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Economia

Ex Ilva, è sciopero: col governo incontro disastroso

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Il futuro dell’ex Ilva è appeso all’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia convocata per il 23 novembre. ArcelorMittal, azionista di maggioranza con il 62%, dovrà svelare se è disponibile a partecipare a una ricapitalizzazione di emergenza da circa 320 milioni di euro, necessaria a pagare le forniture di gas e far fronte alle esigenze di liquidità più immediate. E’ quanto riferiscono i sindacati metalmeccanici al termine dell’incontro a palazzo Chigi con i capi di gabinetto di tre ministeri, degli Affari europei, delle Imprese e del Lavoro, e della presidenza del Consiglio. L’incontro è stato definito “disastroso” dai rappresentanti dei lavoratori e “franco” dalla presidenza del Consiglio. È finito con la proclamazione unitaria di otto ore di sciopero in tutti gli stabilimenti del gruppo da realizzare entro la data fatidica del 23.

Il governo ha rimandato a quella data ogni approfondimento sui temi di carattere industriale ma, al tempo stesso, ha rinnovato gli impegni che prevedono “l’assoluta esclusione di ipotesi di chiusura o liquidazione dello stabilimento nonché della sospensione dell’attività” e ha garantito che l’obiettivo resta quello del raggiungimento nel tempo di determinati livelli di produzione. Intanto, per il 2023, la produzione sarà ben al di sotto delle 4 milioni di tonnellate su cui si erano impegnati i soci, come ha riconosciuto il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, in una recente audizione parlamentare, e al di sotto della sostenibilità di mercato. La sensazione, espressa dal segretario generale della Fiom, Michele De Palma, è quella di essere al “punto finale” dopo il sommarsi degli errori dei diversi governi che ha dichiarato: “ArcelorMittal non può tenere in ostaggio i lavoratori e il governo”.

Il socio privato chiede le risorse “senza un piano industriale, senza garanzie”, ha sottolineato il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, chiedendo dove sia l’autorevolezza del governo. Non ci sarebbe stata nessuna chiarezza sulla “trattativa segreta”, secondo i sindacati, e sul memorandum of understanding firmato a settembre dal ministro per gli affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, con il socio privato. Sommando il nuovo aumento di capitale ai 680 milioni di euro erogati a febbraio dallo Stato, che sarebbero dovuti servire alla salita in maggioranza del capitale di Invitalia, e agli altri stanziamenti pubblici si arriva 2,3 miliardi e secondo il segretario generale della Fim Cisl, Roberto Benaglia, sarebbe “sbagliato, inedito, ingiusto e insostenibile che lo stato metta 2,3 miliardi e il socio privato non ci metta nulla”. A complicare il quadro sono usciti i conti di ArcelorMittal sul terzo trimestre e non sono andati bene.

L’utile netto è sceso a 0,9 miliardi di dollari dagli 1,9 miliardi del secondo trimestre del 2023 così come il margine operativo Ebitda è diminuito a 1,9 miliardi dai 2,6 miliardi del mese precedente. Inoltre le previsioni annuali del consumo di acciaio in Europa sono state riviste al ribasso alla luce della debolezza del settore delle costruzioni, mentre sono rimaste costanti per la Cina e innalzate per l’India. Nel comunicato stampa la società ha reso conto delle azioni intraprese dopo il “devastante incidente” accaduto in Kazakhstan il 28 ottobre dove sono morti 41 lavoratori in una miniera, tra le quali assistenza alle famiglie e un audit imparziale sulle proprie procedure di sicurezza. A seguito della strage, il governo kazako ha deciso la nazionalizzazione della società. In Italia, sul fronte della sicurezza, è arrivato l’impegno del ministero del Lavoro a intervenire per garantire al massimo la manutenzione degli impianti dopo il verificarsi di diversi incidenti, da ultimo il deragliamento di un carro siluro a Taranto. Questo impegno è stato riconosciuto e apprezzato dai sindacati. In particolare, Arcelor Mittal è stata diffidata dal mettere in cassa integrazione i lavoratori che si occupano di manutenzione.

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Economia

Bankitalia, più rischi finanziari con dazi e crypto

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La guerra dei dazi, con l’impatto economico che minaccia la crescita mondiale e con i mercati attraversati da forte instabilità, fa salire i rischi per la stabilità finanziaria globale: il segnale più recente arriva dal crollo della fiducia dei consumatori americani ai minimi dal 2020. E c’è attenzione ai rischi legati all’intenzione dell’amministrazione Trump di utilizzare le ‘stablecoin’ per promuovere il dollaro. E’ lo scenario tratteggiato dal Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia: un termometro che misura ogni sei mesi i rischi sistemici e che, rispetto allo scorso novembre, inevitabilmente ruota attorno alle misure ad alto impatto di Trump e al “notevole aumento dell’incertezza e di tensioni sui mercati finanziari” che ne sono seguiti: previsioni di crescita ulteriormente ridimensionate” dopo i maxi-dazi annunciati il 2 aprile, con una probabilità di recessione negli Usa quest’anno “significativamente aumentata”.

Proprio oggi la fiducia dei consumatori Usa è crollata a 86 punti, mai così bassa dal 2020, mentre il sentiment economico nell’area euro è tornato a scendere. L’Italia, come i partner europei, non è al riparo. “L’alto debito pubblico e la scarsa crescita dell’economia italiana rimangono fattori di vulnerabilità”, si legge nel documento di 49 pagine. I dazi potrebbero far peggiorare la qualità dei prestiti bancari, con le banche italiane più esposte della media europea allo scenario di un calo degli utili delle imprese esportatrici superiore all’1% a causa dei dazi Usa. Nel complesso “i rischi per il sistema finanziario italiano restano comunque moderati”. Le banche sono ben capitalizzate, e vengono in aiuto una bassa disoccupazione; uno spread dei Btp sull’ottovolante con i treasuries Usa, ma più basso che nello scorso autunno; una posizione netta creditrice sull’estero che ha indotto S&P a migliorare il rating, a beneficio dell’interesse estero sui titoli italiani.

Il ‘faro’ di Bankitalia guarda anche a rischi specifici come l’alto numero (119) di incidenti operativi o cibernetici che hanno colpito gli intermediari nel 2024, e gli 85 miliardi di euro di ‘certificates’, strumenti finanziari complessi, nei portafogli italiani di cui quasi due terzi retail: il valore più alto fra i Paesi europei, da tempo all’attenzione di Via Nazionale e Consob. Bankitalia – come la Bce – monitora poi con attenzione i piani sul fronte della finanza digitale dell’amministrazione Trump, da cui arrivano segnali di forte sostegno alle attività crypto e avversione all’euro digitale. Per ora i dazi non hanno fatto altro che indebolire il dollaro, creando addirittura un’opportunità per l’euro sottolineata dal membro del board della Bce Piero Cipollone, a patto di realizzare l’Unione dei risparmi e investimenti e un titolo comune europeo.

Ma ci sono due osservati speciali, il ‘Genius Act’ e lo ‘Stable Act’, due proposte di legge americane tese a promuovere le stablecoin, attività che a fronte di un ‘token’ hanno riserve in valuta, specie dollari. Alcuni economisti ipotizzano che serviranno a irrobustire il ruolo internazionale del dollaro. I rischi, per Bankitalia, arriverebbero se nelle due proposte ci fosse una rottura con i principi globali concordati nel Financial Stability Board e con la normativa più stringente del regolamento europeo Micar. Se dal 10% del mercato crypto attuale le stablecoin arrivassero ad assumere una dimensione sistemica – avverte Bankitalia – potrebbe esserci una “eccezionale domanda di titoli pubblici degli Stati Uniti”, ma in caso di dissesto dell’emittente il rischio è una corsa a liquidare che “provocherebbe tensioni sui mercati dei titoli pubblici americani e ripercussioni su altri comparti del sistema finanziario globale”. Non solo: se nell’area dell’euro si affermassero come sistema di pagamento stablecoin in euro offerti da intermediari Usa, secondo il Rapporto si rischiano “implicazioni anche per il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento e per la stessa sovranità monetaria”.

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Economia

Fumata nera su contratto infermieri, fermi anche medici

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Dopo 13 mesi di stallo, ancora una fumata nera sul contratto del comparto Sanità 2022-24, che riguarda oltre 580mila lavoratori del Servizio sanitario nazionale tra infermieri – che rappresentano oltre la metà del totale – tecnici e personale non medico. Sul tavolo ci sono 172 euro di aumento mensile ma i sindacati di categoria sono divisi e varie sigle reputano insufficienti le risorse stanziate e carente la parte normativa. L’incontro di oggi all’Aran per la ripresa delle trattative, dopo che alcune sigle avevano già fatto saltare l’accordo nei mesi scorsi, si è dunque chiuso con un nulla di fatto. Un nuovo incontro è previsto il 22 maggio.

Intanto, anche per il contratto dei medici è stallo: attendono ancora l’atto di indirizzo e chiedono di avviare subito le trattative. Nell’incontro di oggi, i sindacati degli infermieri e di categoria confermano posizioni differenti. Da un lato il sindacato Nursind, favorevole ad una chiusura. “Anche oggi – rileva il segretario Andrea Bottega – abbiamo ribadito la nostra disponibilità a sottoscrivere il Ccnl, ma soprattutto sollevato un problema di tempi perché i fondi, seppure pochi e insufficienti a compensare l’inflazione degli ultimi anni, vanno spesi entro fine anno come previsto dal Documento di finanza pubblica. Oppure sarà meglio poi doversi piegare a quanto sarà deciso unilateralmente dal governo? Questa sì che sarebbe una sconfitta per le relazioni sindacali”. Riferendosi quindi alle sigle che insistono sul nodo dei fondi, Bottega sottolinea che “la questione delle scarse risorse non è da porre al tavolo Aran. Non è in quella sede che può essere affrontata e risolta. Per disporre di nuovi stanziamenti, infatti, serve una legge”.

Per il Nursing up, l’incontro “si è rapidamente trasformato nell’ennesimo muro contro muro, senza uno spiraglio di soluzione”. E pur chiedendo di chiudere il contratto al più presto, il sindacato chiede a governo e regioni “da che parte stanno: basta teatrini, i professionisti sanitari non sono marionette”. E’ netta invece l’opposizione di Fp Cgil e Uil Fpl: “Non è emersa alcuna novità sostanziale, né sul piano economico né su quello normativo. Ancora una volta – affermano – il confronto si è rivelato privo di contenuti in grado di rispondere concretamente alle attese dei lavoratori e lavoratrici del settore. Ribadiamo con fermezza l’indisponibilità a sottoscrivere una pre-intesa che non riconosca il valore del personale sanitario attraverso tutele reali, diritti esigibili e un adeguato incremento salariale”. Insomma, avvertono, “in assenza di un cambio di rotta non esistono le condizioni per la chiusura positiva della trattativa”. Da parte sua, l’Aran sottolinea che, anche se restano distanti le posizioni delle parti, “il confronto ha permesso di entrare nel merito di alcune questioni specifiche, offrendo l’occasione per un dialogo più concreto. Per continuare il confronto e verificare se ci sono le condizioni per arrivare a un’intesa”.

Ricorda quindi che si prevede un aumento medio mensile di 172,37 euro per tredici mensilità, pari al 6,8% in più rispetto agli stipendi attuali, e le risorse stanziate ammontano a 1,784 miliardi. Oltre agli aspetti economici, il contratto introduce inoltre “maggiore tutela contro le aggressioni al personale, riorganizzazione degli incarichi professionali, potenziamento della formazione e nuove misure per migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro”. Intanto, medici e dirigenti sanitari ancora attendono l’atto di indirizzo necessario ad avviare le trattative per il loro contratto 2022-24, dunque già scaduto. “Non solo non siamo disponibili ad aspettare, perchè è inaccettabile dover attendere la conclusione del contratto del comparto Sanità per poter iniziare a discutere di quello dei medici – affermano i leader dei sindacati Anaao e Cimo, Pierino Di Silverio e Guido Quici – ma anzi chiediamo di fare un ulteriore passo avanti accorpando i trienni contrattuali 2022-24 e 2025-27, una decisione che sarebbe storica”. Questo, concludono, per “garantire ai colleghi adeguamenti retributivi accettabili e bloccare l’intollerabile tradizione di firmare solo contratti già scaduti”.

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Economia

Françoise Bettencourt Meyers lascia il consiglio di L’Oréal

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Dopo quasi 30 anni, Françoise Bettencourt Meyers (foto Imagoeconomica) lascia il consiglio di amministrazione di L’Oréal, pur mantenendo la presidenza della holding familiare Tethys, primo azionista del gruppo. Al suo posto nel board entrerà un altro rappresentante di Tethys, mentre il ruolo di vicepresidente sarà assunto dal figlio Jean-Victor Meyers, 38 anni. Françoise Bettencourt Meyers, 71 anni, è l’unica erede diretta del fondatore di L’Oréal, Eugène Schueller.

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