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Johnson perde la maggioranza, resa dei conti su Brexit

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S’infiamma la resa dei conti sulla Brexit fra la trincea della Camera dei Comuni britannica e un governo conservatore ormai numericamente privo anche sulla carta di maggioranza aritmetica. Con l’ombra delle elezioni anticipate lasciata per il momento sotto traccia ma in effetti sempre piu’ incombente all’orizzonte, e il crollo della sterlina precipitata ai minimi da tre anni. La ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva – e prima della contestata sospensione che dovrebbe consumarsi entro la fine della settimana prossima – trasforma Westminster in un’arena: con Boris Johnson deciso a sfidare in tono provocatorio i contestatori; e gli oppositori, spalleggiati da una pattuglia irriducibile di Tory ribelli moderati, in piena battaglia per l’approvazione d’una legge anti-no deal concepita per provare a obbligare l’esecutivo a chiedere a Bruxelles un ulteriore rinvio dell’uscita del Regno dall’Ue a dispetto della volonta’ ribadita dal premier di portare a termine il divorzio il 31 ottobre a qualunque costo. Il clima e’ quello della retorica delle decisioni irrevocabili, con tanto di richiamo all’anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale evocato da Johnson nel suo statement sul G7, in apertura di un dibattito rovente. Dibattito preceduto di pochi minuti dall’annuncio della defezione dai ranghi del gruppo conservatore dell’ex viceministro Philip Lee, convinto avversario della Brexit.

Il suo passaggio ai LibDem della giovane neoleader europeista Jo Swinson segna l’ufficializzazione dello spostamento dei rapporti di forza alla Camera: con la coalizione fra Tories e unionisti nordirlandesi del Dup ridimensionata a 309 deputati e il blocco sommato di tutte le forze d’opposizione sospinto a quota 310. Uno spostamento numerico che non comporta di per se’ la caduta del governo, fino a un eventuale esplicito voto di sfiducia, ma sancisce un dato di realta’, quello dell’anarchia parlamentare. Lo scenario piu’ appropriato per lo scontro trasversale, a mani libere, che in queste ore si scatena sul destino della Brexit. La mossa del fronte del no, annunciatissima, e’ quella della legge anti-no deal firmata dal laburista Hilary Benn con il sostegno del leader del suo partito, Jeremy Corbyn, di esponenti di tutte le formazioni di minoranza, ma anche dei dissidenti conservatori – almeno in parte non piegati dalle minacce di Downing Street di espulsione e di non ricandidatura elettorale – guidati negli inopinati panni del rivoltoso dal mellifluo Philip Hammond, gia’ cancelliere dello scacchiere della defunta compagine di Theresa May. Il testo plana nel pomeriggio sul tavolo dello speaker John Bercow – tornato oggi protagonista con i suoi perentori inviti al silenzio al grido inconfondibile di “order, order!” – per approdare a sera al voto sulla calendarizzazione. Domani dovrebbe quindi scattare, salvo sorprese, la procedura per una triplice lettura sprint di fronte alla Camera bassa. Una corsa a ostacoli per la quale Corbyn, Benn e tutti i firmatari contano d’avere i numeri. Ma a cui Boris Johnson e’ gia’ pronto a reagire. Nel dibattito odierno, il premier carica a testa bassa.

Ribadisce di volere “attuare la Brexit il 31 ottobre” costi quel che costi e avverte che non accettera’ “mai”, finche’ sara’ premier, di “implorare” un’ulteriore proroga “senza senso” ai 27. Il veto anti-no deal ai suoi occhi e’ solo un’iniziativa controproducente, destinata a “distruggere” il tentativo di riaprire il negoziato con Bruxelles per un accordo depurato “dall’antidemocratico backstop” sul confine irlandese che insiste di poter provare ancora a portare a casa malgrado lo scetticismo dei piu’, portavoce europea inclusa. Non sarebbe che “la legge della resa di Jeremy Corbyn”, tuona, “la bandiera bianca” da sventolare all’Ue per tradire il referendum del 2016. Non meno dura la replica di Corbyn, secondo cui quello di Johnson “e’ il governo della codardia”, capace di “attaccare la nostra democrazia per imporre uno sconsiderato” divorzio hard: un governo che “non ha il mandato popolare, non ha la credibilita’ morale e, da oggi, neppure la maggioranza”. Parole da muro contro muro, che avvicinano come sbocco sempre piu’ probabile quel voto politico anticipato che BoJo in pubblico giura di non volere. Ma su cui e’ gia’ pronto a sfidare l’aula, fa sapere l’entourage, con una proposta immediata di scioglimento della Camera in caso di sconfitta sul testo Benn e l’impegno a convocare le urne il 14 ottobre. Data che le opposizioni guardano con sospetto, temendo possa essere spostata alla fine dal premier oltre il 31 in modo da far passare la scadenza di un’ipotetica Brext di default, in assenza di rinvii. Ma che, se messa nero su bianco, difficilmente potranno rifiutare.

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Xi vuole “lavorare con Parigi per risolvere crisi Ucraina”

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In un articolo su Le Figaro all’inizio della sua visita in Francia, Xi Jinping ha espresso l’intenzione di “lavorare con la Francia e l’intera comunità internazionale” per “risolvere la crisi” in Ucraina.

“Ci auguriamo che la pace e la stabilità ritornino rapidamente in Europa e intendiamo lavorare con la Francia e l’intera comunità internazionale per trovare buone strade per risolvere la crisi” in Ucraina, ha scritto il presidente cinese in un articolo sul quotidiano Le Figaro.

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Le accuse del Financial Times: la Russia prepara sabotaggi violenti in Europa

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Mosca sta preparando attentati contro le infrastrutture europee, mettendo a rischio anche la vita di civili. E’ l’allarme lanciato oggi dal Financial Times proprio nel giorno in cui le truppe russe continuano ad avanzare sul campo di battaglia ucraino. Il giornale della City sottolinea che sono state diverse agenzie di intelligence europee ad aver avvisato i loro rispettivi governi sulle nuove minacce russe, anche sulla base di diverse indagini in corso. Secondo le fonti citate dal quotidiano inglese, “la Russia ha già iniziato a preparare più attivamente in segreto attentati dinamitardi e attacchi incendiari per danneggiare le infrastrutture sul territorio europeo, direttamente e indirettamente, senza preoccuparsi apparentemente di causare vittime civili”.

Sebbene gli attacchi degli agenti del Cremlino in Europa siano stati finora sporadici, per il giornale, “aumentano le prove di uno sforzo più aggressivo e concertato”. Una convinzione che trapela da tantissimi esponenti dell’intelligence europea, da quella tedesca a quella inglese, dai servizi francesi, svedesi a quelli cechi e estoni. In particolare, il Ft menziona il capo dei servizi di sicurezza interna tedesca, Thomas Haldenwang, il quale il mese scorso – in una conferenza – ha affermato che il rischio di atti di sabotaggio è “aumentato in modo significativo”.

La Russia, ha aggiunto, ora sembra a suo agio nell’eseguire operazioni sul suolo europeo “con un alto potenziale di danno”. Haldenwang era intervenuto pochi giorni dopo l’arresto di due cittadini russo-tedeschi a Bayreuth, in Baviera, accusati di aver complottato per attaccare siti militari e logistici in Germania per conto della Russia. Un caso simile era accaduto anche nel Regno Unito: a fine aprile, ricorda l’articolo, due uomini sono stati accusati di aver dato fuoco a un magazzino contenente aiuti per l’Ucraina. Per la procura inglese, hanno agito anche loro su mandato di Mosca.

Stessa storia, in Svezia: i servizi di sicurezza di Stoccolma stanno indagando su una serie di recenti deragliamenti ferroviari e sospettano che siano atti di sabotaggio appoggiati da uno Stato ostile. La Russia, inoltre, ha tentato di distruggere i sistemi di segnalamento delle ferrovie ceche, aveva detto il mese scorso, sempre all’Ft, il ministro dei Trasporti ceco. Secondo il servizio di sicurezza interna estone inoltre, sono stati gli uomini dell’intelligence russa ad aver attaccato a febbraio le auto del ministro degli Interni e quelle di alcuni giornalisti. Anche il ministero della Difesa francese ha messo in guardia quest’anno su possibili azioni di sabotaggio da parte della Russia contro siti militari.

“La conclusione ovvia è che c’è stato un reale incremento dell’attività russa”, ha commentato Keir Giles, consulente senior del think tank Chatham House. Un alto funzionario governativo europeo ha inoltre dichiarato al giornale che attraverso i servizi di sicurezza della Nato sono state condivise informazioni su una “chiara e convincente azione russa”, coordinata e su larga scala. Ora, ha concluso, è giunto il momento di “aumentare la consapevolezza e l’attenzione” sulla minaccia della violenza russa sul suolo europeo. Infine, appena giovedì scorso la Nato ha diffuso una nota in cui si affermava che i Paesi alleati sono “profondamente preoccupati” per le recenti “attività ostili” della Russia, di natura ibrida, sull’onda dei casi recenti che hanno portato all’indagine e all’incriminazione di più individui in Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito e Repubblica Ceca.

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Zelensky finisce nella lista dei ricercati di Mosca

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La foto segnaletica è precedente alla guerra, scattata quando indossava ancora camicia e giacca, senza la barba e la mimetica che dal febbraio 2022 sono diventate simbolo del suo ruolo di guida della resistenza ucraina. In una mossa a sorpresa, Volodymyr Zelensky è finito sulla lista dei ‘most wanted’ del ministero dell’Interno russo, dopo che nei suoi confronti è stato aperto un non meglio specificato procedimento penale. Nel database infatti il presidente ucraino, nemico numero uno dello zar Vladimir Putin, è ricercato ai sensi di “un articolo” del codice penale russo. Quale sia resta un mistero, mentre il ministero degli Esteri ucraino ha liquidato la faccenda come l’ennesima “prova della disperazione della macchina statale e della propaganda russa, che non ha altre scuse degne di nota da inventare per attirare l’attenzione”.

Secondo Kiev, l’unico mandato d’arresto “del tutto reale e soggetto a esecuzione in 123 Paesi del mondo” è quello emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin con l’accusa di crimini di guerra. E sui media ucraini corre l’ipotesi che l’inserimento di Zelensky nella lista dei ricercati nasca proprio dal desiderio di vendetta per quel mandato internazionale, uno schiaffo senza precedenti mai digerito dallo zar. Oltre a Zelensky, il ministero dell’Interno russo ha emesso un ordine di arresto anche per l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko e l’ex ministro ad interim della Difesa e attuale rettore dell’Università nazionale di difesa dell’Ucraina, Mikhail Koval. Anche per loro mancano i reati contestati, così come avvenuto in altri ordini di arresto nei mesi scorsi. Dall’inizio dell’invasione, sono diversi infatti i politici e personaggi pubblici stranieri inseriti nella lista nera di Mosca che conta decine di migliaia di voci.

L’anno scorso, i russi hanno dichiarato ricercati l’allora capo delle forze armate Valery Zaluzhny e l’allora comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky, oggi a capo dei militari di Kiev. E proprio a seguito dell’ordine di arresto emesso contro Putin è finito nell’elenco dei ricercati anche Rosario Aitala, il giudice italiano responsabile di quel mandato. A febbraio, è stato aggiunto il nome della premier estone Kaja Kallas insieme a quelli di altri funzionari dei paesi baltici. Per loro la motivazione è stata resa nota ma suona draconiana: “Falsificazione della storia”. Mentre la Russia mischia la guerra con la giustizia interna, lo scontro prosegue in Ucraina, dove il tempo stringe per Zelensky che chiede “decisioni tempestive e adeguate sulla difesa aerea dell’Ucraina, fornitura tempestiva di armi ai nostri soldati”.

Secondo il leader ucraino, “solo questa settimana i terroristi hanno compiuto più di 380 attacchi contro le nostre città e regioni”. Un uomo è morto e cinque persone sono rimaste ferite negli attacchi di Mosca dell’ultima giornata sulla martoriata Kharkiv mentre le forze di Kiev continuano ad attaccare le regioni russe di confine: cinque feriti nell’ultimo raid su Belgorod. Nel frattempo giungono raccapriccianti resoconti delle politiche portate avanti dai russi nei territori del Donbass, dove anche i neonati innocenti sono vittime della guerra: il capo dell’amministrazione militare del Lugansk, Artem Lysogor, ha annunciato che da lunedì prossimo le madri che partoriscono negli ospedali della regione dovranno dimostrare la cittadinanza russa di almeno uno dei genitori del neonato affinché quest’ultimo possa essere dimesso dall’ospedale. Una norma – sottolinea il think tank americano Isw – che rappresenta una palese violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.

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