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Budapest cede, accordo a 27 sui 50 miliardi all’Ucraina

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In quattro e quattr’otto, l’accordo è arrivato. Il vertice straordinario dei leader europei per convincere Viktor Orban a sbloccare l’impasse sugli aiuti all’Ucraina da 50 miliardi non si è trasformato nella temuta resa dei conti con Budapest, come si ventilava alla vigilia. “C’è voluto del duro lavoro”, assicura una fonte europea. E pure un po’ di creatività, visto che prima del Consiglio vero e proprio si sono svolti dei mini-summit ristretti in cui i big – Francia, Italia e Germania – hanno lavorato di lima.

Palazzo Chigi non ha nascosto “la soddisfazione” per aver saputo interpretare un ruolo da “protagonista” nella mediazione, riconosciuto dagli altri partner. Così, quando l’accordo è sbarcato in plenaria, l’ok è stato istantaneo, con buona pace di chi evocava persino il ricorso all’articolo 7 per togliere il voto all’Ungheria. “È strategia da Guerra Fredda: l’atomica serve per la deterrenza, non certo per essere usata”, ha confidato una fonte diplomatica che ha seguito da vicino le trattative. La verità è che quando Orban si è reso conto che i 26 erano davvero compatti ha cercato un’exit strategy. Il punto di caduta è andato bene a tutti. Il programma per l’Ucraina – 33 miliardi in prestiti agevolati e 17 in sussidi da qui al 2027 – sarà dunque soggetto a un “dibattito annuale” e “se necessario fra due anni il Consiglio Europeo inviterà la Commissione a presentare una proposta di revisione”. Nessun voto dunque (e nessun veto).

Non solo. Per chiedere l’intervento dell’esecutivo blustellato servirà comunque l’unanimità. “Sostanzialmente non cambia nulla”, ha osservato un alto funzionario a fine giornata. Peraltro l’intesa trova il gradimento persino di altri Paesi, che tutto sommato non considerano sbagliato avere un “monitoraggio” visto il momento delicato che vive l’Ucraina. All’Ungheria è stata concessa un’altra cosa: il richiamo, per iscritto, alle conclusioni del Consiglio europeo del dicembre del 2020 sul meccanismo di condizionalità. Su un punto in particolare: l’applicazione “proporzionata” dello strumento sulla base del grado di violazione da parte di un Paese membro del rule of law. Per Orban, potrebbe essere l’anticamera a un futuro esborso di una nuova tranche di fondi europei. Per l’Ue è stato solo un richiamo a quanto pattuito. Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha lodato la capacità dell’Europa di “restare unita”.

“La decisione di oggi – ha dichiarato – invia un messaggio agli ucraini sulla nostra determinazione di sostenerli, alla Russia, perché non ci facciamo intimidire, e anche agli Usa e agli altri partner alleati di Kiev”. Non a caso la presidente della Commissione Ursula von der Leyen si è poi sentita al telefono con Joe Biden: ora tocca all’America, per una volta, rincorrere l’Ue. Volodymyr Zelensky si è collegato invece per “ringraziare” i 27. Ma anche per metterli in guardia. La Corea del Nord fornirà “un milione di munizioni alla Russia” e pure questa è una corsa che l’Europa “non può permettersi di perdere”. L’Europa insomma ha fatto la sua parte nonostante nelle ore precedenti il vertice a Palazzo Berlaymont si respirasse un’aria piuttosto pesante. In questo contesto si è inserito il lavoro di mediazione dei singoli, Giorgia Meloni e Emmanuel Macron su tutti. Nella notte precedente la riunione i due leader hanno ricevuto Orban nell’albergo dove alloggiano. La mediazione è stata innanzitutto politica. Al premier ungherese è stato evocato uno scenario: un suo veto avrebbe potuto coagulare una nutrita fronda di Paesi membri nel chiedere la procedura ex articolo 7, ovvero la sospensione del diritto di voto per l’Ungheria. “E’ la strategia del bastone e della carota, abbiamo avvertito Orban delle conseguenze che avrebbe potuto avere il mantenimento del suo no davanti ad una granitica unità dei 26”, ha spiegato una fonte qualificata. Meloni, nelle riunioni informali che hanno portato all’intesa, ha provato a smorzare i toni. Un diplomatico europeo l’ha definita il vero pontiere nella trattativa. Roma ha giocato da “protagonista”, hanno sottolineato fonti di Palazzo Chigi. “Ho lavorato cercando di portare a un punto che ci consentisse di non dividere l’Europa, bisogna dialogare con tutti”, ha rimarcato Meloni prima di lasciare Bruxelles.

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Politica

Rackete-Salvini,questa volta è duello elettorale

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Con l’avvicinarsi delle europee, si riaccendono vecchi conflitti. E’ il caso della ex comandante della Sea Watch Carola Rackete e del vicepremier Matteo Salvini: lei – durante un incontro pubblico per la candidatura di Ilaria Salis con Avs – ha accusato il leader della Lega di “incentivare” con le sue parole “i crimini d’odio”; lui – di rimando – l’ha definita ironicamente “la speronatrice”. Rackete, che senza permesso attraccò per far scendere migranti salvati in mare a Lampedusa nel 2019, ora è in corsa alle europee in Germania con Die Linke. Da quando Rackete, cinque anni fa, forzò il blocco a Lampedusa imposto proprio da Salvini. tra i due è partito un lungo braccio di ferro fatto anche di scontri verbali, culminati in un’accusa di diffamazione aggravata per Salvini ai danni di Rackete (per cui il Senato negò l’autorizzazione a procedere). Oggi è ‘la capitana’ ad attaccare: “Penso che le parole” di Matteo Salvini “continuino ad infiammare l’estrema destra, incentivando i crimini d’odio e polarizzano la società al posto di creare unità e giustizia sociale – afferma l’attivista -. Noi a sinistra siamo per i diritti umani, dignità e rispetto della vita e per un’equa transizione ecologica che ci garantisca un futuro sicuro su questo pianeta”.

Il capo della Lega le risponde a tono dopo qualche ora: “Io incentiverei i ‘crimini d’odio’ dice la speronatrice… E che bella coppia con la Salis! Il miglior antidoto a questi sinistri personaggi è un voto massiccio alla Lega”. Nel frattempo, la campagna elettorale mette pepe anche nei rapporti tra gli alleati di governo. A generare fibrillazioni tra Forza Italia e Lega è il decreto Salva-Casa, il provvedimento fortemente voluto da Salvini e atteso a giorni in Consiglio dei ministri. Pochi giorni fa, il ministro delle Infrastrutture e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, si erano sentiti per parlare del destino di alcuni grattacieli al centro di un intervento della Procura. E l’idea del vicepremier era di lavorare a una norma bipartisan da inserire in fase di conversione del decreto in questione.

“Non consentiremo l’abusivismo del Pd – fa sapere il capogruppo forzista al Senato, Maurizio Gasparri -. Siamo contrari ai condoni che la sinistra vorrebbe per i grattacieli di Milano. Io starò molto attento perché il condono che vorrebbe Sala mi inquieta” e “sono certo che il Capo dello Stato non firmerà le sanatorie”. “Una volta c’era Berlusconi che difendeva la casa come bene fondamentale degli italiani, ora c’è la Lega che porta avanti una norma di buonsenso”, attacca la deputata del partito di via Bellerio Giovanna Miele. E lo stesso Salvini rilancia: “Sanatoria’? Non è una brutta parola, come vorrebbe qualcuno, se significa semplicemente regolarizzare piccole anomalie, liberando oltretutto gli uffici comunali dalle troppe pratiche bloccate”

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Schifani: Lavorare a un campo largo con altre forze moderate

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“Bisogna lavorare a un campo largo nel centrodestra con il coinvolgimento di altre forze moderate. La coalizione che appoggia il candidato sindaco di Gela ne è un esempio”. Lo ha detto il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani, intervenendo a Gela alla manifestazione elettorale a sostegno della candidata Grazia Cosentino, appoggiata dalla quasi totalità del centrodestra – a eccezione del Mpa – e da Italia Viva, presente nella città nissena con il capogruppo alla Camera Davide Faraone. “Le esperienze del campo largo nel centrosinistra – ha aggiunto Schifani – sono destinate a fallire perché sono solamente alleanze elettorali, che si sciolgono immediatamente dopo il voto perché non c’è intesa sui principali temi. A differenza di quanto avviene, invece, nel centrodestra, dove c’è una sintonia maggiore e più coesa tra le forze moderate”.

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Schlein: Meloni affossa le libertà, noi unica alternativa

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“Da Madrid Giorgia Meloni, in mezzo a nazionalisti, franchisti, amici di Trump ci attacca dicendo che la sinistra cancella l’identità, intanto lei in questo anno e mezzo di governo sta cancellando la libertà degli italiani. Perché se hai un salario da fame non hai più libertà, mentre lei affossa il salario minimo. Perché se non ti puoi curare perché la prima visita la prenoti tra un anno, non hai libertà. Meloni si rassegni, noi continueremo a mettere in piedi un’alternativa che metta al centro la questione sociale”. Così la segretaria nazionale del Pd Elly Schlein ad Alghero per la campagna elettorale per le Comunali e le Europee.

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