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Economia

Allarme recessione a Davos, gli economisti vedono nero

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Charles Schwab, il fondatore del Forum di Davos e gran cerimoniere degli incontri che un tempo celebravano la globalizzazione e oggi cercano di salvarla, fa appello alla “creatività”. Ne servirà parecchia: perché dai maggiori economisti mondiali sentiti dal World Economic Forum, così come dai Ceo delle maggiori aziende globali, arriva una sentenza “estremamente pessimista” come non si vedeva da un decennio, che non piacerà ai banchieri centrali in arrivo al Forum: il 2023 fa rima con recessione. PricewaterhouseCoopers, che ogni anno agli inizi del Wef presenta la sua Annual Global Ceo Survey quest’anno alla 26esima edizione, ha pubblicato un ruolo dai toni insolitamente cupi. Tre su quattro dei 4.410 Ceo globali sentiti fra ottobre e novembre 2022 sono convinti che l’economia globale andrà in negativo nei prossimi 12 mesi, addirittura il 40% – specie in Asia, vittima di un terremoto partito dal Covid e dalle guerre commerciali che sconvolgono il business model – teme per la tenuta dell’azienda delle sfide del prossimo decennio. “Un’economia volatile, inflazione ai massimi di decenni, la conflittualità geopolitica hanno contribuito a portare a un livello di pessimismo fra i Ceo che non si vedeva da un decennio”, commenta Bob Moritz, global chairman di PwC. Parole che rimandano alla grande crisi finanziaria.

Una serie di sfide cui si aggiunge il cambiamento climatico, dove per le aziende – avverte Pwc – “muoversi al giusto ritmo per mitigare i rischi, creare opportunità e decarbonizzare rappresentano enormi sfide strategiche”. Se negli Usa prevale il pessimismo sull’economia globale rispetto a quella nazionale, in Germania il pessimismo sull’economia interna supera quello globale (94% contro 82% vedono declino della crescita) e in Italia i rapporti sono bilanciati (62% contro 63%). Sia in Italia che in Germania (e col 60% delle economie dell’area euro in recessione” “le contrazioni che ci aspettiamo spingeranno il Pil sotto i livelli pre-pandemia”, avverte Moody’s. Il Chief Economists Outlook del Forum di Davos, una survey fra i capi economisti delle maggiori istituzioni finanziarie e aziende, dice che ben due terzi – il doppio che nello scorso settembre – considerano una recessione globale “estremamente probabile”.

Tutti si aspettano una crescita debole, o molto debole, in Europa, il 91% nutre lo stesso giudizio per gli Usa. Giudizio diviso per la Cina, dove la scelta di abbandonare la policy zero Covid darebbe una spinta alla crescita, ma con ripercussioni dall’impatto sanitario tutte da valutare. Una doccia fredda per Christine Lagarde, attesa a breve fra le nevi della cittadina svizzera dove terrà due interventi, uno giovedì sul tema ‘Trovare una nuova crescita per l’Europa’ colpita nel suo modello industriale dalla guerra di Putin, uno venerdì con la direttrice del Fmi Kristalina Georgieva sulle prospettive globali, con un titolo che la dice lunga: “E’ la fine di un’era?”.

La Bce conta su una mini-recessione in Europa, o addirittura sulla possibilità di schivarla, per tirare dritto sul suo disegno di rialzo dei tassi per riportare al centro la barra della politica monetaria. La Fed a Davos non ci sarà, ma solo la scorsa settimana il presidente Jay Powell parlava di un possibile “atterraggio morbido” di fronte al rialzo dei tassi. Le variabili in gioco, in realtà, vanno oltre i poteri delle banche centrali: si chiamano guerra, scontro geopolitico, uno scenario macroeconomico mondiale instabile e volatile, e un’inflazione trainata dalla crisi energetica. E poi c’è l’enorme punto interrogativo della Cina. Una recessione globale compaginerebbe i piani di Fed e Bce, facendosi carico da sola – senza il rialzo dei tassi – di tagliare i consumi e gli investimenti e anche la domanda di energia.

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Corte Conti Ue dura su Pnrr: scollegato dai risultati

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Duro bilancio della Corte dei conti europea sul dispositivo per la Ripresa e la resilienza, soprattutto per lanciare un avvertimento sul prossimo Bilancio Ue e l’ipotesi di legare di nuovo fondi europei a riforme o risultati. “Sebbene il Pnrr abbia svolto un ruolo cruciale nella ripresa post-pandemica dell’Ue, abbiamo riscontrato diverse debolezze in termini di performance, responsabilità e trasparenza”, ha spiegato Ivana Maletić, membro della Corte. “I finanziamenti di futuri strumenti basati sulla performance dovranno essere meglio collegati ai risultati e disciplinati da regole chiare – ha aggiunto il coautore Jorg Kristijan Petrovič -: altrimenti, questo sistema non andrebbe utilizzato”.

Secondo gli auditor europei, in particolare, il Recovery “non è realmente uno strumento che eroga finanziamenti sulla base della performance”, perché “pone maggior enfasi sui progressi”. Anche se i pagamenti sono legati a traguardi e obiettivi, si riferiscono più spesso a output (come edifici ristrutturati o chilometri di ferrovie) che a risultati concreti, rendendo difficile valutare l’efficacia delle misure. La Commissione però non ci sta: pur dicendosi “lieta” che sia stato riconosciuto l’impatto positivo del Pnrr, afferma che “non sembra basato su alcun riscontro” il giudizio che il Recovery non è basato sulla performance.

Lo è “chiaramente”, rivendica. “Incentivando gli Stati membri ad affrontare le loro sfide strutturali, ha accelerato l’attuazione di riforme vitali in aree come occupazione, istruzione e ambiente imprenditoriale”, ha anche segnalato il vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto (Nella foto Imagoeconomica in evidenza). L’analisi degli auditor europei è comunque impietosa, anche se riprende giudizi già espressi dalla Corte dei Conti a Lussemburgo in più occasioni: “Le informazioni sui risultati sono modeste”, afferma, e “l’efficienza della spesa e il rapporto costi-benefici non possono essere misurati”. La Commissione “non raccoglie dati sui costi effettivi”, accusa. E di conseguenza, “non è chiaro quello che i cittadini ottengono in concreto grazie a questi fondi”.

La Corte lamenta anche che “non esiste un quadro completo su chi siano i destinatari finali dei fondi”. L’erogazione agli Stati membri non garantisce che il denaro abbia raggiunto l’economia reale. In alcuni casi, i fondi sono rimasti presso istituzioni intermedie, come la Banca europea per gli investimenti. Nonostante alcuni miglioramenti recenti, “i sistemi di controllo del Recovery non sono ancora abbastanza robusti”. Sono affidati ai singoli Stati, ma ci sono debolezze e la Commissione “non può imporre rettifiche finanziarie” per singole violazioni, salvo casi gravi, e “alcuni Paesi hanno ricevuto consistenti finanziamenti ancor prima di avere completato i progetti”. E ancora, “solo la metà circa delle misure ha prodotto risultati concreti”. E “l’assenza di indicatori adeguati limita in modo significativo la possibilità di valutare l’impatto delle riforme”. Ci sono metodologie su traguardi e obiettivi diverse per ogni Stato con un “rischio di disparità di trattamento”.

A fine 2024 erano state presentate 128 delle 151 richieste di pagamento previste (85%), ma con forti disparità tra Paesi. Mentre il 42% dei fondi è stato erogato, solo il 28% dei traguardi e obiettivi è stato raggiunto: “una quota significativa dei finanziamenti è stata versata senza che le misure corrispondenti fossero state completate”. Insomma, l’invito è quello di evitare di ripetere in futuro un modello che “non garantisce informazioni sui risultati, sui costi effettivi e sui beneficiari finali”. Per strumenti così è necessario che “i finanziamenti siano chiaramente collegati ai risultati” e che vi siano “regole chiare e comuni per tutti gli Stati membri”. “Una semplice copia e incolla non è un’opzione”.

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Economia

Bce accelera l’euro digitale, PostePay tra i 70 partner

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La Bce scalda i motori sull’euro digitale, con un ‘innovation hub’ che riunirà startup, aziende fintech, mondo dell’accademia, fornitori di servizi di pagamento: obiettivo, far stare al passo il progetto di valuta digitale con l’innovazione ora che dall’amministrazione Trump arriva un’offensiva che fa perno, invece, sulle stablecoin come mezzo di pagamento per puntellare il dollaro. La Banca centrale europea la chiama “piattaforma per l’innovazione”, con gruppi di lavoro che si riuniscono regolarmente, fatta di quasi 70 partner impegnati in sperimentazione, innovazioni, simulazioni e test di quello che – previa decisione finale di Francoforte a fine anno una volta avuto il via libera dell’Europarlamento – sarà l'”ecosistema” dell’euro digitale. Un segnale alle obiezioni del settore bancario e dei payment service providers, dove alcuni all’euro digitale preferirebbero un ecosistema europeo privato superando l’attuale frammentazione.

Il principio è che la Bce fornirà l’infrastruttura, con un euro digitale di base gratuito per l’inclusione finanziaria, ma i privati potranno arricchire con servizi aggiuntivi. Ma anche un’apertura all’innovazione che parla implicitamente alla politica: “l’ampiezza e creatività delle proposte sottolineano il potenziale dell’euro digitale come catalizzatore d’innovazione finanziaria in Europa”, commenta Piero Cipollone che nel board Bce cura il progetto dell’euro digitale. Sullo sfondo ci sono i timori crescenti – anche di stabilità finanziaria – di Francoforte per l’alleanza dell’amministrazione Trump col mondo crypto, in particolare le stablecoin, per puntellare il dollaro e non nasconde la propria avversità alle valute digitali di banche centrali come il progetto europeo.

I partner di questo ‘innovation hub’, divisi fra “pionieri” e “visionari”, vanno dai big dell’high tech e della consulenza come Infineon, Sap, Accenture e Kpmg, al Politecnico di Milano, Sda Bocconi e Fintech Lab Baffi Centre fino al settore bancario con per l’Italia l’Abi Lab. Dai fornitori di pagamenti elettronici come la spagnola Bizum o PostePay, col potenziale di dare accesso all’euro digitale agli anziani poco digitalizzati con la rete capillare di Poste, alle startup dell’Ia come l’italiana TechAi Lab. Fino a Coti, un ecosistema per le transazioni finanziarie con soluzioni per la privacy basato sulla tecnologia blockchain, opzione cui la Bce guarda con interesse.

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Cresce l’utile Ferrari, l’elettrica in vendita dal 2026

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E’ partito bene il 2025 per la Ferrari, di cui la holding Exor dopo la vendita del 4% mantiene saldamente le redini con una quota del 20%. Il primo trimestre si è chiuso con risultati in forte crescita: corrono i ricavi netti pari a 1,79 miliardi di euro, il 13% in più dell’anno precedente, sono 3.593 le consegne totali (+1%), mentre l’utile netto sale a 412 milioni (+17) e l’utile operativo a 542 milioni (+22,7%). “E’ stato un altro grande inizio, grazie al nostro mix prodotto e alla continua domanda di personalizzazioni. Ancora una volta trova conferma la nostra strategia che punta alla qualità dei ricavi più che ai volumi”, commenta l’amministratore delegato Benedetto Vigna che conferma l’inizio delle vendite dell’attesa Ferrari elettrica nell’ottobre 2026.

Non spaventano neppure i dazi sull’importazione di auto europee negli Usa e il calo delle vendite in Cina, tanto che la casa di Maranello non cambia le previsioni finanziarie per l’anno con ricavi attesi a 7 miliardi, ebitda adjusted di almeno 2,68 miliardi e free cash flow industriale superiore a 1,20 miliardi. A Piazza Affari il titolo chiude in crescita dell’1,6%. Il lancio della Ferrari Elettrica, racconta Vigna, avverrà in tre fasi: il 9 ottobre, al Capital Markets Day, sarà svelato “il cuore tecnologico”, all’inizio del 2026 “un assaggio del look e dei concept di interior design”, seguito in primavera dal lancio internazionale. Le consegne partiranno nel mese di ottobre. “Sarà un lancio unico e innovativo – sottolinea – degno della Ferrari.

E’ un capolavoro di tecnologia e design con caratteristiche uniche. Sarà un viaggio di scoperta emozionante. È la prima del suo genere, ma ricca di tutti gli aspetti di una vera Ferrari”. L’elettrica sarà uno dei nuovi modelli in arrivo, nel 2025 sono in tutto sei. “Il portafoglio ordini dei modelli attuali si è evoluto come previsto e copre l’intero 2026, con le 12 Cilindri Coupé e Spider che guidano l’acquisizione degli ordini”, spiega il manager. Sui risultati sportivi per ora deludenti Vigna osserva: “l’inizio non è stato facile, lo sappiamo tutti. D’altra parte siamo tutti spinti da una grinta radicata e da un’instancabile determinazione a continuare a progredire. In Formula 1 il team è più concentrato che mai sulla lotta per le vittorie e i podi”.

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