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Conte sprezzante con Salvini: sleale, senza coraggio, vive di espedienti. Ora tocca a Mattarella

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La mozione di sfiducia ritirata da parte della Lega? “Se amiamo le istituzioni abbiamo il dovere della trasparenza. Dobbiamo essere d’accordo su un punto che non possiamo affidarci ad espedienti, tatticismi, giravolte verbali che io faccio fatica a comprendere. Sono molto lineare. Se c’e’ mancanza di coraggio me l’assumo io di fronte al Paese che ci riguarda e prendo atto che il leader della Lega che ha stentato nella leale collaborazione manca nel coraggio di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti” ha spiegato il premier Giuseppe Conte prima di recarsi al Quirinale per rassegnare le dimissioni ed a consegnare la responsabilità della soluzione al presidente Sergio Mattarella. Nel Senato applausi a scena aperta al premier dimissionario. Non solo i senatori del M5S ma anche di altri gruppi.  Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, in netto contrasto con Salvini, lasciando l’Aula e’ nerissimo. “Tutto come previsto”. Anche i toni durissimi di Conte, risponde ai cronisti. La reazione tanto forte da un professore di solito mite e misurato, non se la sarebbe mai aspettata. A questo punto, basta parlare con i leghisti, per capire il loro smarrimento. Sanno che ormai la partita non è più nelle loro mani: un po’ come quelle squadre a cui non basta piu’ vincere tutte le partite future, ma devono sperare in un passo falso delle rivali. Da stasera in poi non potranno che assistere al lavoro di Mattarella, augurandosi che alla fine arrivino le tante desiderate elezioni anticipate. Le parole più forti di Conte sono state quelle delle comunicazioni iniziali però. Con Conte che ha iniziato con una frase inequivocabili: “L’azione del governo si arresta qui”. E’ quasi a meta’ del suo intervento nell’aula di palazzo Madama che il premier Giuseppe Conte mette la parola fine ai 14 mesi di governo gialloverde aprendo ufficialmente la crisi. Un intervento in cui il presidente del Consiglio difende quanto fatto – “abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno” -, ricorda ancora il lavoro da fare, ma soprattutto ne approfitta per lanciare un duro affondo contro Matteo Salvini. Il premier e’ una furia e non usa giri di parole nel bollare Salvini come “irresponsabile” per aver aperto una crisi solo per “interessi personali e di partito”. Un crescendo di accuse che arriva dopo mesi passati a dosare e mediare ogni parola. Conte ora e’ senza filtri. Ripercorre i mesi del governo elencando tutti i problemi creati dal leader della Lega, ultimo appunto la decisione di aprire una crisi con il rischio, ricorda Conte, che senza un nuovo esecutivo il Paese andra’ in esercizio provvisorio e ci sara’ l’aumento dell’Iva: “I comportamenti del ministro dell’Interno rivelano scarsa sensibilita’ istituzionale e una grave carenza di cultura costituzionale”. Il capo del governo che in diverse occasioni si rivolge a Salvini chiamandolo Matteo (Conte e’ seduto in mezzo ai due vicepremier) lo accusa di aver oscurato quanto fatto dall’esecutivo: “hai macchiato 14 mesi di attivita’ mettendo in dubbio anche quanto fatto dai tuoi ministri”. Ma ad un certo punto, il capo del governo arriva a definirsi “preoccupato” da chi “invoca piazze e pieni poteri”. L’affondo non si ferma solo alla decisione di mettere fine all’esperienza gialloverde ma tocca anche dossier delicati come il Russiagate. Conte gli imputa di non essere andato in Aula e di aver creato problemi allo stesso presidente del Consiglio. Il capo del governo non tiene fuori nulla dal suo intervento nemmeno il ricorso che Salvini all’uso di simboli religiosi. Si tratta per Conte di “uso incosciente di simboli religiosi”. Il premier non sara’ l’unico a rimproverare a Salvini l’uso del rosario nei comizi. Insomma parole dure quelle del capo del governo che hanno l’effetto di trasformare l’aula del Senato in uno stadio in cui Lega e Movimento si urlano offese a vicenda replicando quanto accade fuori palazzo Madama dove sostenitori di Lega e pentastellati, si danno battaglia suon di cori ed insulti. Ma la tensione non si placa nemmeno per un minuto perche’ il premier non fa nemmeno in tempo a concludere il suo intervento che Salvini, lascia gli scranni del governo per prendere posto in quelli della Lega per lanciare il suo affondo: “Rifarei tutto quello che ho fatto”, premette il vicepremier spiegando che se l’esperienza di governo si e’ interrotta e’ a causa “dei signor No che da mesi in consiglio dei ministri ed in Parlamento bloccavano tutto. E poi – ricorda – due settimane fa la forza di maggioranza ha votato la sfiducia sulla Tav quindi ci cosa stiamo parlando”. Il leader della Lega chiede con insistenza il ritorno alle urne, fa ironicamente gli auguri ai pentastellati in caso di governo con il Pd: “Buon lavoro con il partito di Bibbiano” ma poi con una delle solite giravolte tende di nuovo la mano agli ormai ex alleati: “Se volete fare una manovra coraggiosa, tagliare i parlamentare e completare le riforme noi ci siamo”. E’ l’ultima apertura a un ritorno al passato. E’infatti lo spettro di un governo Dem Cinque-Stelle a tenere banco. Un’ipotesi invocata senza giri di parole dall’ex segretario del Pd Matteo Renzi “Non sarebbe un colpo di Stato, serve un nuovo esecutivo per evitare l’aumento dell’Iva”. Piu’ cauto il leader Dem Nicola Zingaretti che dice di “apprezzare” le parole di Conte ma chiede che il capo del governo riconosca gli errori perche’ solo cosi’ si puo’ parlare di una nuova fase politica. Un’ipotesi che vedrebbe l’appoggio di Liberi e Uguali mentre il resto dell’opposizione e’ sul piede di guerra. Fratelli d’Italia fa eco alla Lega e chiede le elezioni cosi’ come Forza Italia: “Conte pensa al bis – dice la capogruppo Anna Maria Bernini – ma l’unico antidoto alla crisi sono nuove elezioni”. Con le dimissioni di Conte, le redini della crisi passano nelle mani del presidente della Repubblica che avviera’ le consultazioni per verificare la possibilita’ di un nuovo governo prima di sciogliere le Camere.

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L’ex ministro Bondi si racconta: «Ho scelto di farmi dimenticare, ma la politica non mi appartiene più»

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A distanza di anni dal suo addio alla scena pubblica, Sandro Bondi (foto Imagoeconomica in evidenza) torna a parlare. Lo fa con tono sommesso, riflessivo, in un’intervista al Corriere della Sera in cui ripercorre alcuni snodi della sua carriera politica, il rapporto con Silvio Berlusconi, l’attuale scenario politico e il senso della sua nuova vita a Novi Ligure, dove oggi ricopre — gratuitamente — il ruolo di direttore artistico del teatro Marenco.

«A Novi Ligure per amore e per restituire qualcosa»

«Ho accettato questo incarico per dare un contributo alla comunità in cui vivo. È un teatro bellissimo, restaurato anche grazie al Ministero dei Beni culturali», dice Bondi, senza mai ricordare che proprio lui fu, in passato, ministro della Cultura. Vive da quindici anni con Manuela Repetti, ex parlamentare come lui: «Ci siamo reinventati la vita. Di lei amo la sensibilità e la compassione per ogni essere vivente».

Lontano dalla politica, ma con uno sguardo vigile

«La politica non mi appartiene più», afferma con decisione. Nel 2018 si è ritirato a vita privata, convinto di aver partecipato a un progetto politico — Forza Italia — «di cui non è rimasto quasi nulla». Il giudizio su Matteo Renzi, con cui simpatizzò dopo l’addio al partito azzurro, è netto: «Una delusione politica e umana». E se di Elly Schlein apprezza l’onestà, ne critica l’indeterminatezza politica.

Il ricordo di Berlusconi e l’ammirazione per Meloni

Del suo lungo sodalizio con Silvio Berlusconi — iniziato grazie allo scultore Pietro Cascella — conserva «ricordi belli e meno belli». «Era un uomo complesso, indecifrabile. Avevamo un rapporto profondo». Lo affiancava ogni giorno ad Arcore, ma senza mai viaggiare con lui: «Avevo il terrore dell’aereo». Poi, con l’aiuto di Manuela, ha superato anche quella paura.

Di Giorgia Meloni dice: «Sta lavorando molto bene. L’Italia con lei è in buone mani». Apprezza anche Antonio Tajani e Raffaele Fitto: «Entrambi portano con sé un bagaglio europeo che li rende credibili. E Gianni Letta è una figura che continuo ad ammirare».

Il disincanto per il ministero e l’arte della rinascita

Della sua esperienza ministeriale non conserva nostalgia: «Non è un ricordo piacevole. Ogni cosa veniva strumentalizzata. Come il linciaggio per il crollo di un piccolo muro a Pompei». A Sgarbi, con cui condivise l’ambiente culturale, ha inviato un messaggio attraverso la sorella: «Spero possa rinascere».

«La mia fede è fragile. Come la memoria della Chiesa»

Bondi si descrive come un uomo semplice, tormentato dal pensiero della morte e dalla paura di non rivedere più chi ama. «La mia fede non è profonda. Anzi, ogni giorno che passa è sempre più fragile», confessa. E sul suo futuro dice con umiltà: «Mi piacerebbe essere ricordato come un uomo normale, con le sue paure, bisognoso di dare e ricevere amore».

 

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Il caso Almasri, il governo invia la memoria alla Cpi

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E’ stata trasmessa dal governo alla Corte penale internazionale la memoria difensiva sulla mancata consegna di Njiiem Almasri, il comandante libico arrestato e rimpatriato dopo pochi giorni nel gennaio scorso. Martedì sarebbero scaduti i termini della proroga chiesta e ottenuta da Roma rispetto alla deadline inizialmente fissata per il 17 marzo, e poi spostata al 22 aprile. Lunedì, dopo l’ultima richiesta di rinvio, l’incartamento è stato inviato agli uffici dell’Aja in formato digitale. L’atto, che riassume la posizione dell’esecutivo nell’affaire, è ora all’attenzione dei giudici con base nei Paesi Bassi che, in sostanza, accusano l’Italia di non aver eseguito il mandato d’arresto, di non aver perquisito Almasri, di non aver sequestrato i dispositivi in suo possesso e di aver sperperato denaro pubblico rimpatriandolo a Tripoli a bordo di un aereo dell’intelligence.

Secondo quando si apprende, non è escluso che nell’incartamento sia stato ribadito quanto affermato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel corso dell’informativa in Parlamento a febbraio scorso. In sostanza il numero uno di via Arenula aveva sostenuto che l’arresto del generale libico, accusato di crimini contro l’umanità, era avvenuto senza una preventiva consultazione con il ministero, che il mandato della Corte penale internazionale conteneva “gravissime anomalie” e dunque era “radicalmente nullo”. In Aula Nordio ha ricordato che è il ministero della Giustizia, secondo la legge 237 del 2012, a curare “in via esclusiva” – recita la norma – i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale. Ma nel caso di specie – è la posizione ribadita dal ministro – via Arenula è stata tagliata fuori fin dall’inizio.

Una notizia informale dell’arresto, avvenuto a Torino alle 9.30 del 19 gennaio, spiegò davanti ai parlamentari, “venne trasmessa da un funzionario Interpol a un dirigente del nostro ministero alle 12,37”. Solo il giorno dopo, lunedì 20 alle 12.40, il procuratore della Corte d’appello di Roma ha inviato “il complesso carteggio”. Ed alle 13.57 l’ambasciatore italiano all’Aja ha trasmesso al ministero la richiesta di arresto. La comunicazione della questura, ha spiegato a febbraio Nordio, “era pervenuta al ministero ad arresto già effettuato e, dunque, senza la preventiva trasmissione della richiesta di arresto a fini estradizionali emessa dalla Cpi al ministro”. Sul punto la Corte aveva assicurato di aver avviato il “dialogo con le autorità italiane per garantire l’efficace esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta” di arresto.

Il ministro ha puntualizzato che il dicastero “non ha” un ruolo da mero “passacarte”, ma è un “organo politico” che analizza e valuta bene prima di decidere. E mentre via Arenula valutava, la Corte d’appello di Roma scarcerava il libico, rilevando “irritualità” nell’arresto, perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia”, che, interessato il giorno prima dalla stessa Corte “non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito”. Nessuna negligenza, è stata quindi la posizione espressa dal Guardasigilli: nel documento della Cpi “c’erano tutta una serie di criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello”. La parola passa ora ai giudici della Corte penale che dovranno analizzare la memora trasmessa da Roma e se non dovessero essere convinti delle ragioni dell’Italia, potrebbero rinviare il dossier all’Assemblea degli Stati parte oppure al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

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Opposizione frena su legge elettorale: Meloni vuole voto?

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Reintrodurre le preferenze o mantenere i listini bloccati: rischia di essere il primo dei bivi da affrontare nella discussione sulla legge elettorale che il centrodestra sta iniziando ad avviare. Finora si contano solo ipotesi, di fronte a cui le opposizioni hanno rizzato le antenne, anche alla luce dell’ultima intervista in cui Giorgia Meloni ha fatto allusioni a un bis. C’è chi come Angelo Bonelli (Avs) che davanti a questa “accelerazione” si domanda se la premier voglia “andare a elezioni anticipate”. Chi come la leader del Pd Elly Schlein si limita a dire che “non c’è stato nessun contatto” con la maggioranza. E chi come il presidente del M5s Giuseppe Conte resta attendista: “Non c’è nessuna proposta. Quando sarà e se ci sarà, questa disponibilità” al confronto “noi valuteremo”.

Meloni intanto si prepara, mercoledì in Senato, a ribattere alle critiche delle opposizioni, che nel premier question time la interrogheranno sugli impegni assunti con gli Usa nell’incontro con Donald Trump, sulle strategie contro il caro-bollette, su politica industriale, spese militari e riforme da realizzare. Difficilmente la leader di FdI cambierà la linea sul premierato, la “madre di tutte le riforme”, da portare avanti. Ma i dieci mesi di stallo alla Camera fanno ritenere a molti che non sia più una priorità. “È stata ridotta – l’affondo di Davide Faraone, di Iv – ad un accordicchio old style per una modifica alla legge elettorale”.

“Non c’è nessun cantiere aperto sulla legge elettorale, figurarsi se vogliamo destabilizzare il Parlamento con due anni davanti…”, prova a frenare un big di FdI. I ragionamenti, però, sono avviati. Se ne sta discutendo “tra noi all’interno del partito e anche con gli alleati, e il confronto si allargherà necessariamente anche alle opposizioni”, ammette Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama dove sta per essere incardinato il ddl che interviene sui ballottaggi per i comuni sopra i 15 mila abitanti. Una modifica vista negativamente dalle opposizioni. Balboni è anche “favorevole” alle preferenze, pur riconoscendo che “non sono così necessarie” se “le liste sono corte, quattro, cinque o massimo sei candidati”.

Meloni si è sempre dichiarata contro i listini bloccati, ma secondo gli umori che emergono per ora in Parlamento l’idea di reintrodurre le preferenze proprio non alletta FI e Lega. Una novità in cantiere è l’eliminazione dei collegi uninominali, all’interno di una cornice proporzionale con premio di maggioranza. “A noi – dice il capogruppo di FI alla Camera Paolo Barelli – il proporzionale, sempre su base maggioritaria, non dispiace. Sempre maggioritario, quindi, non un proporzionale assoluto. Ma è ancora prematuro”. I tempi non sono stretti se si guarda all’orizzonte della primavera 2027. Se invece dovesse realizzarsi uno scenario di voto anticipato di un anno, non sono escluse accelerazioni non troppo lontane. Intanto nel centrodestra proseguono le riflessioni sul terzo mandato dei governatori.

Il prossimo bivio è entro il 18 maggio, quando scadono i termini del governo per impugnare la legge trentina che introduce il terzo mandato per il presidente della Provincia autonoma. Dopo la sentenza della Consulta che ha fissato a due il limite nelle Regioni ordinarie, le varie anime dell’esecutivo (da una parte la Lega, dall’altra FdI e FI) cercano un punto di caduta. Il tema è stato affrontato nell’ultimo Consiglio dei ministri, mercoledì scorso, e potrebbe tornare sul tavolo il prossimo venerdì. Intanto c’è attesa anche per il parere del Consiglio di Stato sulla finestra elettorale per il Veneto: autunno 2025 o primavera 2026, i due scenari.

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