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Shock a Berlino: Merz cancelliere ma solo al secondo voto

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Friedrich Merz, a 69 anni, è il decimo cancelliere tedesco. Ma “che giornata!”, ha ammesso lui stesso, approdando finalmente in cancelleria in serata. Di fronte al sogno inseguito da una vita, un clamoroso inciampo è arrivato perfino sull’ultimo tratto di strada dell’eterno rivale di Angela Merkel. E questo non era mai successo a nessuno prima d’ora: un flop di dimensioni storiche al primo scrutinio, corretto in seconda battuta, quando ha raggiunto la maggioranza. “Sono molto consapevole della responsabilità che assumo oggi e lo faccio con umiltà, ma anche con determinazione e fiducia”, ha detto al passaggio di consegne in Kanzleramt, dove ha reso merito all’avversario Olaf Scholz.

“È un bene che la Germania oggi abbia di nuovo un governo con una maggioranza parlamentare. Siamo una coalizione di centro e sono certo che saremo in grado di risolvere i problemi del Paese con le nostre forze”. “Un passaggio del testimone – ha aggiunto – è anche sempre in test sulla maturità della democrazia. La Germania ha superato anche oggi questo test”.

Dopo una giornata che ha tenuto i tedeschi letteralmente col fiato sospeso, la Repubblica federale sarà governata da una piccola Grosse Koalition, che ha mostrato subito la fragilità dei suoi numeri esigui. Con lo sgambetto di chi evidentemente ha voluto lasciare un “promemoria” sia al leader dei democristiani, sia al suo braccio destro, il vicecancelliere Lars Klingbeil, giovane ministro delle Finanze socialdemocratico. Il risultato era prevedibile: l’ultradestra di Afd ha subito colto l’occasione per chiedere di tornare al voto. È stata Alice Weidel ad intimare al cancelliere in pectore di farsi da parte: “E’ la prima volta che accade una cosa positiva, perché una truffa elettorale di questa portata non può accadere, non si può diventare cancelliere in questo modo”.

Il carattere singolarissimo di questa giornata è apparso a tutti chiaro nella voce incerta della presidente del Bundestag, Julia Kloeckner, che arrivata in aula raggiante a prima mattina ha vistosamente cambiato tono di voce, nel corso della lettura dell’esito della prima tornata elettorale: 310 voti a favore, 307 contro, 3 astenuti e 1 malato. Mancano sei voti alla soglia della maggioranza necessaria di 316, sul totale dei 630 parlamentari.

“Friedrich Merz non è eletto cancelliere”, ha scandito l’ex ministra di Merkel – a sorpresa presente come ospite in tribuna – mentre il leader ha cercato di non far trapelare alcuna emozione, mostrandosi concentrato a prendere appunti. Poiché Unione ed Spd hanno insieme 328 seggi, si è subito aperto il giallo dei 18 franchi tiratori: enigma che probabilmente non troverà mai soluzione. Chi è stato e perchè? I sospetti ricadono sulle delusioni di tanti socialdemocratici, ma anche nelle file dei conservatori ci sono stati forti mal di pancia.

L’epilogo del malcontento è del tutto inedito e i parlamentari, ritiratisi nelle rispettive frazioni, hanno sondato per ore le possibilità giuridiche che avevano sul tavolo. Solo un accordo con i Verdi e la Linke ha reso possibile la seconda votazione – prevista entro 14 giorni dalla costituzione – già in giornata. È stata questa la volta buona: Merz ha ottenuto 325 voti a favore, 289 contro, una astensione, e ha potuto dare il via al percorso di rito: la nomina del presidente Frank-Walter Steinmeier, il giuramento prima coi suoi ministri in parlamento e infine il passaggio del testimone.

La nuova Groko si avvia al suo lavoro, ma i danni restano. La stabilità della politica tedesca sembra ormai appartenere al passato: “Anche qui è sempre più difficile costruire un governo che tenga”, ha commentato Spiegel, ricordando come esattamente sei mesi fa, il 6 novembre, fosse crollato il cosiddetto ‘Semaforo’, a causa dell’uscita dei liberali. Mentre la Bild ha sentenziato: “Il centro democratico non ha più forza”. Merz è convinto del contrario, e da domani – quando volerà a Parigi e a Varsavia – dovrà dimostrarlo.

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Israele distrugge l’aeroporto a Sanaa, tregua Usa-Houthi

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“Tutto il cielo di Sanaa è fumo, un’atmosfera di panico e paura”, ha scritto sui social un anonimo abitante della capitale yemenita dopo l’attacco dei caccia israeliani che ha distrutto l’aeroporto internazionale da anni in mano al gruppo filoiraniano degli Houthi. Oltre agli aerei civili che erano sulle piste dello scalo. Il secondo raid in 24 ore, in risposta al missile lanciato domenica sull’aeroporto di Tel Aviv, che ha beffato la difesa colpendo vicino al terminal principale dello scalo. Subito dopo, le minacce di rappresaglie reciproche tra Houthi e Israele, poi il colpo di scena. Il presidente Donald Trump ha annunciato dallo Studio Ovale che gli Stati Uniti porranno immediatamente fine ai bombardamenti contro gli ex ribelli che oggi governano buona parte dello Yemen poiché hanno informato l’amministrazione di “non voler più combattere”.

“Gli Houthi hanno capitolato”, ha reso noto il Commander in chief. “Ci fideremo della loro parola. Dicono che non colpiranno più le navi nel Mar Rosso: e questo era lo scopo del nostro lavoro”, ha aggiunto. Subito dopo, è arrivata la conferma di un accordo di cessate il fuoco tra Washington e gli yemeniti dall’Oman, tradizionale mediatore in Medio Oriente e che anche in questo caso ha tenuto i contatti con le due parti. Non c’è una tregua all’orizzonte invece tra Houthi e Israele. Un alto funzionario delle milizie ha assicurato che “le operazioni contro Israele a sostegno di Gaza continueranno”. Nelle ore precedenti decine di aerei da combattimento dello Stato ebraico hanno sganciato sull’aeroporto di Sanaa 50 bombe, mettendolo fuori uso in un quarto d’ora, ha fatto sapere l’Idf. Secondo fonti yemenite, sono stati attaccati almeno tre centrali elettriche, una scuola di aviazione e una fabbrica che produce elementi utili per assemblare missili.

L’operazione israeliana chiamata “Città delle formiche” mirava a rendere inutilizzabili gli hub dove approdano le armi inviate dai pasdaran. Il ministro della Difesa Israel Katz, in una nota congiunta con il premier Benyamin Netanyahu, ha puntato il dito verso la guida suprema della repubblica islamica, Ali Khamenei: “Questo è un messaggio di avvertimento al capo della piovra iraniana. Siete direttamente responsabili di ogni attacco degli Houthi contro lo Stato di Israele e pagherete interamente le conseguenze”, ha avvertito. Mentre l’annuncio di Trump sullo stop ai bombardamenti in Yemen ha provocato sconcerto tra i funzionari dello Stato ebraico. Per quanto riguarda Gaza, Gerusalemme ha affermato di non sapere nulla di una indiscrezione di fonte egiziana secondo cui il Cairo ha accettato la proposta americana di un cessate il fuoco nella Striscia prima della visita di Trump in Medio Oriente che comprende l’apertura di corridoi umanitari verso Gaza e il rilascio di un numero limitato di ostaggi, tra cui l’israelo-americano Idan Alexander.

Il governo israeliano sta riponendo nel frattempo grandi speranze sul viaggio del presidente Usa a Doha: l’auspicio è che convinca i qatarioti a fare pressing su Mohammed Sinwar, attuale leader militare di Hamas, affinché ammorbidisca le posizioni sui rapiti e accetti di disarmare. E proprio il presidente statunitense ha annunciato che prima di partire per l’Arabia Saudita il 13 maggio farà “un grande annuncio, e sarà molto positivo”. Secondo la tv saudita al Arabiya ”la comunicazione sarà sull’invio di aiuti a Gaza” che gli Usa sarebbero pronti a inviare con una iniziativa unilaterale. Intanto sul terreno le ruspe militari dell’Idf hanno di fatto dato il via all’operazione Carri di Gedeone, iniziando gli sbancamenti di terra nel sud-ovest della Striscia per allestire centri logistici dove verrà evacuata la popolazione del nord e del centro di Gaza.

Non si tratta di un’area continua, bensì di vaste zone intorno a Rafah, praticamente deserte e con la maggior parte degli edifici rasi al suolo. Un’azienda Usa distribuirà aiuti alimentari, medicinali e servizi igienico-sanitari. Le consegne passeranno attraverso il valico di Kerem Shalom, ispezionate e scortate dall’Idf. La società americana, che attualmente gestisce l’ispezione dei civili verso il settentrione dell’enclave, provvederà alla distribuzione. L’esercito, insieme con lo Shin Bet, impedirà ai terroristi di Hamas e della Jihad islamica palestinese di fuggire dalle future zone di combattimento della fase tre del piano, di usare la popolazione civile come scudo umano e rubare per sé e rivendere gli aiuti umanitari.

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Effetto Trump, i segnali delle destre europee

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La risposta dell’Europa ai cataclismi dell’era Trump, nonostante i progressi sensibili delle ultime settimane, ancora deve essere formulata in maniera concreta, piena e condivisa. Ma nel frattempo, in pochi giorni, sono arrivati segnali significativi da parte delle destre europee che in qualche modo si ispirano a Trump e che dal nuovo governo americano sono spesso sostenute. Il voto locale nel Regno Unito, il primo turno delle presidenziali in Romania e la vicenda Afd in Germania rappresentano conferme della crescita della destra nel Vecchio Continente e danno spunti di riflessione importanti. Senza contare l’inizio zoppicante dell’era Merz e il messaggio molto chiaro giunto dalla sua stessa maggioranza al primo voto per la sua elezione al Bundestag: la sua non sarà una navigazione facile. E questa non è una buona notizia per l’Europa che cerca di trovare una nuova unità di fronte al cambiamento epocale che Trump sta portando negli equilibri globali e nel rapporto transatlantico ormai ridotto ai minimi termini, contando anche su un ritorno dell’asse franco-tedesco che al momento non sembra così facile.

In Europa sembra apparentemente accadere il contrario di quello che è successo in Canada e Australia, due Paesi storicamente alleati degli Usa. Ma i cittadini di questi Stati non hanno esitato a cambiare in corsa le loro intenzioni di voto premiando i partiti progressisti che si erano schierati contro Trump e punendo quelli che invece si erano schierati con il tycoon e che erano favoriti fino a qualche settimana fa. L’effetto Trump ha preso una sua strada netta a Ottawa e Canberra mentre in Europa le cose, almeno in queste settimane, sono andate in un altro modo. Nel Regno Unito il partito trumpiano di Nigel Farage ha vinto in maniera clamorosa le elezioni locali e anche quelle suppletive per un seggio in parlamento. Reform Uk ‘rischia’, secondo alcuni sondaggi, di crescere ancora da qui alle prossime elezioni e secondo alcuni analisti potrebbe diventare il primo partito del Paese o comunque il vero riferimento della destra britannica superando i conservatori, precipitati in una crisi profonda dopo le prove disastrose degli ultimi governi. Anche il nuovo avvicinamento di Starmer all’Ue potrebbe avere ora qualche rallentamento.

La netta vittoria di George Simion rilancia la destra rumena, dopo l’annullamento delle precedenti elezioni. Il premier Ciolacu si è dimesso e Georgescu – che aveva vinto il primo turno delle elezioni poi annullate – potrebbe addirittura essere nominato primo ministro nel caso in cui Simion dovesse vincere il ballottaggio. La Romania, comunque vada, sembra sempre più avvicinarsi a quei Paesi populisti e sovranisti dell’est Europa come l’Ungheria di Orban. La vicenda Afd in Germania riporta l’attenzione su un partito controverso e che ha già suscitato critiche e sospetti. La chiara affermazione dell’intelligence tedesca – secondo cui il partito è di estrema destra e pericoloso – ha scatenato polemiche in Germania e in Europa. Ma, anche qui, i sondaggisti avvertono che l’Afd continua a crescere nelle intenzioni di voto dei cittadini tedeschi.

Inoltre nella vicenda dell’Afd bisogna sottolineare l’intervento a gamba tesa del segretario di Stato americano Marco Rubio che ha criticato gli 007 tedeschi e ha difeso il partito che già aveva, in passato, ricevuto l’esplicito appoggio di Elon Musk. Una volta, tutto questo si sarebbe chiamato ingerenza negli affari interni di un altro Paese, ma al di là di questo il dato è che l’America di Trump si schiera con l’Afd. E’ chiaro che una situazione del genere – con Paesi e partiti europei che si ispirano chiaramente alla nuova politica americana – rende complicati gli sforzi dell’Ue per la ricerca di posizioni unitarie nella risposta a Trump sui dazi, sull’Ucraina e sui rapporti tra Washington e Bruxelles. E’ tutto più difficile. Ma la strada europea nella ricerca di risposte comuni alle sfide dell’era Trump è segnata. Indietro non si può tornare.

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I droni ucraini piovono su Mosca a 3 giorni dalla parata

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Le forze ucraine hanno attaccato la regione di Mosca con una pioggia di droni tre giorni prima della grande parata sulla Piazza Rossa per il giorno della Vittoria, alla quale saranno presenti decine di leader stranieri. Tra questi, il presidente cinese Xi Jinping, mentre soldati di Pechino sfileranno con quelli russi. Gli attacchi, in cui non si segnalano vittime né danni gravi, hanno fatto seguito a un avvertimento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che, respingendo la proposta di un cessate il fuoco dall’8 al 10 maggio avanzata da Vladimir Putin, aveva detto di non potere “garantire la sicurezza” dei capi di Stato e di governo che il 9 parteciperanno alle celebrazioni nel cuore di Mosca.

Degli oltre cento droni lanciati sul territorio russo durante la notte, 19 sono stati intercettati sulla regione di Mosca, secondo quanto reso noto dal ministero della Difesa. Tutti e quattro gli aeroporti della capitale sono stati chiusi per diverse ore, oltre agli scali di Kaluga, Saratov e Volgograd (la ex Stalingrado), anch’esse prese di mira. Alcuni rottami dei velivoli abbattuti sono precipitati su una delle principali autostrade che portano alla città senza provocare vittime, ha detto il sindaco, Serghei Sobyanin. A metà pomeriggio la contraerea è tornata in attività per abbattere almeno altri due velivoli senza pilota che facevano rotta verso Mosca e le autorità hanno disposto nuovamente la chiusura di due aeroporti della capitale, Vnukovo e Domodedovo. In Ucraina, invece, tre persone sono rimaste uccise e sette ferite in un raid missilistico russo a Sumy, secondo quanto reso noto dalle autorità locali. Il Cremlino ha assicurato che intende comunque applicare il cessate il fuoco di tre giorni ordinato da Putin, ma in caso di attacchi ucraini le forze russe daranno “immediatamente una risposta adeguata”.

Zelensky ha definito la proposta di tregua un “tentativo di manipolazione” e finora da Kiev non è arrivata “nemmeno una dichiarazione” che mostri la disponibilità ad aderire all’iniziativa, ha sottolineato il portavoce di Putin, Dmitry Peskov. Un segnale positivo è invece arrivato da un nuovo scambio di prigionieri, 205 per parte, avvenuto nelle ultime ore grazie alla mediazione degli Emirati arabi uniti. Il consigliere presidenziale russo Yuri Ushakov ha annunciato che saranno 29 i capi di Stato e di governo stranieri alla parata per l”80/o anniversario della vittoria sul nazifascismo. Sulla Piazza Rossa sfileranno anche truppe cinesi e di altri 12 Paesi, tra i quali l’Egitto. Fonti diplomatiche di Pechino ritengono “possibile” anche la presenza del leader nordcoreano Kim Jong-un, le cui truppe hanno aiutato quelle russe nella controffensiva per respingere oltre confine le forze d’invasione ucraine nella regione di Kursk. Resta da vedere, secondo le stesse fonti, se Xi Jinping accetterà di apparire vicino a Kim proprio mentre è impegnato a “riallacciare i legami con Bruxelles e nel mezzo delle forti tensioni commerciali sino-americane”.

Il giorno prima della parata, l’ 8 maggio, Xi incontrerà Putin per un colloquio in cui si discuterà anche “della questione ucraina e delle relazioni russo-americane”, ha sottolineato Ushakov, tornando sui quattro faccia a faccia avuti dall’inviato Usa Steve Witkoff con Putin al Cremlino, l’ultimo dei quali il 25 aprile. Durante questi colloqui, ha precisato il consigliere, si è discusso anche delle richieste territoriali della Russia, che vorrebbe, oltre alla Crimea, il controllo delle quattro regioni ucraine ora parzialmente occupate: Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson.

Venerdì Putin ha invece in programma incontri bilaterali con il presidente serbo Aleksandar Vucic e con il primo ministro slovacco Robert Fico, l’unico leader di un Paese Ue presente alle celebrazioni, che offrono al presidente russo l’opportunità per affermare che la Russia, dopo oltre tre anni di conflitto, non è affatto isolata. In questo quadro rientrano anche i colloqui telefonici avuti oggi da Putin con il presidente iraniano Massud Pezeshkian e, per la prima volta dal 2023, con il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Iniziative che hanno il sapore di un tentativo di mediazione, mentre torna ad aleggiare lo spettro di una guerra tra Israele e l’Iran dopo l’attacco missilistico degli Houthi yemeniti, alleati di Teheran, sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.

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