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Antimafia, Morra: non sono andato in Calabria perchè non mi siedo vicino agli indagati, come ho detto al presidente di Confindustria Boccia

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L’occasione è il palcoscenico della Summer School dell’Ucsi, la scuola di giornalismo investigativo promossa dall’Unione cattolica stampa italiana di Caserta e dall’Agenzia pubblica per la legalità Agrorinasce, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti Campania. Il luogo è altamente simbolico: Casal di Principe, villa Liberazione più nota come Villa Scarface, ex residenza di Walter Schiavone. A lanciare il sasso è il Presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra: “Ieri, ho telefono al presidente di Confindustria Boccia, ha detto, avvisandolo che non sarei andato all’Assemblea 2019 in programma a Cosenza in occasione del passaggio di consegne tra il vecchio e nuovo presidente della locale associazione degli industriali. Perché avrei dovuto partecipare con il mio attuale sindaco, che ambisce ad essere il candidato alla presidenza della Regione ma è prescritto ed indagato, e con il governatore della Calabria interessato da altre vicende? Ho difficoltà e non mi siedo con soggetti che non solo sono indagati ma anche prescritti, e hanno sul capo la richiesta di rinvio a giudizio. Se per Confindustria questo non è un problema, ne prendo atto. Il vero problema è che il tessuto produttivo non riesce più a capire che o si sta con il bianco o con il nero, perché con il nero non si scherza. Questo è un Paese dove per questioni culturali c’è una certa indulgenza, che purtroppo è diventata quotidiana”.

         
“Lo Stato ha il dovere di aggredire le economie criminali – ha continuato il presidente Morra – ma non sempre è attento e spesso non è neanche sollecitato dagli imprenditori, che non si rendono conto – per difetto di intelligenza o perché fa comodo – che questi business che producono grandi profitti rappresentano la morte del tessuto economico e produttivo. Il singolo operatore pensa di essere più furbo ma, a lungo termine, se muore il tessuto muore anche il Paese. Deve essere, dunque, interesse della classe imprenditoriale capire che il rispetto della legalità è l’unico modo per avere un mercato ed una società più sani.Siamo in una Summer School sul giornalismo investigativo e, sul versante delle informazioni, questo Paese ha enormi problemi. Io vengo da una città in cui un quotidiano non è uscito in edicola per non dare una notizia non gradita a qualcuno. Vengo da un’area in cui un giovane cronista si è suicidato dopo probabili pressioni nell’ambito del suo lavoro. Vengo da una regione dove, in funzione dell’acquisto di spazi pubblicitari da parte di Enti locali, può cambiare la linea editoriale del giornale, e questo mi fa schifo. Il mio padrone è il cuore ed il cervello quando cerco la verità ma se poi alcune notizie vengono sistematicamente occultate perché non si possono scrivere, allora la responsabilità è anche di chi ha il dovere di fare informazione. Entrando nel merito, dobbiamo combattere le mafie guidate da menti raffinatissime, come diceva Falcone. Nel 2014, per acquistare grandi quantitativi di cocaina, la ‘ndrangheta già utilizzava Bitcoin, e noi dove eravamo? ‘Ndrangheta, camorra e mafia rappresentano quelle debolezza, fragilità e complicità delle istituzioni e degli uomini che le rappresentano sui territori”.

Un intervento lucido, interessante  che “juorno.it” ha scelto come emblematico di questa Summer School che ha ospitato un parterre d’eccezione e che ha assegnato 10 borse di studio a giovani giornalisti, precari o disoccupati.

Il grido d’allarme arriva da Casal di Principe (Caserta), territorio impegnato in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, sul fenomeno delle economie criminali, sull’evoluzione delle organizzazioni mafiose e sulle criptovalute:  una sfida ambiziosa lanciata dalla Summer School Ucsi, perché le mafie si stanno trasformando sempre più in criminalità economiche e, per capire ancora meglio il fenomeno, basta osservare gli ultimi rapporti: l’economia criminale vale il 30% dell’economia ufficiale della provincia di Caserta; l’economia mafiosa in Italia è in grado di erodere il 15% del PIL pro capite; i “prodotti” di punta sono la droga, lo sfruttamento della prostituzione e le estorsioni, che fanno incassare ogni anno quasi 20 miliardi di euro (non mancano dal bilancio il contrabbando di sigarette, l’usura ed il traffico di rifiuti). E non solo.

La criminalità organizzata fa registrare circa 150 miliardi di euro di ricavi e, a fronte di poco più di 35 miliardi di costi, ha utili per oltre 100 miliardi. Numeri davvero allarmanti che surclassano anche quelli di alcuni colossi europei dell’energia.

Per la scuola, dicevamo, un parterre di alto livello: oltre al presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra c’erano: il comandante della Dia, il generale Giuseppe Governale; il procuratore aggiunto Dda Reggio Calabria, Gaetano Paci; il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovanni Melillo; il presidente “Svimez”, Adriano Giannola; il capo della redazione “Economia” del Corriere della Sera, Nicola Saldutti; il generale Umberto Rapetto, già comandante Nucleo Frodi Telematiche Guardia di Finanza; il senatore Pietro Grasso, già procuratore nazionale Antimafia; il direttore del Centro nazionale trapianti, Massimo Cardillo; la senatrice Rosaria Capacchione; il testimone oculare dell’omicidio di Don Giuseppe Diana, Augusto Di Meo; l’europarlamentare Franco Roberti, già procuratore nazionale Antimafia; il sindaco di Corleone Nicolò Nicolosi; il direttore dell’Agenzia nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, il prefetto Bruno Frattasi.

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Last Banner, aumentano le condanne per gli ultrà della Juventus

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Sugli ultrà della Juventus la giustizia mette il carico da undici. Resta confermata l’ipotesi di associazione per delinquere, l’estorsione diventa ‘consumata’ e non solo più ‘tentata’, le condanne aumentano. Il processo d’appello per il caso Last Banner si chiude, a Torino, con una sentenza che vede Dino Mocciola, leader storico dei Drughi, passare da 4 anni e 10 mesi a 8 anni di carcere; per Salvatore Ceva, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo la pena raggiunge i 4 anni e 7 mesi, 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 mesi, 3 anni e 11 mesi. A Franzo viene anche revocata la condizionale.

La Corte subalpina, secondo quanto si ricava dal dispositivo, ha accettato l’impostazione del pg Chiara Maina, che aveva chiesto più severità rispetto al giudizio di primo grado. Secondo le accuse, le intemperanze da stadio e gli scioperi del tifo furono, nel corso della stagione 2018-19, gli strumenti con cui le frange più estreme della curva fecero pressione sulla Juventusper non perdere agevolazioni e privilegi in materia di biglietti. Fino a quando la società non presentò la denuncia che innescò una lunga e articolata indagine della Digos. Già la sentenza del tribunale, pronunciata nell’ottobre del 2021, era stata definita di portata storica perché non era mai successo che a un gruppo ultras venisse incollata l’etichetta di associazione per delinquere. Quella di appello si è spinta anche oltre.

Alcune settimane fa le tesi degli inquirenti avevano superato un primo vaglio della Cassazione: i supremi giudici, al termine di uno dei filoni secondari di Last Banner, avevano confermato la condanna (due mesi e 20 giorni poi ridotti in appello) inflitta a 57enne militante dei Drughi chiamato a rispondere di violenza privata: in occasione di un paio di partite casalinghe della Juve, il tifoso delimitò con il nastro adesivo le zone degli spalti che gli ultrà volevano per loro e allontanò in malo modo gli spettatori ‘ordinari’ che cercavano un posto. Oggi il commento a caldo di Luigi Chiappero, l’avvocato che insieme alla collega Maria Turco ha patrocinato la Juventus come legale di parte civile, è che “il risultato, cui si è giunti con una azione congiunta della questura e della società, è anche il frutto dell’impegno profuso per aumentare la funzionalità degli stadi”. “Senza la complessa macchina organizzativa allestita in materia di sicurezza – spiega il penalista – non si sarebbe mai potuto conoscere nei dettagli ciò che accadeva nella curva”. Fra le parti civili c’era anche Alberto Pairetto, l’uomo della Juventus incaricato di tenere i rapporti con gli ultrà.

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Malore in caserma, muore vigile del fuoco

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Ha accusato un malore nella notte tra domenica e lunedì nella caserma dei vigili del fuoco del Lingotto a Torino ed è morto dopo circa un’ora all’ospedale delle Molinette, dove era stato ricoverato. L’uomo, Samuele Del Ministro, aveva 50 anni ed era originario di Pescia (Pistoia). In una nota i colleghi del comando vigili del fuoco di Pistoia ricordano come Del Ministro avesse iniziato il suo percorso nel corpo nazionale dei vigili del fuoco con il servizio di leva, per poi entrare in servizio permanente nel 2001, proprio al comando provinciale di Torino, da cui fu poi trasferito al comando di Pistoia.

Per circa vent’anni ha prestato servizio nella sede distaccata di Montecatini Terme (Pistoia), specializzandosi in tecniche speleo alpino fluviali e tecniche di primo soccorso sanitario. Ha partecipato a tante fasi emergenziali sul territorio nazionale: dal terremoto a L’Aquila, all’incidente della Costa Concordia all’Isola del Giglio, fino al terremoto nel centro Italia. “Un vigile sempre in prima linea – si legge ancora -, poi il passaggio di qualifica al ruolo di capo squadra con assegnazione al comando vigilfuoco di Torino e a breve sarebbe rientrato al comando provinciale di Pistoia. Del Ministro lascia la moglie e due figli”.

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Nei campi 200 milioni di danni, razzia cinghiali

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Vigneti e uliveti, ma anche pascoli e prati, campi di mais e cereali, coltivazioni di girasole, ortaggi: è lunga la lista della razzia compiuta dalla fauna selvatica “incontrollata” dove i cinghiali, con una popolazione che ha raggiunto i 2,3 milioni di esemplari sul territorio nazionale, costituiscono il pericolo maggiore. La conseguenza sono 200 milioni di euro di danni solo nell’ultimo anno all’agricoltura italiana. La Puglia, con oltre 30 milioni di euro e 250mila cinghiali, e la Toscana con oltre 20 milioni di cui l’80% a causa dei 200mila cinghiali, sono le regioni che hanno pagato di più. Questa la fotografia scattata dalla Coldiretti in occasione delle 96 Assemblee organizzate in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con la partecipazione di oltre 50mila agricoltori, per celebrare dai territori gli 80 anni dell’associazione agricola.

In particolare, secondo la mappa realizzata da Coldiretti, nel Lazio i danni stimati dai soli cinghiali (100mila esemplari) superano i 10 milioni di euro e in alcuni casi riguardano anche l’80% del raccolto. Oltre 10 milioni di euro i danni stimati in Calabria. Un fenomeno che si sta espandendo anche ad aree prima meno frequentate come quelle del Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (20mila esemplari) e in Valle d’Aosta dove i cinghiali si sono spinti fino a quote che superano i 2mila metri. Pesante la situazione in Emilia Romagna dove solo nel Reggiano si stimano almeno 50mila esemplari; “dramma” sul fronte seminativi (specie per mais e girasole) in Umbria con una popolazione stimata di circa 150mila cinghiali. Sei milioni di euro i danni in Basilicata e 5 in Piemonte.

Qui la superficie danneggiata nel 2023 è stata di 34.432 ettari. Colpiti anche l’Abruzzo (i capi superano ampiamente le 100mila unità) con 4,5 milioni di euro di risarcimenti richiesti nel 2022, il Molise (40mila cinghiali) e la Campania (stimati danni per circa oltre 4 milioni di euro). Critica la situazione in Sardegna soprattutto a ridosso delle aree protette mentre in Sicilia non ci sono territori immuni e salgono i costi per la difesa, come i recinti elettrici. In Liguria da tempo i cinghiali si sono spinti fino alla costa e tanti i danni non solo alle colture ma anche ai tipici muretti a secco. Nelle Marche il 75% dei danni in agricoltura da fauna selvatica è causato dai cinghiali. Tra risarcimenti alle aziende agricole e da incidenti stradali la Regione spende circa 2 milioni di euro all’anno.

Risarcimenti, lamentano gli agricoltori, che arrivano spesso dopo molti anni e solo in minima parte. “Non coprono mai il valore reale del prodotto distrutto, con la conseguenza – rileva Coldiretti – che molti rinunciano a denunciare”. Cinghiali e fauna selvativa anche causa di incidenti, 170 nel 2023, ricorda l’associazione agricola, secondo l’analisi su dati Asaps, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A questo si aggiunge l’allarme della peste suina africana, non trasmissibile all’uomo, che i cinghiali, ricorda Coldiretti, rischiano di diffondere nelle campagne mettendo in pericolo gli allevamenti suinicoli e con essi un settore che, tra produzione e indotto, vale circa 20 miliardi di euro e dà lavoro a centomila persone. Da qui la richiesta dalle Assemblee Coldiretti “di mettere un freno immediato alla proliferazione dei selvatici, dando la possibilità agli agricoltori di difendere le proprie terre. Mancano, infatti, i piani regionali straordinari di contenimento”.

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