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Economia

Musk sospende l’accordo e Twitter crolla a Wall Street

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Elon Musk sospende temporaneamente l’acquisizione di Twitter in attesa di una verifica sui numeri reali degli account spam e falsi, in un colpo di scena che alimenta i dubbi sul completamento dell’operazione da 44 miliardi di dollari. Lo stop affonda i titoli della societa’ che cinguetta: in una seduta di rally a Wall Street Twitter perde il 9,7%, il calo maggiore da ottobre, nonostante la rassicurazione di Musk, sempre tramite un cinguettio, sul suo impegno all’accordo. Le implicazioni legali dei due tweet non sono ancora chiare, cosi’ come resta da determinare se le basi per la sospensione sono ammissibili o meno. Di sicuro pero’ Musk ha alimentato i dubbi sull’operazione, nata in modo rocambolesco e che continua a svilupparsi nelle stesse modalita’. Molti, fin dall’annuncio ufficiale nelle scorse settimane sono convinti che, alla fine, Musk gettera’ la spugna e non acquistera’ il social media: gli account spam-falsi sarebbero infatti solo un pretesto per svincolarsi. Altri invece leggono nella sospensione il tentativo di spuntare un prezzo migliore visto che al momento i titoli Twitter sono scambiati con uno sconto del 26% rispetto ai 54,20 dollari per azione offerti da Musk. Per il patron di Tesla liberarsi dall’accordo non e’ comunque facile. L’intesa prevede infatti il pagamento di un miliardo di dollari da parte di Musk per un passo indietro, anche se non e’ chiaro se la clausola possa essere attuata nel caso in cui il miliardario dimostrasse che i dati forniti da Twitter sono scorretti. A complicare la sua posizione c’e’ pero’ la decisione a rinunciare a un’accurata due diligence di Twitter per accelerare i tempi di chiusura dell’accordo: questo gli rende infatti piu’ difficile sostenere un esame dettagliato e lo espone al rischio di essere trascinato in tribunale dalla societa’ che cinguetta per completare l’operazione in base ai diritti e alle tutele legali che vanno sotto il nome di “specific performance”. Convinto che l’accordo si chiudera’ e’ l’amministratore delegato di Twitter, Parag Agrwal: “Anche se mi attendo che l’accordo si chiuda dobbiamo prepararci a tutti gli scenari e fare sempre quello che e’ giusto per Twitter” dice assicurando di essere concentrato nel suo lavoro e questo include anche “decisioni difficili” se necessario. E’ all’alba negli Stati Uniti quando Musk annuncia la “sospensione temporanea dell’accordo in attesa di dettagli” sull’ammontare degli account “spam-falsi”, stimati da Twitter in meno del 5% dei suoi 229 milioni di utenti. Un cinguettio shock che fa affondare i titoli Twitter nelle contrattazioni che precedono l’apertura di Wall Street, arrivando a perdere il 20%. Due ore dopo Musk chiarisce: “resto impegnato all’acquisizione”. La battaglia agli account spam-falsi e’ uno degli elementi centrali della riforma di Twitter che Musk vuole portare avanti: nell’annunciare l’operazione ha infatti chiarito di voler sconfiggere i bot spam, autenticare tutti gli esseri umani e rendere l’algoritmo open-source, oltre ovviamente a fare del social un bastione della liberta’ di parola allentando i controlli dei contenuti e riammettendo Donald Trump. Con il caos che regna e i dubbi che crescono, l’unica a brindare allo stop temporaneo e’ Tesla. I titoli del colosso delle auto elettriche hanno perso il 33% da quando Musk ha annunciato di voler acquistare Twitter ma lo stop ha fatto tirare un sospiro di sollievo, e spinto le azioni Tesla fino +7%. I titoli sono finiti sotto pressione per le vendite di Musk, costretto a cedere azioni per finanziare la sua quota dell’acquisizione. A innervosire gli investitori, alimentando lo scetticismo su Tesla, anche la possibilita’ che Musk ‘distratto’ da Twitter possa relegare in seconda posizione il colosso delle auto elettriche in un momento cruciale come quello attuale con le strozzature alle catene di approvvigionamento che rischiano di rallentare la produzione. In Twitter e in Tesla tutti restano cosi’ con il fiato sospeso in attesa della prossima mossa di Musk. O del suo prossimo cinguettio.

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Economia

Bilanci di previsione, virtuoso 86% dei Comuni ma non al Sud

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Comuni diventati virtuosi nella presentazione dei bilanci di previsione. Quest’anno sette su dieci già a metà febbraio avevano approvato e trasmesso il documento e alla data del 15 marzo la percentuale di comuni in linea era salita all’84%. Il dato risulta da un’elaborazione dei dati del Mef fatta dal Centro studi enti locali. Il dato, si spiega, è di netta rottura rispetto al passato e testimonia l’efficacia delle misure adottate lo scorso anno dal Ministero dell’Economia per interrompere il circolo vizioso dei posticipi infiniti che aveva caratterizzato gli ultimi decenni.

Ciò che emerge è però, ancora una volta, è “l’esistenza di divari siderali tra varie aree del Paese che vede contrapposti casi come quello siciliano, dove solo 30 comuni su 100 risultano aver approvato e trasmesso il bilancio, e la Valle d’Aosta e l’Emilia Romagna, dove questa percentuale sale al 96%”. Dopo anni di slittamenti nel 2023 un decreto ministeriale, ha riscritto il calendario delle scadenze contabili e anche se è comunque stata necessaria una proroga al 15 marzo quest’anno ben 4.695 comuni, il 59% del totale, hanno iniziato l’anno corrente con un bilancio di previsione già approvato e non si sono avvalsi del tempo aggiuntivo concesso dal Viminale.

Stando a quanto emerso da un’elaborazione di Centro Studi Enti Locali, basata sui dati della Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche (Bdap-Mef), sono stati approvati entro il 15 marzo scorso i bilanci dell’84% dei comuni italiani. All’appello mancano quelli di 1.268 comuni. Questi enti hanno un profilo abbastanza preciso: la stragrande maggioranza è di piccole dimensioni. Nove di questi comuni su dieci hanno infatti meno di 10mila abitanti e il 64% è localizzato al sud e nelle isole. Nel nord Italia, nel suo complesso, risulta essere stato già trasmesso al Mef il 92% dei preventivi. In particolare, spiccano per efficienza: Emilia Romagna e Valle d’Aosta (entrambe a quota 96%) e Trentino Alto Adige e Veneto (95%). Ottimi anche i risultati registrati in: Lombardia (93%), Friuli Venezia Giulia (90%) e Piemonte (89%). Chiude il cerchio la Liguria, con l’85% di comuni adempienti.

Scendendo verso sud la percentuale decresce gradualmente, restando comunque buona al centro, dove mediamente sono stati già approvati e trasmessi 89 bilanci su 100. A trainare verso l’alto questo gruppo sono soprattutto Toscana (95%), Marche e Umbria (93%). Più indietro i comuni laziali, fermi a quota 81%. Meno rosea, ma comunque in netto miglioramento rispetto al passato, la situazione del Mezzogiorno dove i comuni più tempestivi sono stati 6 su 10. In particolare, le 3 regioni in assoluto più distanti dalla media nazionale sono – nell’ordine – la Sicilia, la Calabria e la Campania.

Nella banca dati gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla data del 24 aprile, risultano essere stati acquisiti soltanto 117 bilanci di previsione di comuni siciliani su 391, meno di uno su tre. Al di là dello Stretto ne sono stati trasmessi 236 su 404 (58% del totale), in Campania il 67% dei preventivi sono stati approvati nei tempi. Prima della classe, per quanto riguarda il meridione, è la Basilicata (92% di bilanci approvati), seguita a breve distanza dalla Sardegna (885) e dalla Puglia (86%). Chiudono il cerchio l’Abruzzo e il Molise, rispettivamente con l’80% e il 77% di comuni che hanno già inviato al Ministero il proprio preventivo.

Secondo il Centro Studi Enti Locali questi dati, nel loro insieme, testimoniano un effetto tangibile prodotto dalla nuova programmazione ma preoccupa la distanza abissale che continua a caratterizzare i risultati ottenuti da enti di territori diversi. Il processo di riforma della contabilità e dell’ordinamento degli enti locali, i cui cantieri sono aperti, dovrà necessariamente tenere conto anche delle criticità finanziarie e organizzative, ormai strutturali ed endemiche, di alcuni territori e individuare delle soluzioni efficaci per far sì che queste distanze siano colmate.

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Economia

Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Economia

Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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