Collegati con noi

Economia

Crescita +1% e debito sotto 140%, il Def conta sul Pnrr

Pubblicato

del

“Non sono assolutamente preoccupato. La nostra economia cresce più di quasi tutta l’economia europea”, dice il vicepremier Matteo Salvini. Un’affermazione che rivela molto dello spirito con cui il governo si avvicina alla presentazione del Def la prossima settimana: un tasso di crescita prossimo all’1% (“siamo lì”, dice il sottosegretario all’Economia, Federico Freni), una forte discesa del deficit rispetto ai livelli del 2023 gonfiati dal superbonus, e un debito sotto il 140% del Pil. Per arrivare in estate al nodo della procedura Ue per deficit eccessivo con un percorso di finanza pubblica politicamente credibile, fiduciosi delle elezioni europee alle spalle e con una nuova Commissione Ue in autunno. Ieri la Banca d’Italia aveva stimato lo 0,6% di crescita 2024, la metà dell’1,2% scritto nella Nadef dello scorso autunno. Ma con la precisazione che senza l’aggiustamento per i giorni del calendario il Pil segnerebbe +0,8%, una cifra non distante dall’1% che potrebbe essere indicato nel nuovo documento.

Oltre il Def non dovrebbe andare visto che, per avere la validazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, occorre stare dentro la ‘forchetta’ del panel dei principali previsori, la cui media è 0,6% ma fino a un massimo, appunto, dell’1%. A giustificare il maggior ottimismo del ministero dell’Economia ci sono i segnali di risveglio dell’economia mondiale ed europea contenuti negli ultimi indici ‘anticipatori’ Pmi, che descrivono una manifattura italiana tornata in crescita dopo un anno in rosso. Il governo, poi, scommette sullo stimolo di bilancio reso possibile dal Pnrr: restano da impiegare aiuti europei per l’equivalente di ben sette punti percentuali di Pil, una cifra che per Lorenzo Codogno, ex dirigente del Mef ora a capo di Lc Macro, manterrà la crescita all’1% nel 2024 e all’1,4 e 1,7% nei due anni successivi. Pnrr sempre più fondamentale, dunque, perché il quadro dei conti nazionali è complicato. Freni fa notare che dal 2021 a oggi “abbiamo speso sicuramente sopra i 210 miliardi di bonus edilizi”, più delle risorse dello stesso Piano. Il grosso dell’impatto sul deficit lo si vede nel 2023, con un rapporto deficit/Pil che, secondo Codogno, dal 7,2% della stima attuale potrebbe lievitare fino all’8%. Il ‘front loading’ di quel deficit sul 2023 renderà quasi automatica una forte discesa nel 2024, a un rapporto sul Pil che il Def stimerebbe intorno al 4,4%.

Altro capitolo d’intervento sono i contributi pubblici alle imprese attivati, sopratutto sotto forma di crediti d’imposta, prima durante la pandemia, poi con la guerra: oltre 55 miliardi nel 2023 (inclusi i crediti d’imposta contro il caro-energia) dopo quasi 60 miliardi del 2022 secondo le tabelle Istat. Sono lontanissimi i livelli pre-Covid, inferiori ai 20 miliardi, e una razionalizzazione aiuterebbe a rifinanziare per il 2024 il taglio del cuneo fiscale e l’Irpef a tre aliquote (poco meno di 15 miliardi in tutto): due interventi quasi obbligati, vista la crescita delle retribuzioni “bassissima” pur con bassa disoccupazione (a dirlo è Ref Ricerche) negli ultimi due anni di inflazione rampante.

Resta, per l’ultimo Def prima delle nuove regole in arrivo con la riforma del Patto di stabilità, il nodo del debito. Freni, da Cernobbio, assicura che le stime “non si discosteranno molto da quelle della Nadef” e il debito “certamente” resterà sotto il 140% del Pil. Le forze in gioco, però, rendono difficile un calo rispetto al 137,3% del 2023: il Ref ipotizza un 138,5% quest’anno e 140,8% nel 2025. Giocano contro da una parte l’inflazione in calo e l’aumento inerziale della spesa per interessi (dato il ritardo con cui i tassi Bce si riflettono sul costo del debito) e dall’altra i bonus edilizi: se il grosso del deficit si è potuto ‘scaricare’ sul 2023, l’impatto della compensazione dei crediti fiscali sul fabbisogno, e quindi sul debito, peserà per i prossimi quattro anni. Ragioni che potrebbero consigliare un Def a legislazione vigente, con stime solo tendenziali, lasciando la parte programmatica a dopo il voto. Quando si potrà concordare con nuovi interlocutori un percorso di rientro del debito a sette anni.

Advertisement
Continua a leggere

Economia

Bilanci di previsione, virtuoso 86% dei Comuni ma non al Sud

Pubblicato

del

Comuni diventati virtuosi nella presentazione dei bilanci di previsione. Quest’anno sette su dieci già a metà febbraio avevano approvato e trasmesso il documento e alla data del 15 marzo la percentuale di comuni in linea era salita all’84%. Il dato risulta da un’elaborazione dei dati del Mef fatta dal Centro studi enti locali. Il dato, si spiega, è di netta rottura rispetto al passato e testimonia l’efficacia delle misure adottate lo scorso anno dal Ministero dell’Economia per interrompere il circolo vizioso dei posticipi infiniti che aveva caratterizzato gli ultimi decenni.

Ciò che emerge è però, ancora una volta, è “l’esistenza di divari siderali tra varie aree del Paese che vede contrapposti casi come quello siciliano, dove solo 30 comuni su 100 risultano aver approvato e trasmesso il bilancio, e la Valle d’Aosta e l’Emilia Romagna, dove questa percentuale sale al 96%”. Dopo anni di slittamenti nel 2023 un decreto ministeriale, ha riscritto il calendario delle scadenze contabili e anche se è comunque stata necessaria una proroga al 15 marzo quest’anno ben 4.695 comuni, il 59% del totale, hanno iniziato l’anno corrente con un bilancio di previsione già approvato e non si sono avvalsi del tempo aggiuntivo concesso dal Viminale.

Stando a quanto emerso da un’elaborazione di Centro Studi Enti Locali, basata sui dati della Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche (Bdap-Mef), sono stati approvati entro il 15 marzo scorso i bilanci dell’84% dei comuni italiani. All’appello mancano quelli di 1.268 comuni. Questi enti hanno un profilo abbastanza preciso: la stragrande maggioranza è di piccole dimensioni. Nove di questi comuni su dieci hanno infatti meno di 10mila abitanti e il 64% è localizzato al sud e nelle isole. Nel nord Italia, nel suo complesso, risulta essere stato già trasmesso al Mef il 92% dei preventivi. In particolare, spiccano per efficienza: Emilia Romagna e Valle d’Aosta (entrambe a quota 96%) e Trentino Alto Adige e Veneto (95%). Ottimi anche i risultati registrati in: Lombardia (93%), Friuli Venezia Giulia (90%) e Piemonte (89%). Chiude il cerchio la Liguria, con l’85% di comuni adempienti.

Scendendo verso sud la percentuale decresce gradualmente, restando comunque buona al centro, dove mediamente sono stati già approvati e trasmessi 89 bilanci su 100. A trainare verso l’alto questo gruppo sono soprattutto Toscana (95%), Marche e Umbria (93%). Più indietro i comuni laziali, fermi a quota 81%. Meno rosea, ma comunque in netto miglioramento rispetto al passato, la situazione del Mezzogiorno dove i comuni più tempestivi sono stati 6 su 10. In particolare, le 3 regioni in assoluto più distanti dalla media nazionale sono – nell’ordine – la Sicilia, la Calabria e la Campania.

Nella banca dati gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla data del 24 aprile, risultano essere stati acquisiti soltanto 117 bilanci di previsione di comuni siciliani su 391, meno di uno su tre. Al di là dello Stretto ne sono stati trasmessi 236 su 404 (58% del totale), in Campania il 67% dei preventivi sono stati approvati nei tempi. Prima della classe, per quanto riguarda il meridione, è la Basilicata (92% di bilanci approvati), seguita a breve distanza dalla Sardegna (885) e dalla Puglia (86%). Chiudono il cerchio l’Abruzzo e il Molise, rispettivamente con l’80% e il 77% di comuni che hanno già inviato al Ministero il proprio preventivo.

Secondo il Centro Studi Enti Locali questi dati, nel loro insieme, testimoniano un effetto tangibile prodotto dalla nuova programmazione ma preoccupa la distanza abissale che continua a caratterizzare i risultati ottenuti da enti di territori diversi. Il processo di riforma della contabilità e dell’ordinamento degli enti locali, i cui cantieri sono aperti, dovrà necessariamente tenere conto anche delle criticità finanziarie e organizzative, ormai strutturali ed endemiche, di alcuni territori e individuare delle soluzioni efficaci per far sì che queste distanze siano colmate.

Continua a leggere

Economia

Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

Pubblicato

del

E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

Continua a leggere

Economia

Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

Pubblicato

del

Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto