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Corona Virus

Dal Manifesto dei dieci al principio di precauzione passando per Big data, opinioni e messinscene: ecco perchè temere il coronavirus

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L’informazione quantitativa sul coronavirus ha doppiato da tempo il capo dell’autoevidenza e persino della semplice ragionevolezza. I numeri non parlano più “da soli”. I dati sono tanti, i modi con cui li possiamo incrociare, tendono a infinito. Servono ormai a produrre non solo e non tanto “conoscenze”, ma piuttosto e soprattutto opinioni. Ognuno ci può pescare dentro quello che vuole. 

Guardate l’ultima conferenza stampa alla Casa Bianca. Il Presidente (qualche volta il Vice) dicono che le cose non vanno poi così male e si congratula con se stesso. ”Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata” dice il Cavaliere Enciclopedico di una poesiola della mia infanzia. Subito dopo però, sullo stesso podio prende la parola Anthony Fauci, immunologo, capo dello staff medico-scientifico che consiglia la Casa Bianca, e dice le cose come stanno: 2,5 milioni di contagiati (certificati) negli USA, che crescono al ritmo di decine di migliaia al giorno, con un carico di morti quotidiani impressionante. Una situazione nella quale bisognerebbe fare qualcosa, suggerisce Fauci. Sottintendendo che quelli che gli stanno vicino non fanno niente mentre la gestione effettiva della crisi sanitaria americana è affidata alla buona volontà dei Governatori dei singoli Stati che non hanno una politica ed agiscono perciò in modo inefficace, spesso sotto la spinta dell’emergenza di giornata.  

Ma, voi direte, quello è un film americano: i buoni scienziati, da una parte, i cattivi politici, dall’altra. Tutto vero. Ma è singolare come il plot del buono/cattivo tenda a replicarsi, esattamente come il virus. Nel resto del mondo, rimescolando le carte, inventando nuovi personaggi.

Prendete in Italia, il Manifesto dei dieci. Questi, proclamando nello script mediatico la fine dell’epidemia, si accreditano come “i buoni” della vicenda. Buoni a prescindere, si capisce, perché dicono quello che tutti vogliamo sentirci dire. Di riflesso, i “cattivi” sono gli altri: “tutti” gli altri. La mortalità cala a picco, motivano “i buoni”, le rianimazioni si svuotano, i ricoveri ospedalieri diminuiscono drasticamente a petto di sintomatologie sempre più leggere. Da ciò, si trae la conclusione che l’aggressività del virus si è attenuata, che l’emergenza è finita, e che bisogna riacquistare la libertà al Paese, ricominciare a dargli quel respiro che, anche metaforicamente, l’epidemia aveva cancellato. Su queste prime deduzioni, la realtà dei media, come direbbe N. Luhmann, e l’aspirazione dei più, ne innestano altre, a cascata, ma tutte nel segno di niente che non sia un grido propiziatorio, una profezia auto-realizzatrice: l’epidemia è finita.

Alberto Zangrillo. È il promotore del cosiddetto Manifesto dei dieci che non è condiviso nella comunità scientifica italiana

In questa narrativa si affastellano dati di tipo clinico usati poi come se fossero dati di tipo epidemiologico. Ciò significa che da informazioni che hanno a che vedere con il malato e il decorso delle sue condizioni di salute –la clinica!-  e che quindi vogliono dire abbastanza poco sotto il profilo epidemiologico, si ricavano del tutto impropriamente indicazioni di sanità pubblica. Mi chiedo se i libri di C.M. Cipolla sulle grandi tradizioni italiane in questo campo li abbia letti solo io. A parte questo, che sarebbe però già abbastanza, ciò che sconcerta è che gli estensori di quel Manifesto credono di trovarsi di fronte a una “semplice” epidemia e decidono consapevolmente di ignorare che invece ci troviamo di fronte a una pandemia. Come un Bolsonaro qualsiasi! Come dite? Che intendo? E’ semplice. Trattandosi di una pandemia, quel che succede in Ialia è importante, per l’Italia, ma non meno importante è quel che succede nel resto del mondo. Specialmente se diamo corso a misure di sanità pubblica (riaperture delle frontiere, ripristino dei voli aerei, deconfinamenti, e quant’altro) come preconizzato dal Manifesto. Ebbene dal resto del mondo, mi vengono notizie che non ammettono ottimismo alcuno. L’epicentro stesso della pandemia, ossia gli Stati Uniti, mostrano un’attività virale, sia epidemiologica che clinica delle più inquietanti: 2,5 milioni di casi, 45.000 nuovi contagi nella sola giornata di venerdì, 10.000 nella sola Florida, nella calda Arizona si va verso i 4.000 giornalieri. Impennate si registrano nel Kansas, in Oklahoma, nell’Idaho. E mentre Trump si congratula con se stesso, il Governatore (repubblicano) del Texas riparte con chiusure, limitazioni, confinamenti; nella stessa direzione si muovono in California le autorità statali e comunali, ad esempio in grandi città come S. Francisco…. 

Ecco, io che non faccio parte dei dieci firmatari del Manifesto, posso pure distrarmi di fronte a questo genere di cose, e seguire un moto dell’animo mettendomi ad amare forsennatamente i “buoni”. Ma un medico no, non può faro. Anche se non si considera propriamente uno “scienziato” ,  non è che può avere tutti i gradi di libertà espressiva che vuole davanti a una telecamera, scambiando per argomenti quelli che sono soltanto dei paralogismi.

Tanto più se, a queste conto-evidenze, si aggiungono altre acquisizioni di estremo interesse scientifico. I ricercatori di professione come Massimo Galli le osservano e le segnalano, anche ai clinici, considerando giustamente la pandemia come un “ambiente di apprendimento” cioè un campo che ci dà un sacco di informazioni, alcune ovvie, altre irrilevanti, altre ancora contraddittorie, la più parte per nulla scontate, sicché tocca agli studiosi estrarne il senso. Cosa dice Galli? Fornisce una notizia che mette completamente fuori gioco il modo di ragionare del Manifesto. Dice che si può ipotizzare, con molte buone ragioni, l’esistenza di “iperdiffusori”, persone contagiate, anche asintomatiche, che hanno a loro volta una sviluppata capacità di infettare. Al punto che si può pensare che il 10% dei contagiati sia all’origine dell’80% dei contagi. Non è, questo, uno spostamento di focus che ci deve interessare alquanto? Faccende del tipo: quali sono le caratteristiche degli iperdiffusori? Ci troviamo di fronte a una distribuzione stocastica oppure possiamo intravvedere delle regolarità: per esempio sul piano territoriale, o concernenti il genere, l’età, che so: il gruppo sanguigno, il fatto che abbiano avuto la scarlattina da piccoli e così via.

Ma, se posso dire, mi preoccupa anche il fatto che i firmatari del Manifesto abbiano una così scarsa considerazione per il principio di precauzione. Se il ripristino della normalità integrale “pre-coronavirus”, che piacerebbe tanto a tutti noi, dovesse rivelarsi fatale per il ritorno non già del virus –che è ostinatamente lì, a quanto pare- ma della ripresa della sua diffusione, che si fa? Non come piano B, ma come parte integrante del piano A. Sappiamo curare, ad esempio? Ecco una questione alla quale mi piacerebbe che i clinici rispondessero in modi meno sbrigativi. Da quel che si capisce, per ora, sì e no. Sì, nel senso che abbiamo messo a punto dei protocolli più performanti, in termini terapeutici e in termini di sanità pubblica, con la mobilitazione della medicina del territorio. No, nel senso che nessun farmaco specifico è ancora disponibile per arrestare l’aggressività del virus. Del resto, il fronte del vaccino invia segnali “promettenti” come dicono tutti. Ma se tutto va bene, e sperando che i protocolli di sperimentazione siano rigorosamente rispettati, il vaccino stesso sarà pronto nella primavera del 2021. Questo vuol dire, puramente e semplicemente, che se qualcosa non funziona nel cuore delle nostre speranze, noi ci troveremo ad affrontare il nuovo contagio d’autunno eventuale, a mani nude. Se qualcosa non funziona. E come dice Anthony Fauci, uno di cui mi fido, “prendete tutte le cifre che volete, ma sembra proprio che qualcosa, in tutto questo, non funzioni….”.

  

 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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