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Salute

Meningite scambiata per mal di testa, muore a 27 anni

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Due errori medici sono costati la vita ad una ragazza di 27 anni a Roma. Due diagnosi errate effettuate nei Pronto Soccorso di nosocomi della Capitale: una grave forma di meningite scambiata per mal di testa e lombosciatalgia. E’ quanto emerge dalla consulenza medico-legale disposta dalla Procura nell’ambito dell’indagine che vede indagati per omicidio colposo tre medici in relazione alla morte di Valeria Fioravanti, deceduta il 10 gennaio scorso. Secondo quanto messo nero su bianco i consulenti del pm la malattia che uccise la ragazza non venne riconosciuta, non si eseguirono gli esami specifici per tempo nonostante il quadro clinico suggerisse di verificare se la paziente fosse affetta da meningite. Della vicenda scrive oggi il quotidiano la Repubblica.

Nei Pronto Soccorso di due ospedali, dove la ragazza si è recata per farsi visitare alla luce dei forti dolori, non fu accertata la malattia. Al policlinico Casilino, secondo quanto riporta il quotidiano, gli fu diagnosticata una cefalea causata da un movimento “incongruo” compiuto mentre si lavava i capelli. Il secondo errore, a sette giorni di distanza, al San Giovanni Addolorata dove le venne diagnosticata una lombo sciatalgia. Alla giovane è stata quindi prescritta una cura farmacologica a base di Toradol. Secondo il capo di imputazione i medici sono stati “superficiali” nel trattare la paziente. Oltre la diagnosi sbagliata, la somministrazione del potente antinfiammatorio, che ha sostanzialmente eliminato il dolore ma non ha fermato il decorso della malattia, ha reso impossibile un intervento celere per scongiurare il decesso.

Tutto inizia il giorno di Natale dello scorso anno. Valeria si reca al Campus Bio medico per la rimozione di un foruncolo infiammato. Le viene asportato con due punti di sutura. Esce dall’ospedale ma continua a stare male e il 29 dicembre, accompagnata dai familiari, va al Policlinico Casilino. Qui i medici riscontrano una cefalea forse dovuta ad un movimento sbagliato mentre si lavava i capelli. Le viene prescritto il Toradol da assumere per dieci giorni. Il quadro non migliora e dopo una nuova visita, la 27enne, il 4 gennaio, si reca al San Giovanni Addolorata. Le viene effettuata una tac lombo sacrale: per i dottori si tratta di sospetta lombo sciatalgia. Altro Toradol. Due giorni dopo l’ultima visita la situazione precipita. La ragazza si presenta di nuovo al San Giovanni. Da una tac celebrale emerge una meningite acuta in fase conclamata.

Da qui la corsa contro il tempo per salvargli la vita ma il quadro clinico diventa drammatico al punto che la ragazza muore il 10 gennaio nonostante i disperati tentativi di evitare la morte. La meningite è una malattia endemica in Italia, a bassa contagiosità ma ad alta letalità, con un sintomo che appare banale come il mal di testa, che si accompagna ad altri segni che devono essere colti prontamente. Tra le malattie che vi sono comunemente in Italia, è proprio quella di origine infettiva con il più alto rischio di morte, che può arrivare anche all’8-10%, molto più del Covid, spiega Carlo Signorelli, professore ordinario di Igiene dell’Università Vita-Salute San Raffaele alla luce della vicenda della giovane. “Oggi abbiamo la possibilità di vaccinare contro la meningite meningicoccica sia A, che C, che B – spiega l’esperto -. Il calendario vaccinale oggi per i nuovi nati e per gli adolescenti offre il vaccino. Si tratta di una vaccinazione non obbligatoria, ma è fortemente consigliata. Casi come quello del decesso di una ragazza a Roma qualche tempo fa mostrano quanto sia pericolosa”.

L’esperto spiega inoltre che la meningite “non è una malattia facile da diagnosticare. Il mal di testa è uno dei sintomi più importanti, ma è anche vero che è un sintomo molto poco specifico, che può insorgere per tantissime altre cause. Oltre al mal di testa si possono presentare rigidità della nuca, febbre, senso di confusione, annebbiamento mentale, sonnolenza. In alcuni casi si può manifestare anche vomito”. “La malattia è di origine batterica – conclude Signorelli – normalmente sensibile agli antibiotici, quindi la diagnosi precoce è fondamentale”.

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Salute

Borotalco al cancro, J&J propone 6,5 mld di dollari per chiudere le cause sul cancro

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Il colosso farmaceutico americano Johnson & Johnson ha presentato un piano per porre fine alle cause civili sul talco accusato di provocare il cancro in base al quale è disposto a pagare circa 6,5 ;;miliardi di dollari. “Questo piano è il culmine della nostra strategia di risoluzione consensuale annunciata in ottobre”, ha spiegato Erik Haas, vicepresidente degli affari legali di J&J, citato in un comunicato stampa. “Da quella data, il gruppo ha lavorato con gli avvocati che rappresentano la stragrande maggioranza dei ricorrenti per trovare una soluzione a questa controversia, che anticipiamo con questo piano”, ha detto. Secondo il piano, J&J ha accettato di pagare circa 6,475 miliardi di dollari in venticinque anni per reclami relativi a problemi ovarici (99,75% dei reclami attuali).

Gli altri disturbi riguardano il mesotelioma, soprannominato ‘cancro da amianto’, e vengono trattati separatamente. Il piano proposto prevede un periodo di tre mesi durante il quale i ricorrenti saranno informati della sua esistenza. Sarà convalidato se il 75% lo accetterà. Il gruppo precisa che gli avvocati dei ricorrenti che hanno collaborato al suo sviluppo “lo appoggiano”. Il talco è accusato di contenere amianto e di provocare il cancro alle ovaie. Cosa che l’azienda continua a smentire, anche se l’ha ritirato dal mercato nordamericano. Haas ha denunciato in questo senso la “distorsione degli studi scientifici”. Una sintesi degli studi pubblicati nel gennaio 2020 e riguardanti 250.000 donne negli Stati Uniti non ha trovato un legame statistico tra l’uso del talco sui genitali e il rischio di cancro alle ovaie.

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Medici, non si riducono liste di attesa tagliando cure

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Un decreto che intervenga sul problema delle liste d’attesa nella sanità pubblica per ridurne i tempi e che potrebbe contenere anche indicazioni sulle prescrizioni mediche. E’ il provvedimento per combattere i ritardi nell’erogazione di visite e cure, a cui sta lavorando il governo e che sarà presentato entro due settimane come ha annunciato giorni fa il ministro della Salute Orazio Schillaci. Ma che già solleva critiche da parte dei medici, con il Sindacato medici italiani che teme limitazioni alle prescrizioni. Per Pina Onotri, segretario generale dello Smi “siamo di fronte non tanto all’appropriatezza prescrittiva, come viene sbandierato, bensì all’ulteriore tentativo di mettere tanti lacci e laccioli alla libera determinazione del medico di poter prescrivere gli esami in scienza e coscienza, si sta puntando alla riduzione tout court delle prestazioni mediche. E’ il modo peggiore di agire: si vuole trovare la soluzione delle liste di attesa tagliando i servizi e facendo pressioni improprie sui medici. Forse si vogliono abbattere le liste di attesa non curando più i cittadini?”, si chiede Onotri.

“Si prevede una stretta sulle prescrizioni effettuate dai medici di medicina generale per sottoporli all’appropriatezza come avviene per la farmaceutica, – afferma – ma mentre si esercita una forte pressione sui medici, si concede ai farmacisti di prescrivere analisi a carico del Ssn in assenza di una qualsiasi indicazione clinica da parte di un medico”. Al momento “non abbiamo un’idea chiara su come questo decreto verrà configurato” – rileva Claudio Cricelli, presidente emerito della Società di medicina generale – Noi soprattutto come società scientifica dobbiamo perseguire l’appropriatezza, tutto quello che viene fatto a beneficio del paziente deve avere due caratteristiche ovvero essere utile per il paziente e rispondere ai criteri scientifici, una cosa senza l’altra non è possibile. Se un decreto prevede che si pongano delle regole, queste regole devono derivare da atti che il ministero governa già: raccomandazioni, linee guida, buone pratiche cliniche.

Non ci sono scorciatoie rispetto a questo”. Intanto la situazione delle liste d’attesa non mostra segni di miglioramento, secondo un sondaggio di Altroconsumo: tempi troppo lunghi, strutture ospedaliere lontane e difficoltà con Cup e agende di prenotazione bloccate. Su oltre 1.100 cittadini intervistati in 950 hanno avuto difficoltà nel prenotare una visita o un esame nell’ultimo anno. Per il sindacato Cimo-Fesmed, “affrontare, in sanità, la questione tempi di attesa è un po’ come approcciare un paziente con una patologia multiorgano che necessita di terapie specifiche, ma che invece viene curato con placebo. Le cause le conosciamo tutti: la ridotta offerta sanitaria, la carenza di risorse umane, l’inappropriatezza delle prestazioni, l’approccio demagogico verso la libera professione del medico”, afferma il presidente Guido Quici, evidenziando che “occorre una terapia molto più articolata che aggredisca contemporaneamente più cause”.

Sul fronte del Pnrr la Fondazione Gimbe rileva che sono state rispettate tutte le scadenze europee della Missione Salute al 31 marzo scorso ma segnala difficoltà nell’assistenza domiciliare per alcune regioni del Sud. “Raggiunti gli obiettivi per l’assistenza domiciliare integrata (Adi) negli over 65 – spiega il presidente Nino Cartabellotta – i ritardi attuali sulle scadenze nazionali non sono particolarmente critici. Tuttavia, il raggiungimento degli obiettivi nazionali sull’Adi è condizionato da rilevanti differenze regionali, conseguenti sia al ‘punto di partenza’ delle Regioni del Mezzogiorno, sia alle loro capacità di recuperare il gap con l’avvio del Pnrr”. Il target intermedio per raggiungere l’obiettivo al 2026 di circa 1,5 milioni di over 65 in Adi, a fronte di una media nazionale del 101% che rappresenta la percentuale di incremento al 31 dicembre 2023, vede in testa la Provincia di Trento (235%), Umbria (206%), Puglia (145%). Risultati che compensano quelli di Sardegna (77%), Campania (62%) e, soprattutto, Sicilia che rimane fanalino di coda all’1%”.

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Corona Virus

AstraZeneca ammette: vaccino contro Covid-19 può causare trombosi

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L’azienda biofarmaceutica internazionale AstraZeneca ha ammesso per la prima volta che uno degli effetti collaterali del suo vaccino contro il Covid-19 può essere la sindrome da trombosi con trombocitopenia (TTS). Lo ha scritto il Telegraph, citando documenti di tribunale. È stata presentata un’azione legale collettiva contro l’azienda perché il vaccino, sviluppato insieme all’Università di Oxford, ha causato danni gravi o fatali a diversi pazienti, si legge nel comunicato.

“Il vaccino può causare, in casi molto rari, una sindrome da trombosi con trombocitopenia (Tts). Le cause sono sconosciute”, si legge in un estratto di un documento fornito dall’azienda a un tribunale lo scorso febbraio. Secondo i media, sono state presentate 51 richieste di risarcimento all’Alta Corte di Londra, in cui le vittime e le loro famiglie chiedono danni per circa 125 milioni di dollari. La sindrome da trombosi con trombocitopenia causa coaguli di sangue e un basso numero di piastrine, ha spiegato il quotidiano.

La prima richiesta, spiega l’articolo, è stata presentata l’anno scorso da Jamie Scott, che, dopo la somministrazione del vaccino nell’aprile 2021, ha sviluppato un coagulo di sangue e un’emorragia cerebrale, che avrebbe causato danni permanenti al cervello. Viene citato anche il caso della famiglia di Francesca Tuscano, una donna italiana morta nell’aprile 2021 dopo essere stata vaccinata contro il coronavirus. La famiglia della 32enne si è rivolta a un medico legale e a un ematologo, che hanno stabilito che “la morte della paziente può essere attribuita agli effetti collaterali della somministrazione del vaccino Covid-19”. La donna è deceduta per trombosi vascolare cerebrale il giorno successivo alla somministrazione del farmaco di AstraZeneca.

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