Collegati con noi

Politica

Conte ottiene la fiducia alla Camera ma è bagarre in Aula con Lega e FdI

Pubblicato

del

La prima fiducia al governo Conte (343 sì e 263 no) arriva in una limpida giornata di settembre, senza alcun pericolo per i numeri in Aula alla Camera (sarebbe bastata una maggioranza politica di 316 si’) ma con una protesta di piazza chiamata da Giorgia Meloni, con il sostegno di Matteo Salvini, che proprio fuori Montecitorio grida contro i “ladri di sovranita’” e invoca “elezioni, subito”.

Un clima di scontro che dalle strade si riverbera fin dentro il Parlamento dove i due partiti all’opposizione scatenano la bagarre guadagnandosi anche l’espulsione di un deputato. E che finisce per provocare l’ira di Giuseppe Conte. Proprio lui che nonostante gli schiamazzi, fuori e dentro il Parlamento, si era presentato a chiedere la fiducia della Camera con un discorso, tra i piu’ lunghi della storia della Repubblica, con il quale intendeva inaugurare una nuova stagione di pacatezza. Lui che aveva inserito nel suo discorso un richiamo a Giuseppe Saragat (“Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano”) anche per rimarcare il cambiamento dei toni rispetto all’esperienza precedente, in occasione della replica si riprende la scena per una nuova e dura reprimenda dei metodi del Carroccio e del suo leader. “Io e tutti i miei ministri prendiamo il solenne impegno, oggi davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico piu’ consono e piu’ rispettoso delle persone, della diversita’ delle idee. La lingua del governo sara’ mite, l’azione non si misura con l’arroganza delle parole” aveva esordito in mattinata Giuseppe Conte. Poi nel pomeriggio, durante la replica, Conte, pesantemente attaccato da Lega ed Fdi, cambia registro: sbotta e tuona soprattutto contro gli ex alleati. Rinfaccia alla Lega di aver avuto “reazioni emotive” e ceduto a “proclami”, di essere “coerente” solo con le proprie “convenienze elettorali”, rimprovera Matteo Salvini per le sue assenze ai Consigli europei.

“Avete parlato di tradimento ma ripetere all’infinito queste parole non potra’ cambiare la realta’ dei fatti: questa e’ una grande mistificazione. Il fatto di pensare che una singola forza politica o addirittura il suo leader possa decidere ogni anno a suo piacimento o addirittura a suo arbitrio di poter portare il Paese alle elezioni e’ irresponsabile” dice all’ex vicepremier, con il volto teso e costretto a riprendere la parola tra mille interruzioni, urla da stadio, sfotto’, applausi ironici, deputati leghisti che alzano la loro sedia al grido “poltrone!”, “buffone”, “venduto” e “elezioni”. Grida che precedono le dichiarazioni di voto in cui Fi annuncia di non voler votare la fiducia e dove Giorgia Meloni ribatte stizzita al premier (“volgare e’ imbullonarsi alla poltrona”) e denuncia “manovre di palazzo” profetizzando: “sarete travolti da un’Italia libera e sovrana”. Anche la Lega ribatte con durezza (“Conte non e’ stato eletto ma portato qui dal partito del Vaffaday”) anche se lo scontro piu’ duro e’ atteso domani in Senato quando Conte si presentera’ a palazzo Madama per richiedere anche li’ la fiducia con numeri certi, dovrebbero essere assicurati 163 voti, con il timore di qualche defezione, anche tra i 5 Stelle, ma l’aggiunta di altri voti dal gruppo misto e dai senatori a vita. Anche il dem Matteo Richetti non ha ancora sciolto le sue riserve: “Valutero’, domani intervengo in Aula” spiega. Ma ad intervenire in Aula a palazzo Madama domani ci sara’ soprattutto il senatore Matteo Salvini. Che oggi ha anche ascoltato Conte attaccare chi si fa “condizionare da pressioni di poteri economici e da indebite influenze esterne”. Conte, nel suo discorso da un’ora e mezza, invece annuncia passo per passo le linee programmatiche del suo nuovo governo. A partire dal primo banco di prova che sara’ la manovra, passando per la riduzione del debito pubblico e delle tasse fino ad annunciare una serie di riforme: dal fisco alla giustizia, dal taglio dei parlamentari alla nuova legge elettorale, passando per l’autonomia regionale e la revisione dei decreti sicurezza, promettendo piu’ opere pubbliche e piu’ lavoro, un’Italia piu’ verde e piu’ smart. E poi ancora interventi per gli asili nido e una legge di genere per equiparare gli stipendi delle donne, la sempre rinviata legge sulla rappresentanza sindacale. Plaude il Pd. “Oggi si chiude la stagione della cattiveria, dell’odio e credo si possa guardare avanti” commenta il ministro e capo delegazione del Pd al governo, Dario Franceschini che promette: “adesso ci rimbocchiamo le maniche per il bene del paese”.

Advertisement

Politica

Il caso Almasri, il governo invia la memoria alla Cpi

Pubblicato

del

E’ stata trasmessa dal governo alla Corte penale internazionale la memoria difensiva sulla mancata consegna di Njiiem Almasri, il comandante libico arrestato e rimpatriato dopo pochi giorni nel gennaio scorso. Martedì sarebbero scaduti i termini della proroga chiesta e ottenuta da Roma rispetto alla deadline inizialmente fissata per il 17 marzo, e poi spostata al 22 aprile. Lunedì, dopo l’ultima richiesta di rinvio, l’incartamento è stato inviato agli uffici dell’Aja in formato digitale. L’atto, che riassume la posizione dell’esecutivo nell’affaire, è ora all’attenzione dei giudici con base nei Paesi Bassi che, in sostanza, accusano l’Italia di non aver eseguito il mandato d’arresto, di non aver perquisito Almasri, di non aver sequestrato i dispositivi in suo possesso e di aver sperperato denaro pubblico rimpatriandolo a Tripoli a bordo di un aereo dell’intelligence.

Secondo quando si apprende, non è escluso che nell’incartamento sia stato ribadito quanto affermato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel corso dell’informativa in Parlamento a febbraio scorso. In sostanza il numero uno di via Arenula aveva sostenuto che l’arresto del generale libico, accusato di crimini contro l’umanità, era avvenuto senza una preventiva consultazione con il ministero, che il mandato della Corte penale internazionale conteneva “gravissime anomalie” e dunque era “radicalmente nullo”. In Aula Nordio ha ricordato che è il ministero della Giustizia, secondo la legge 237 del 2012, a curare “in via esclusiva” – recita la norma – i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale. Ma nel caso di specie – è la posizione ribadita dal ministro – via Arenula è stata tagliata fuori fin dall’inizio.

Una notizia informale dell’arresto, avvenuto a Torino alle 9.30 del 19 gennaio, spiegò davanti ai parlamentari, “venne trasmessa da un funzionario Interpol a un dirigente del nostro ministero alle 12,37”. Solo il giorno dopo, lunedì 20 alle 12.40, il procuratore della Corte d’appello di Roma ha inviato “il complesso carteggio”. Ed alle 13.57 l’ambasciatore italiano all’Aja ha trasmesso al ministero la richiesta di arresto. La comunicazione della questura, ha spiegato a febbraio Nordio, “era pervenuta al ministero ad arresto già effettuato e, dunque, senza la preventiva trasmissione della richiesta di arresto a fini estradizionali emessa dalla Cpi al ministro”. Sul punto la Corte aveva assicurato di aver avviato il “dialogo con le autorità italiane per garantire l’efficace esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta” di arresto.

Il ministro ha puntualizzato che il dicastero “non ha” un ruolo da mero “passacarte”, ma è un “organo politico” che analizza e valuta bene prima di decidere. E mentre via Arenula valutava, la Corte d’appello di Roma scarcerava il libico, rilevando “irritualità” nell’arresto, perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia”, che, interessato il giorno prima dalla stessa Corte “non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito”. Nessuna negligenza, è stata quindi la posizione espressa dal Guardasigilli: nel documento della Cpi “c’erano tutta una serie di criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello”. La parola passa ora ai giudici della Corte penale che dovranno analizzare la memora trasmessa da Roma e se non dovessero essere convinti delle ragioni dell’Italia, potrebbero rinviare il dossier all’Assemblea degli Stati parte oppure al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Continua a leggere

Politica

Opposizione frena su legge elettorale: Meloni vuole voto?

Pubblicato

del

Reintrodurre le preferenze o mantenere i listini bloccati: rischia di essere il primo dei bivi da affrontare nella discussione sulla legge elettorale che il centrodestra sta iniziando ad avviare. Finora si contano solo ipotesi, di fronte a cui le opposizioni hanno rizzato le antenne, anche alla luce dell’ultima intervista in cui Giorgia Meloni ha fatto allusioni a un bis. C’è chi come Angelo Bonelli (Avs) che davanti a questa “accelerazione” si domanda se la premier voglia “andare a elezioni anticipate”. Chi come la leader del Pd Elly Schlein si limita a dire che “non c’è stato nessun contatto” con la maggioranza. E chi come il presidente del M5s Giuseppe Conte resta attendista: “Non c’è nessuna proposta. Quando sarà e se ci sarà, questa disponibilità” al confronto “noi valuteremo”.

Meloni intanto si prepara, mercoledì in Senato, a ribattere alle critiche delle opposizioni, che nel premier question time la interrogheranno sugli impegni assunti con gli Usa nell’incontro con Donald Trump, sulle strategie contro il caro-bollette, su politica industriale, spese militari e riforme da realizzare. Difficilmente la leader di FdI cambierà la linea sul premierato, la “madre di tutte le riforme”, da portare avanti. Ma i dieci mesi di stallo alla Camera fanno ritenere a molti che non sia più una priorità. “È stata ridotta – l’affondo di Davide Faraone, di Iv – ad un accordicchio old style per una modifica alla legge elettorale”.

“Non c’è nessun cantiere aperto sulla legge elettorale, figurarsi se vogliamo destabilizzare il Parlamento con due anni davanti…”, prova a frenare un big di FdI. I ragionamenti, però, sono avviati. Se ne sta discutendo “tra noi all’interno del partito e anche con gli alleati, e il confronto si allargherà necessariamente anche alle opposizioni”, ammette Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama dove sta per essere incardinato il ddl che interviene sui ballottaggi per i comuni sopra i 15 mila abitanti. Una modifica vista negativamente dalle opposizioni. Balboni è anche “favorevole” alle preferenze, pur riconoscendo che “non sono così necessarie” se “le liste sono corte, quattro, cinque o massimo sei candidati”.

Meloni si è sempre dichiarata contro i listini bloccati, ma secondo gli umori che emergono per ora in Parlamento l’idea di reintrodurre le preferenze proprio non alletta FI e Lega. Una novità in cantiere è l’eliminazione dei collegi uninominali, all’interno di una cornice proporzionale con premio di maggioranza. “A noi – dice il capogruppo di FI alla Camera Paolo Barelli – il proporzionale, sempre su base maggioritaria, non dispiace. Sempre maggioritario, quindi, non un proporzionale assoluto. Ma è ancora prematuro”. I tempi non sono stretti se si guarda all’orizzonte della primavera 2027. Se invece dovesse realizzarsi uno scenario di voto anticipato di un anno, non sono escluse accelerazioni non troppo lontane. Intanto nel centrodestra proseguono le riflessioni sul terzo mandato dei governatori.

Il prossimo bivio è entro il 18 maggio, quando scadono i termini del governo per impugnare la legge trentina che introduce il terzo mandato per il presidente della Provincia autonoma. Dopo la sentenza della Consulta che ha fissato a due il limite nelle Regioni ordinarie, le varie anime dell’esecutivo (da una parte la Lega, dall’altra FdI e FI) cercano un punto di caduta. Il tema è stato affrontato nell’ultimo Consiglio dei ministri, mercoledì scorso, e potrebbe tornare sul tavolo il prossimo venerdì. Intanto c’è attesa anche per il parere del Consiglio di Stato sulla finestra elettorale per il Veneto: autunno 2025 o primavera 2026, i due scenari.

Continua a leggere

In Evidenza

Liliana Segre: «Israele e Palestina, intrappolati nell’odio. Ma la pace resta l’unica via possibile»

Pubblicato

del

Parole profonde, lucide, amare. Quelle della senatrice a vita Liliana Segre, che in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera si è espressa con fermezza sul conflitto in Medio Oriente, sull’antisemitismo, sulla crisi della democrazia in Europa e nel mondo. «Provo uno sconforto che rasenta la disperazione», ha detto commentando il riaccendersi della guerra tra Israele e Hamas. E ha lanciato un appello accorato: «Due popoli, due Stati resta l’unica via. Nonostante tutto».

«Due popoli in trappola»

Segre descrive il popolo israeliano e quello palestinese come due nazioni «intrappolate, incapaci di liberarsi da una condanna a odiarsi». Una spirale di violenza aggravata, secondo la senatrice, da una classe dirigente dominata dalle «componenti peggiori». Parole durissime su Hamas, definito un «movimento teocratico e sanguinario», e sul governo Netanyahu, che guida Israele con «una destra estremista, iper-nazionalista, con componenti fascistoidi e razziste».

«Il trauma del 7 ottobre – aggiunge – ha certamente imposto una reazione, ma la guerra a Gaza ha assunto connotati inaccettabili. Israele ha oltrepassato i limiti del diritto di difesa, provocando stragi e distruzioni immani».

Nessuna giustificazione per Hamas

Segre è chiara anche su un altro punto: Hamas non è il popolo palestinese. «Non si batte per la libertà del popolo palestinese, ma per distruggere Israele. E lo stesso vale per il regime iraniano, che li usa solo per combattere l’“entità sionista”». Anche Israele ha commesso gravi errori, ma la senatrice ricorda che il ritiro da Gaza nel 2005 apriva una strada verso la pace che è stata vanificata dalla presa del potere violenta di Hamas nel 2006.

«Il genocidio? No, ma crimini di guerra sì»

Nel corso dell’intervista, Segre torna su quanto già affermato in passato: a Gaza si sono visti crimini di guerra e contro l’umanità, da entrambe le parti. Tuttavia, non si può parlare di genocidio: «È un concetto preciso, giuridicamente e storicamente. Le atrocità commesse non bastano a definirlo tale».

La pace come unica via

Nonostante tutto, Segre continua a credere nella soluzione dei due Stati: «Ogni fiammata di violenza rende tutto più difficile, ma non ci sono alternative. Solo la volontà politica può aprire spiragli». E invita a guardare la storia, dove svolte improvvise e impensabili hanno spesso cambiato il corso degli eventi.

«Antisemitismo mai morto, ora è sdoganato»

Un passaggio forte è dedicato al ritorno dell’antisemitismo: «Non era morto, ma nascosto. Ora non ci si vergogna più. Si prende a pretesto la condotta del governo israeliano per giustificare l’odio contro tutto il popolo ebraico, anche contro la diaspora».

L’allarme globale: autoritarismi e il pericolo Trump

Liliana Segre allarga lo sguardo al mondo: «La rielezione di Trump destabilizzerebbe l’ordine globale». Poi punta il dito contro l’ascesa dell’estrema destra in Europa, le interferenze russe, l’influenza di magnati americani nei processi democratici. E una condanna durissima va alla scena dell’incontro alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky: «Un’umiliazione pubblica che mi ha disgustata. Gli Stati Uniti erano i liberatori dell’Europa dal nazifascismo. Vederli rinnegare quel ruolo è un dolore profondo».

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto