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A 40 anni dai referendum, l’aborto divide ancora

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Sono passati 40 anni ma i fronti sull’aborto rimangono contrapposti e inconciliabili. Un tema che nella societa’ italiana e’ sempre stato e continua a essere divisivo. Il 17 maggio 1981 gli italiani respinsero i due referendum abrogativi che volevano modificare la legge 194: “Norme per la tutela sociale della maternita’ e sull’interruzione volontaria della gravidanza” approvata il 22 maggio 1978, in un’Italia in piena emergenza terrorismo alle prese con il rapimento e poi con il delitto Moro. Gli italiani scelsero di preservare quella legge che consente alla donna l’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione e, solo per motivi di natura terapeutica tra il quarto e il quinto mese, e ai medici l’obiezione di coscienza. Anche i referendum erano contrapposti: da una parte i Radicali proponevano una piena liberalizzazione dell’aborto estendendolo anche nelle case di cura private; dall’altra il Movimento per la Vita con due quesiti: uno ‘massimale’ che chiedeva l’abrogazione della legge 194 e l’altro ‘minimale’ per cancellare gli articoli che tutelavano l’autodeterminazione della donna riconoscendo come lecito soltanto l’aborto terapeutico. Ma gli italiani respinsero tutti i quesiti: quello radicale con l’88,4% dei no e quello del Movimento per la Vita con il 68% dei no. “Vincendo quei due referendum, sentimmo che la legge era finalmente ‘nostra’ ” spiega Pina Nuzzo all’epoca responsabile dell’Udi provinciale a Lecce e comunale a Modena, in seguito dall’87 all’89 garante nazionale e dal 2001 al 2003 responsabile nazionale della stessa Unione Donne Italiane. “Eravamo consapevoli delle difficolta’ da affrontare per l’applicazione della 194, ma intanto c’era e conteneva il principio dell’autodeterminazione”. Vincere quella battaglia, pero’, non fu facile racconta Nuzzo che all’epoca a 27 anni parlava dal megafono su palchi improvvisati, dove dietro c’era suo figlio intento a giocare. “Fummo molto deluse dal referendum dei Radicali poiche’ dovevamo spiegare alle donne perche’ votare No a entrambi i referendum. Chi aveva i soldi gia’ si rivolgeva a cliniche private, mentre noi volevamo che si abortisse in ospedale sotto l’assistenza della sanita’ pubblica”. All’epoca si costituirono due comitati in difesa della legge: uno tra partiti e associazioni miste; uno solo di donne, con associazioni femminili e gruppi femministi. Per Nuzzo, “la campagna dei partiti era ideologica e non poteva funzionare, mentre la nostra era capillare e parlava direttamente alle donne. Salivamo su una 500 attraversando i quartieri – ricorda Nuzzo – annunciando con un megafono l’appuntamento del giorno dopo in una casa per discutere sulla salute delle donne o dei bambini. Non potevamo parlare di aborto perche’ le donne si sarebbero vergognate. Una volta insieme il tema era la sessualita’ e c’era anche chi ammetteva: ‘Io stiro fino a tarda notte per evitare un rapporto con mio marito…ho gia’ tre figli’. La campagna referendaria ha significato stabilire un rapporto con le donne”. L’esponente dell’Udi, che dal 2012 ha ideato il blog “Laboratorio Donnae”, evidenzia come dopo la vittoria sui due referendum “comincio’ il boicottaggio della 194 con la strumentalizzazione politica dell’obiezione di coscienza, problema ancora attuale. Ad ogni modo e’ una delle migliori leggi, tiene insieme due concetti: il diritto della donna di abortire in condizioni sicure e l’autodeterminazione che le consente di dire: “Do corso a questa vita oppure no”. Se per caso si dovesse rimettere mano alla 194 o fare un nuovo referendum, Nuzzo e’ certa: “faremmo dei passi indietro, noi donne lo perderemmo perche’ ci troveremmo a fare i conti con la bigenitorialita’ fin dal concepimento, sono sicura che la donna non potrebbe piu’ decidere autonomamente”. Anche ripetere quell’esperienza per le stesse donne sarebbe difficile: “il femminismo e’ cambiato. Oggi si hanno piu’ strumenti, piu’ possibilita’, ma meno capacita’ di parlarsi. All’epoca molte di noi hanno visto coetanee morire d’aborto clandestino e anche questo ci ha portato ad avere coraggio… non so nemmeno io come abbiamo fatto”.

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Referendum e regionali, la sfida delle opposizioni

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Per le opposizioni, le regionali saranno il “test prima delle politiche”. La definizione è del presidente Pd Stefano Bonaccini. La tornata d’autunno, quindi, come un esame di compattezza, come una prova di forza per vedere se nel 2027 il centrosinistra potrà evitare il Meloni bis. Al voto andranno: Marche, Veneto, Campania, Puglia, Toscana e Valle d’Aosta. Le prime due sono governate dal centrodestra, le altre dal centrosinistra. Qualche mese prima, l’8 e 9 giugno, ci sarà un altro esame: i cinque referendum su lavoro e cittadinanza. Le opposizioni si stanno spendendo anche per quelli, specie Pd, M5s e Avs, mentre i centristi sono meno partecipi. Già raggiungere il quorum del 50% dei votanti farebbe ben sperare il fronte dei sostenitori dei “sì”.

In vista delle regionali, per il momento il lavoro dei partiti d’opposizione è orientato soprattutto alla definizione delle coalizioni. L’obiettivo della segretaria Pd Elly Schlein è rodare lo schieramento, nell’auspicio che sia il più largo possibile e che si presenti nel maggior numero possibile di Regioni. Sui nomi dei candidati i giochi sono fatti solo nelle Marche, dove per la carica di governatore corre l’eurodeputato Pd ed ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci: l’alleanza è in via di costruzione, ma c’è la speranza che alla fine possa comprendere sia il M5s sia i centristi. In Puglia dovrebbe essere in campo l’altro eurodeputato Pd ed ex sindaco di Bari Antonio Decaro. L’accoppiata Pd-M5s parte in discesa, visto che ha già fatto le prove con la giunta ora guidata da Michele Emiliano.

In Toscana, il trascorrere del tempo fa crescere le quotazioni di una ricandidatura del governatore uscente Eugenio Giani, del Pd, già alleato a Iv, che auspica di imbarcare anche M5s e Avs. Mentre Azione ha già dato il suo placet. Giochi aperti in Campania, dove Pd e M5s stanno lavorando al candidato, che potrebbe essere l’ex presidente della Camera Roberto Fico. In ballo c’è anche l’attuale vicepresidente di Montecitorio Sergio Costa.

Entrambi sono del M5s. Fico sembra favorito, anche se per adesso è “bloccato” dal limite dei due mandati: la Costituente del Movimento ha dato indicazione di togliere il vincolo, ma ancora devono essere definiti i criteri, che dovranno passare la vaglio del voto degli iscritti. Sembrava che la chiusura dell’iter potesse arrivare prima di Pasqua. I tempi, comunque, dovrebbero essere maturi. Resta in ogni caso da capire quali saranno le indicazioni del governatore uscente Vincenzo De Luca. Partita aperta in Veneto, dove il centrosinistra è alla ricerca del candidato, che potrebbe essere sostenuto sia da Pd sia dal M5s.

Dinamica a sé in Valle D’Aosta, dove il voto è sostanzialmente proporzionale: spetta poi agli eletti formare una maggioranza in consiglio regionale e individuare il governatore. La prima prova generale delle opposizioni, però, ci sarà fra un mese e mezzo, con i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, che sostanzialmente aboliscono il jobs act, e quello per rendere più facile l’acquisizione della cittadinanza promosso da un comitato con Più Europa. Pd e Avs hanno dato indicazione per cinque sì. Quattro sì per il M5s, che lascerà libertà di coscienza sulla cittadinanza. Per una volta, indicazioni analoghe da Azione e Iv: “sì” solo alla cittadinanza, “no” agli altri.

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‘Commemorazione di Gramsci, bandiere rosse vietate’

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“Bandiere rosse vietate alla commemorazione di Antonio Gramsci”. Lo sostiene Rifondazione comunista, in una nota firmata dal co-segretario della federazione romana del partito, Giovanni Barbera. Lo stop sarebbe stato dato dalla direzione del Cimitero Acattolico di Roma, dove riposano le spoglie di Gramsci.

“Durante la commemorazione dell’anniversario della morte di Antonio Gramsci – scrive Barbera – si è consumato un atto di censura senza precedenti. Per la prima volta, in decenni di celebrazioni, è stato impedito l’ingresso delle nostre bandiere rosse, che da sempre, nel rispetto della memoria storica, hanno accompagnato il ricordo di Gramsci”. La spiegazione del divieto, continua Barbera, offerta dalla direttrice del cimitero è stata che “il colore rosso sarebbe divisivo”.

Arrivando così a vietare “perfino l’uso di un semplice drappo rosso, senza scritte né simboli”. Alla cerimonia – hanno raccontato altri presenti – ha partecipato almeno un centinaio di persone. Fra loro molti esponenti politici, con delegazioni anche del Pd (composta da Cecilia D’Elia, Michele Fina, Roberto Morassut, Andrea Casu ed Eugenio Marino) e di Sinistra Italiana (guidata da Marilena Grassadonia). Una commemorazione “partecipata, più degli anni passati, e tranquilla – è stato il racconto – che si è chiusa con l’esecuzione di un brano musicale”.

Fra i rappresentanti delle altre forze politiche c’è chi ha confermato che è stato chiesto di non portare bandiere di partito nel cimitero, senza però che questo abbia sollevato particolari polemiche. Qualcuno aveva la bandiera della pace, mentre simboli e nomi delle forze politiche erano comunque presenti sugli omaggi lasciati sulla tomba di Gramsci: mazzi di fiori e corone. Dura, invece, Rifondazione comunista: “Negare la presenza dei nostri simboli alla commemorazione di Antonio Gramsci (uno dei più grandi pensatori del Novecento, fondatore del Partito Comunista d’Italia e martire del fascismo) nel giorno della sua morte, è un atto di ignominia che merita la più dura condanna”.

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Ue: nuovo colloquio telefonico von der Leyen-Meloni

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La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e la premier Giorgia Meloni hanno avuto un colloquio telefonico ieri in serata. Lo riferisce una portavoce dell’esecutivo Ue. La conversazione si è concentrata su “tutte le questioni di interesse comune attuale”, compreso il sostegno all’Ucraina e il dossier dei dazi nel quadro della trattativa tra l’Ue e l’amministrazione Trump.

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