni di pace non possono essere imposte al Paese vittima”. E oggi, per l’incontro in Basilica, l’ambasciatore ucraino Andrii Yurash ha riconosciuto con l’ANSA “il grande sostegno della Santa Sede”.

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