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Economia

Casa: 2,5 milioni di famiglie in difficoltà, pesa 40% reddito

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In Italia per quasi 2 milioni e 500 mila famiglie, il 9,9% del totale, la spesa per la casa pesa sul reddito disponibile per almeno il 40%: e’ quanto emerge da un Report dell’Istat, dedicato alle emergenze abitative secondo il quale questo “sovraccarico” dei costi per l’abitazione rispetto al reddito riguarda il 36,6% delle famiglie piu’ povere, quelle con reddito netto equivalente entro il primo quintile (quasi quattro volte la media totale) e il 32,3% di quelle in affitto. In difficolta’ con le spese per la casa soprattutto le persone sole (18,3%) e in particolare quelle con meno di 35 anni (30,8%). Il Rapporto fotografa una situazione che mette in evidenza le condizioni di difficolta’ per alcuni segmenti della popolazione per quanto riguarda l’abitazione e l’ampio gap tra le diverse fasce. Una conferma viene dalla percentuale di famiglie che riferiscono di essersi trovate almeno una volta, nel corso del 2021, in arretrato con il pagamento delle spese per le utenze domestiche (il 6,2%), l’affitto (9,4%) o le rate del mutuo (2,7%). Il ritardo nei pagamenti delle spese per la casa si associa alla loro incidenza sul reddito disponibile: la quota di famiglie in ritardo coi pagamenti e’ piu’ elevata nel quinto piu’ povero, dove il 13,5% delle famiglie e’ in arretrato con le utenze (rispetto al 2% del quinto piu’ ricco), il 16,3% delle famiglie che pagano un affitto e’ in arretrato con il pagamento e il 9,4% delle famiglie che hanno contratto un mutuo e’ in difficolta’ con la rata. Secondo il Report il 20% delle famiglie che ha il reddito piu’ basso spende in media per la casa il 32,3% delle proprie entrate mentre il 20% piu’ benestante spende mensilmente per l’abitazione il 6,6% del proprio reddito. Nel Paese il 20,5% delle famiglie nel complesso e’ in affitto, il 70,8% proprietario dell’immobile utilizzato mentre l’8,7% dispone dell’abitazione in usufrutto o a titolo gratuito. Il peso maggiore per l’abitazione lo sopportano le famiglie in affitto che in media (per il complesso dei redditi) spendono 579 euro, il 27,9% delle proprie entrate in media. Le famiglie proprietarie della propria casa che pagano il mutuo sono, il 12,8% del totale (circa 3,3 milioni di famiglie) e per queste l’incidenza della spesa al lordo della quota in conto capitale sul reddito e’ del 21,1%, inferiore a quella media di chi e’ in affitto. Le famiglie piu’ benestanti spendono per l’abitazione in media 363 euro al mese su redditi medi di 5.473 euro mentre quelle del quintile con i redditi piu’ bassi spendono in media per la casa 288 euro su 893. Se una famiglia spende in media 320 euro al mese a fronte di un reddito netto pari a 2.734 euro nell’anno solare precedente, le famiglie in affitto spendono mediamente di piu’ con 579 euro al mese in media, pari al 27,9% del reddito (263 euro per quelle proprietarie). La spesa per i proprietari risulta superiore quando la casa e’ soggetta a mutuo (377 euro) mentre se si considera tra gli oneri relativi all’abitazione anche la restituzione della quota in conto capitale compresa nella rata la spesa sale a 749 euro. Le famiglie residenti in Italia vivono prevalentemente in appartamento (57,3%), mentre il 42,1% abita in ville, villini o casali unifamiliari o plurifamiliari (con accessi indipendenti). Nei centri delle aree metropolitane, oltre il 90% delle famiglie residenti vive in appartamento mentre tale percentuale e’ superiore al 70% nei comuni con oltre 50mila abitanti. Oltre il 70% delle famiglie italiane risiede in immobili costruiti prima del 1990 e oltre una famiglia su dieci vive in abitazioni precedenti al 1950, in particolare il 17,9% delle famiglie che vive nei Centri di area metropolitana. Nel 2021, la presenza di strutture danneggiate (tetti, soffitti, finestre o pavimenti) riguarda l’11,1% delle famiglie residenti, mentre il 13,7% lamenta problemi di umidita’ nei muri, nei pavimenti, nei soffitti o nelle fondamenta.

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Economia

Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Economia

Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Economia

Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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