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L’Officina delle Culture Gelsomina Verde, se chiude perde Napoli: da due anni sento solo chiacchiere

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Era l’anno 2012 e per sottolineare il proprio impegno nelle periferie, in modo particolare sul quartiere Scampia, l’Amministrazione partorì il “Patto per Scampia”, una delibera che con una serie di interventi avrebbe cambiato la percezione della quotidianità degli ottantamila abitanti del quartiere. Bonifica campo rom, apertura accessi all’asse mediano, valorizzazione e assegnazione di alcune strutture in disuso o vandalizzate a realtà del terzo settore, per avviare percorsi di forte impatto sociale sul territorio. Tra queste strutture l’ex IPSIA “di Miano” di Via Arcangelo Ghisleri, prima trasformata in un deposito di armi e successivamente in un ricovero per tossicodipendenti. La struttura viene affidata a costo zero per l’amministrazione all’associazione (R)esistenza Anticamorra che da anni ne faceva richiesta con un progetto di centro polifunzionale delle associazioni e progetti di recupero di detenuti e minori “a rischio”. Un Tappeto di 3 cm di siringhe, 12 camion di suppellettili e mmonnezza, quarantacinque bidoni di siringhe,, 450 volontari provenienti da tutta Italia per spalare vomito, siringhe ed escrementi, due anni di bonifica.

La fabbrica di morte diventa l’Officina delle Culture “Gelsomina Verde” dove 13 realtà, tra scuola di musica, fitness, arti marziali, doposcuola, laboratori, detenuti in affidamento, lavorano in media con 400 persone al giorno. Una scommessa politica, etica e sociale vinta. Purtroppo il Comune di Napoli, senza comunicazioni, cede, nonostante un contratto in essere con (R)esistenza Anticamorra, la struttura all’azienda ASìA, una partecipata al 100% del Comune di Napoli. Le associazioni lo scoprono solo perché alla chiusura della regolare SCIA per i lavori di ristrutturazione si ritrovano bloccati con ogni tipo di autorizzazioni. La modifica catastale necessita della firma del proprietario che intanto era cambiato e che per proprio statuto non può cedere a terzi i propri beni.

 

Si decide, di proseguire con un dialogo di costruzioni, tralasciando le vie legali. Dal 2015 decine di tavoli tecnici, l’investimento di Dirigenti, Assessori, Sindaco, Vice-Sindaco, si susseguono, superando rimpasti di giunta, cambi di deleghe e di competenze. La promessa istituzionale è riportare quel bene nella disponibilità patrimoniale del Comune di Napoli previo scambio strutture con l’azienda partecipata. Meta mai raggiunta.
Nel gennaio del 2019 scade ufficialmente il contratto di comodato d’uso. Per mancato rinnovo viene chiusa la comunità alloggio per minori, la biblioteca, la sala multimediale, i laboratori pomeridiani per 25 minori, perdono, nel quartiere col 75% di disoccupazione, il lavoro sette giovani del quartiere impegnati nelle attività soppresse.


Ad ottobre la Polizia Municipale, sotto indicazioni dell’Ufficio Patrimonio del Comune di Napoli con ben 4 blitz, esige statuti, fatture, atti costitutivi, titolarità della struttura, nominativi dei presidenti delle associazioni ed infine i permessi igienico-sanitari necessari per tenere aperta la struttura. Propeio quei permessi che non è stato possibile richiedere dopo il pasticcio burocratico, proprio quella titolarità mancante che il Comune di Napoli, o meglio, chi ha la delega al Patrimonio, in questi anni ha fatto mancare.
Per la Polizia Municipale lo stabile va chiuso. Per le 400 persone che fanno attività nella struttura è pura follia, un suicidio politico oltre che sociale. Per l’assessore Alessandra Clemente del Comune di Napoli sono normali controlli di routine.

Oltre la cronostoria vi è l’aspetto sociale che resta fondamentale. Quella struttura oggi costruisce anticorpi laddove anche la narrazione di Gomorra ha fallito, dà alternative culturali, sociali, professionali e lavorative a detenuti, ai loro nuclei familiari per intero, a 400 mamme del quartiere, a 120 bambini iscritti a karate, combatte con l’economia sociale il fascino del guadagno facile delle piazze di spaccio, offre opportunità lavorative, vero antidoto alle mafie. Per il polo delle associazioni non è più tempo di promesse, tecnicismi, carte bollate, dei “ci stiamo lavorando”. Bisogna mettere in condizione l’Officina di poter riprendere le attività sospese, bisogna rassicurare Fondazioni e privati a tornare ad investire nei laboratori (come Amazon e SIAE che hanno sospeso i finanziamenti perché impossibilitate a finanziare attività in luoghi formalmente abusivi). C’è bisogno che la politica continui ad uscire dalle stanze, si occupi dei territori dialogando con gli attori.


Se il problema è la Corte dei Conti, abbiamo chiesto da due anni di poter pagare un fitto congruo; Se il problema è l’impossibilità di tenere sotto controllo Ciro Corona, se c’è la necessità di depotenziarlo, addomesticarlo, renderlo invisibile, il sottoscritto è pronto a fare non uno ma dieci passi indietro, l’Officina è della gente e non delle icone, è di per se’ un simbolo, non ha bisogno di protagonismi. Se ci sono problemi risolviamoli ma basta promesse, siete in ritardo di due anni, c’è bisogno di azioni, di fatti.

L’autore di questo articolo è il fondatore e l’animatore di “(R)esistenza – associazione di lotta alla illegalità e alla cultura camorristica”  

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Sull’inchiesta l’ombra di una talpa. Superteste dai pm

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Come tutte le inchieste di un certo peso, anche su quella della Procura di Genova che ha portato agli arresti domiciliari il governatore della Liguria Giovanni Toti, il suo capo di Gabinetto Matteo Cozzani, l’imprenditore Aldo Spinelli, in carcere l’ex presidente del porto Paolo Emilio Signorini, si allunga l’ombra di una talpa. Per far luce su chi, eventualmente, ha avvisato gli indagati di fare attenzione esiste da tempo un fascicolo per rivelazione del segreto di ufficio. Fascicolo, che oggi è ritornato a galla, e che è stato aperto dai pm guidati dal procuratore Nicola Piacente sulla scorta di una intercettazione del settembre 2020 ora agli atti del filone dell’inchiesta sulla la presunta corruzione elettorale – voti per rieleggere lo schieramento Toti in cambio di posti di lavoro o una casa negli stabili di edilizia popolare – aggravata dall’agevolazione mafiosa. Reato, questo, contestato, oltre che a Cozzani, ad Arturo Angelo Testa e al fratello Italo Maurizio, entrambi destinatari della misura dell’obbligo di dimora, e all’ex sindacalista della Cgil Venanzio Maurici con l’obbligo di firma. Sono stati loro tre, stamani, a chiudere il giro degli interrogatori di garanzia.

L’unico a rispondere al gip Paola Faggioni è stato Arturo Testa, il quale, come ha ripetuto all’uscita del Palazzo di Giustizia, si è difeso: “è stata una campagna elettorale come abbiamo fatto sempre e poi sono 300 voti! – ha affermato -. Io non ho convinto nessuno dei riesini e non ho promesso o fatto favori: chi è di centro destra ha votato centro destra e chi è di centro sinistra ha votato centro sinistra”. E ancora: “Toti lo conosco da quando era coordinatore nazionale di Forza Italia. Noi non abbiamo mai chiesto posti di lavoro. Io fascista? – ha replicato a una domanda . Chi ci conosce dice eresie. Io mi definisco antifascista e il saluto romano era una goliardata”. Poiché ritiene di non aver fatto “nulla di male”, tramite il suo legale, ha chiesto la revoca della misura. Non così il fratello, che si è avvalso della facoltà di non rispondere ma ha depositato una lettera del 2007 scritta alla comunità originaria del comune siciliano dall’allora candidato sindaco del Pd Marta Vincenzi. E ciò come per dimostrare: “così fan tutti”. Anche Maurici non ha risposto ma ha reso dichiarazioni spontanee e la revoca dell’obbligo di presentazione alla pg: “non c’entro niente con nulla. – ha spiegato davati a taccuini e telecamere – L’inchiesta è surreale, nei miei confronti ovviamente.

C’è una grande confusione, smentisco di avere aiutato Toti, cosa che per me è infamante”. Nel pomeriggio, invece, è stato sentito per oltre tre ore dai pm e dalla Gdf quello che potrebbe essere un supertestimone: si tratta di Rino Canavese, componente del comitato di gestione del porto e l’unico non “allineato”. E’ stato il solo a votare contro il rinnovo trentennale della concessione agli Spinelli del Terminal Rinfuse: in un primo momento l’operazione fu infatti “osteggiata” sa Andrea La Mattina, che nel board rappresenta la Regione Liguria, da Giorgio Carozzi, che rappresenta il comune di Genova, e appunto da Canavese. Solo lui però alla fine votò contro (gli altri due, per gli inquirenti, cambiarono opinione per le pressioni ricevute), ritenendo che l’operazione, come si evince dalle intercettazioni, facesse parte di un “meccanismo perverso”, punto su cui avrebbe fornito delucidazioni. Al termine dell’interrogatorio, Canavese ha affermato di sentirsi “molto arrabbiato perché la credibilità che avevamo come sistema portuale non l’abbiamo più”.

La sua deposizione potrebbe essere fondamentale per confermare le accuse sulle quali Toti ha intenzione di rispondere e chiarire davanti ai pubblici ministeri. Stamane il suo legale si è recato dagli inquirenti per parlare dell’interrogatorio: probabilmente si terrà la settimana prossima in quanto i temi da affrontare sono molti. In merito al fascicolo, secondario, per rivelazione del segreto di ufficio il dialogo intercettato risale agli albori dell’inchiesta per corruzione e voto di scambio. I fratelli Testa, iscritti a Forza Italia in Lombardia e da ieri sospesi dal partito, quattro anni fa, mentre erano a Genova per un incontro con alcune persone della comunità riesina, vengono avvicinati da un uomo con la felpa e il cappellino. Si trattava, raccontano le carte, di Umberto Lo Grasso (consigliere comunale totiano) Il quale rivolgendosi a Italo Testa lo avvertiva: “Vedi che stanno indagando, non fate nomi e non parlate al telefono …. Stanno indagando”. E l’altro: “si lo so, non ti preoccupare …. L’ho stutato (“spento” in dialetto siciliano, ndr)”. Ora si lavora per individuare chi ha avvertito Lo Grasso. Una ipotesi è una talpa visto che Stefano Anzalone, in quota a Toti e anche lui indagato, è un ex poliziotto con agganci, si ritiene, tra le forze dell’ordine. L’altra ipotesi è che si possa trattare di una sorta di millanteria dello stesso Anzalone che, dopo le elezioni, voleva togliersi di torno i fratelli Testa e non onorare le promesse che avrebbe fatto in cambio dei voti.

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Baby prostitute a Bari, i clienti pagavano fino 1000 euro

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Uomini, per lo più professionisti facoltosi, disposti a pagare mille euro per rapporti sessuali con ragazzine. C’è anche chi ha donato una carta di credito oro “da cui potevamo prelevare più di 20mila euro a settimana ma il pin che ci aveva dato non permetteva il prelievo”, ha raccontato agli inquirenti una delle 16enni coinvolte nel presunto giro di prostituzione scoperto dalla squadra mobile di Bari. “La mia amica che sa tutto di me – ha detto un’altra minorenne coinvolta – un paio di mesi fa mi ha raccontato di rapporti avuti con un uomo di Molfetta che l’ha contattata via Instagram e in seguito le ha dato mille euro”. Denaro che le ragazzine incassavano anche se costrette ad assistere ai rapporti di amiche con adulti.

Sono alcuni dei dettagli contenuti nell’ordinanza, firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bari, Giuseppe Ronzino, che ieri ha portato alla esecuzione di 10 misure cautelari a carico di altrettante persone accusate a vario titolo di aver indotto, favorito, sfruttato, gestito e organizzato la prostituzione delle ragazzine. Gli incontri si organizzavano anche via Telegram, attraverso un gruppo realizzato da uno dei clienti. “Questo gruppo era impostato – ha spiegato una delle ragazzine – in modo tale che ogni giorno si cancellavano tutte le chat”.

Tra gli indagati ci sono anche alcuni dei presunti clienti: si tratta di Fabio Carlino e Roberto Urbino, che sono agli arresti domiciliari, mentre per un altro, Stefano Chiriatti, avvocato di 55 anni di Lecce, è stato disposto l’obbligo di dimora nel comune di residenza, come per il 45enne barese Michele Annoscia che gestiva una struttura ricettiva in cui “tollerava l’esercizio della prostituzione”, si legge negli atti dell’inchiesta. In carcere sono finite quattro donne, Marilena Lopez di 35 anni, Federica Devito di 25 anni, Elisabetta Manzari di 24 anni e la 21enne Antonella Albanese.

Per quest’ultima il gip al termine dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto nel pomeriggio di oggi, ha disposto i domiciliari perché ha “ammesso gli addebiti contestati in merito alla introduzione nella attività di prostituzione” di una delle 16enni coinvolte. In cella sono finiti anche il 29enne Ruggero Doronzo, originario di Trani; e Nicola Basile di 25 anni. Il 25enne ha respinto l’accusa di aver organizzato, gestito e sfruttato il giro di prostituzione minorile ammettendo di aver avuto rapporti sessuali, a suo dire, “consenzienti e non a pagamento” con due sedicenni, una delle quali conosciuta da tempo. L’uomo avrebbe anche confermato di aver passato il numero di telefono della sua amica a un uomo di 55 anni con cui lui giocava a poker e di averlo fatto per favorire un incontro che pare abbia fruttato alla 16enne o a chi gestiva il giro di prostituzione tra i 400 e i 500 euro. Nei prossimi giorni saranno ascoltati anche gli altri indagati.

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Geenna, annullata gran parte della confisca dei beni di Raso

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La Corte d’appello di Torino ha annullato gran parte del decreto di confisca dei beni del ristoratore Antonio Raso, coinvolto nel processo Geenna sulla ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Tra i beni che non sono più confiscati anche le quote del ristorante ‘La Rotonda’ e un appartamento. Non è rientrato nelle disponibilità del ristoratore solo un conto corrente, per il quale si discuterà molto probabilmente in Cassazione. La decisione arriva all’esito dell’appello-bis relativo alla misura di prevenzione: la perizia del commercialista nominato dai giudici ha infatti appurato una ‘sproporzione ingiustificata’ tra i beni e i redditi di Raso di circa 140 mila euro. Una cifra molto inferiore a quella che invece aveva accertato la Direzione investigativa antimafia, che nel dicembre 2019 aveva sequestrato beni per un valore stimato di circa un milione.

La confisca, che era stata disposta il 12 aprile 2021 dalla sezione misure di prevenzione del tribunale ordinario di Torino, riguardava – oltre alle quote appartenenti a Raso della società che gestisce il ristorante La Rotonda di Aosta e un appartamento – anche un’autorimessa, due autovetture, tre conti corrente (dei quali uno al 50%) e il saldo attivo di due carte prepagate. “Siamo soddisfatti perché è stata restituita buona parte dei beni. E’ dall’inizio che noi sosteniamo questa tesi”, commenta l’avvocato Ascanio Donadio, che in questo procedimento assiste Raso con il collega e professore Enrico Grosso. Raso, scarcerato il 31 marzo 2023 dopo oltre quattro anni di custodia cautelare, è in attesa della sentenza – prevista dopo l’estate – del processo d’appello-bis di Geenna che si celebra con rito ordinario a Torino.

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