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Capire la crisi Ucraina

Which side is time on? Pace in Ucraina aspettando i barbari

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La pace in Ucraina. Chi non la vuole? Solo che, ecco, c’è chi pensa che volere la pace significhi “Fermare Putin”. Poi c’è chi pensa che volere la pace significhi “Fermare la guerra”. Personalmente, lo sapete, sono tra questi ultimi. L’argomento centrale di chi dice “Fermiamo la guerra” lo ha espresso Papa Francesco, nel modo più anti-retorico, sintetico ed efficace: “Ogni giorno che passa, le cose in Ucraina diventano più difficili: per tutti”. E’ chiaro, è netto: e, come dico da un mese a questa parte, tutto il resto, TUTTO, è girarci attorno.

Papa Francesco. Dal primo giorno parla di fermare una guerra vergognosa e disumana

Come ogni enunciato del Papa che viene dalla “fine del mondo”, anche questo ha due risvolti. Uno, di percezione immediata, è u.m.a.n.i.t.a.r.i.o: ogni ora, ogni giorno di guerra amputati, significa meno morti, meno feriti, meno profughi, meno distruzioni, più possibilità di aiutare davvero le popolazioni colpite dall’invasione russa. Il secondo, è più profondamente e irrevocabilmente p.o.l.i.t.i.c.o. Non vai da nessuna parte, dice il Pontefice, senza la politica. Non fai un passo nella condotta delle relazioni internazionali né della società civile all’interno degli Stati, senza la politica: senza la visione alta, complessa, lungimirante, riflessiva, della convivenza umana che chiamiamo politica. Così, uno degli obiettivi essenziali di “Fermare la guerra”, è anche quello di fare in modo che dietro la commozione genuina, la generosità, lo sdegno, non faccia capolino la barbarie, l’impulso distruttivo che sembra scorrere nel sangue umano, il retaggio insopprimibile ed arcaico -dico spesso- del nostro “cervello di rettile”. 

Mariupol. Palazzi distrutti dai bombardamenti a tappeto dei russi

La barbarie umana si dice in molti modi. Si declina in modi infiniti. Prendiamo i profughi. Sono tanti, ci dicono le organizzazioni umanitarie. Tre milioni e forse più, quelli esterni. Almeno il doppio, quelli interni. Un sentimento di solidarietà si è sviluppato intorno al loro dramma. La loro sofferenza è diventata la nostra sofferenza. Ma la cosa più importante, per loro, non è stata fatta: arrestarne il flusso fermando il conflitto armato. Abbiamo continuato per oltre un mese a sentire i rombi di guerra -cannoni, missili, droni, bombe, mine, proiettili d’ogni sorta-, ma non abbiamo visto uno straccio di impegno politico -uno s.t.r.a.c.c.i.o, dico!- per sedersi a un tavolo. Facciamo attenzione: un tavolo in cui si siedono russi e ucraini NON è un tavolo negoziale: è un tavolo. Un tavolo e basta. Ci puoi appoggiare uno zaino, una carta; ci puoi prendere un té. Ma non ci puoi fare un accordo. Riunire dunque le condizioni per costruire un tavolo negoziale è un passaggio inaggirabile. E questo significa che in Turchia, la prossima settimana, bisogna portare, in un modo o in un altro, la Cina e gli Stati Uniti. Bisogna che Pechino e Washington si parlino guardandosi bene negli occhi e, dopo essersi parlati, parlino a V. Putin (Xi Jinping potrebbe e saprebbe farlo) e a V. Zelensky (J. Biden potrebbe e saprebbe farlo).

Nel frattempo, il nostro cervello di rettile lavora. La barbarie pressa le frontiere di una civiltà umana così duramente conquistata. Di una pietas così miracolosamente custodita. Eh, sì! Chi si riarma, in Europa. Chi si arricchisce dove e come può, cinicamente. Chi riprende il distruttivo assalto al Pianeta, mettendo fuori gioco per un altro decennio la transizione ecologica. Tutti che cercano di portarsi a casa qualcosa, sulla pelle degli ucraini. E’ triste, tristissimo, ma bisogna pur cominciare a dirlo. 

E qualcuno inizia a porsi degli interrogativi. Prendete il Forum di Doha, sabato scorso, dove V. Zelensky è intervenuto a sorpresa nel quadro della sua “televisione cerimoniale”. Il Presidente ucraino ha paragonato -secondo il suo collaudato modello comunicativo- la distruzione di Mariupol alla distruzione di Aleppo. In Italia la scorsa settimana, di fronte al Parlamento, aveva evocato Genova. Ebbene a Zelensky il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan al-Saud, ha risposto che ” (se) Mariupol è l’Aleppo dell’Europa, bé, Aleppo è la nostra Aleppo”. Volendo sottolineare con ciò la “differenza di trattamento” -mediatico, umanitario, politico- a cui è sottoposta la tragedia ucraina rispetto a quelle mediorientali. 

Le altre guerre. Tanta attenzione per i profughi ucraini ma non bisogna dimenticare palestinesi, siriani e altri popoli 

In questa stessa direzione è andato l’intervento dell’emiro del Qatar. Tamim bin Hamad al-Thani, secondo il Washington Post, ha affermato che il suo Paese è “con milioni di innocenti e rifugiati” dall’Ucraina. Aggiungendo però di voler “ricordare” alla comunità internazionale palestinesi, siriani e afgani che hanno sofferto in modo simile e ai quali, tuttavia, “la comunità internazionale non ha reso giustizia”.

Fermare la guerra, subito. Ritornare alla politica, eliminando come primo atto di buona volontà gli improperi dal linguaggio pubblico. Perché se l’assenza della politica, presto o tardi, fa emergere il mostro acquattato in ciascuno di noi, il tempo dell’Ucraina sembra già alle porte. 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Ucraina: tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti… per cosa?

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Dunque, facciamo un riassunto. Tre anni fa, il 24 febbraio 2022, la Russia invadeva l’Ucraina. L’idea di Putin era chiara: una blitzkrieg, due giorni per arrivare a Kiev, eliminare il governo e sostituirlo con una marionetta del Cremlino. Facile, no? Peccato che la storia non abbia seguito il copione scritto a Mosca.

La “non-guerra” russa e l’ecatombe in corso

In Russia, guai a chiamarla guerra. È una “operazione speciale militare”, un po’ come definire il Titanic “un incidente nautico di lieve entità”. Eppure, questa non-guerra ha prodotto una ecatombe: centinaia di migliaia di soldati russi morti, oltre 80mila ucraini caduti. E queste sono solo le stime ufficiali, perché il numero reale di vittime potrebbe essere ancora più tragico.

Ma non parliamo di numeri. Parliamo di morti, di una carneficina che ha lasciato città distrutte, milioni di sfollati e un’Europa che per tre anni ha investito miliardi per difendere l’integrità territoriale ucraina, la democrazia e i principi cardine del diritto internazionale.

L’Occidente che armava Kiev (fino a ieri)

Per tre anni, l’Europa e gli Stati Uniti di Joe Biden hanno riversato in Ucraina decine di miliardi di euro e dollari, inviando armi, addestrando soldati, costruendo difese, imponendo sanzioni alla Russia e isolando il Cremlino. La NATO ha fatto il possibile per tenere l’Ucraina in vita, ma soprattutto per tenere i russi fuori dai confini europei.

E nonostante tutto, la grande Armata Rossa non ha mai sfondato. Putin ha mandato in battaglia galeotti, ha chiesto aiuto ai nordcoreani, ha arruolato mercenari, ha schierato la famigerata Wagner. Eppure, gli ucraini non hanno ceduto. Hanno preferito morire piuttosto che tornare sotto la sferza russa.

L’Unione Europea accelerava per accogliere Kiev nell’UE. La NATO era pronta a fare dell’Ucraina un suo membro. Ma poi…

Trump entra alla Casa Bianca, Putin sorride

Il 20 gennaio 2025 Donald Trump torna presidente degli Stati Uniti d’America. In meno di un mese, qualcosa cambia. Washington e Mosca riprendono a parlarsi, Trump e Putin si sentono al telefono come vecchi amici. E soprattutto, decidono che la guerra deve finire.

Come? Semplice. L’America di Trump smette di inviare armi e suggerisce che gli ucraini devono rassegnarsi a perdere pezzi del loro Paese. Niente NATO per Kiev, niente resistenza fino alla fine. E soprattutto, gli Stati Uniti vogliono le terre rare ucraine, quelle risorse minerarie fondamentali per l’industria tecnologica.

Dunque, riepiloghiamo: tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, miliardi di euro investiti per difendere l’Ucraina… e ora tutto si risolve così? Trump e Putin spartiscono il Paese, gli ucraini devono ingoiare il rospo, e il mondo guarda in silenzio.

La spartizione dell’Ucraina e il nuovo ordine mondiale

Il nuovo accordo sembra scritto con un righello:

  • Un pezzo all’Ucraina (giusto per non cancellarla del tutto).
  • Un pezzo alla Russia, che si tiene le terre occupate.
  • Un pezzo agli Stati Uniti, che si prendono le risorse minerarie strategiche.
  • Un pezzo ai caschi blu dell’ONU, o a qualche “forza internazionale” che piaccia a Putin.

Nel frattempo, Trump pensa in grande: riannettere il Canale di Panama, erigere nuovi muri con il Messico, ribattezzare il Golfo del Messico in “Golfo d’America”, comprare la Groenlandia, annettere il Canada. Sì, perché gli Stati Uniti hanno bisogno di espandersi, non solo in Ucraina, ma ovunque Trump voglia lasciare il segno.

Tre anni di guerra… per cosa?

Alla fine, quello che per tre anni era stato un punto fermo – la difesa dell’Ucraina, della democrazia, dei confini europei – non conta più nulla. Si fa come decidono Trump e Putin. L’Ucraina viene smembrata. I morti? Un dettaglio di cui nessuno parlerà più.

E noi, in Europa, guardiamo in silenzio. Perché, alla fine, sembra che la storia sia scritta sempre dai più forti. E gli ideali? Quei principi che hanno giustificato tre anni di guerra, le parole sulle libertà, la sovranità, la democrazia? Tutto inutile. Basta una stretta di mano tra due uomini e il destino di una nazione cambia per sempre.

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Cremlino, è Kiev che non vuole colloqui di pace

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“Mosca è pronta a risolvere il conflitto ucraino attraverso colloqui di pace, ma Kiev rifiuta di impegnarsi in questo processo”: così il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov (foto in evidenza) commentado le parole del premier ungherese Viktor Orban, secondo cui il conflitto armato in Ucraina finirà nel 2025, “o attraverso un trattato di pace o dopo il crollo di uno dei belligeranti”. “Vladimir Putin ha ripetutamente sottolineato che siamo aperti a risolvere le nostre divergenze attraverso colloqui di pace. Tuttavia, poiché l’Ucraina attualmente si rifiuta di impegnarsi nei colloqui, continuiamo la nostra operazione”, ha detto il responsabile alla Tass. “Per noi è importante raggiungere tutti gli obiettivi che abbiamo di fronte per garantire la sicurezza del nostro Paese”, ha ribadito.

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La spia che venne dagli Usa, l’uomo di Mosca nel Donbass

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Le prime foto di lui, con il viso pixelato e abbracciato a un soldato, erano apparse sui canali di blogger militari russi il 28 ottobre, subito dopo l’operazione che lo aveva esfiltrato dal territorio ucraino. Ma oggi Daniel Martindale si è presentato a volto scoperto e mostrando i suoi documenti di americano davanti ai giornalisti a Mosca, affermando di aver operato per oltre due anni dietro le linee nemiche fornendo preziose informazioni alle truppe di Mosca nel Donbass. Ora Martindale, che ha 33 anni, dice di voler farsi una vita e una famiglia in Russia e lavorare come agricoltore.

Oltre che acquisire la cittadinanza russa. Come Edward Snowden, l’informatico e attivista statunitense già tecnico della Cia che dal 2013 vive in Russia dopo aver rivelato i dettagli di diversi programmi top secret di sorveglianza di massa del governo di Washington e quello di Londra. E non sarà certo una sorpresa se Mosca deciderà di concedere la cittadinanza anche al nuovo transfuga, che promette di diventare una importante pedina della macchina propagandistica. “Dal 2005 considero gli Usa il mio nemico”, ha dichiarato Martindale, presentatosi alla stampa in camicia arancione e un cappellino nero con visiera. Quello che accade in Ucraina, ha insistito, “è un tentativo dell’America di contenere la Russia per non permetterle di competere ad armi pari con gli Stati Uniti”.

Poi un messaggio diretto a Washington: “Se qualcosa succede a me o a qualche mio parente non sarà un incidente, ma opera delle autorità americane per costringermi a tornare negli Usa e accusarmi di tutti i peccati”. Martindale ha detto di essere stato un “missionario” in Polonia. Quando ha capito che stava per scoppiare una guerra, si è trasferito in Ucraina e, dopo essere passato per Kiev, è arrivato nel territorio della regione di Donetsk controllato dalle forze governative solo una decina di giorni prima dell’attacco russo. Da lì, ha detto, si è messo in contatto con le forze separatiste filorusse scrivendo sul loro canale Telegram. Lo stesso sistema ha utilizzato per mantenere poi i contatti con le agenzie di sicurezza russe, che gli hanno fatto arrivare un nuovo telefono cellulare con un drone.

La settimana scorsa le forze speciali della 29/a Armata hanno fatto un’incursione in territorio ucraino per farlo uscire, dopo che, sostengono i canali degli osservatori militari russi, aveva avuto “un ruolo chiave nella preparazione dell’assalto al villaggio di Bogoyavlenka”, caduto in mano russa qualche giorno fa. Anche oggi Mosca ha annunciato la conquista di nuovi villaggi, quelli di Kurakhivka nella regione di Donetsk e quello di Pershotravneve nella regione di Kharkiv, in un’avanzata nell’est dell’Ucraina che ha accelerato nelle ultime settimane. Le truppe ucraine stanno affrontando una delle più “potenti” offensive della Russia dall’inizio dell’invasione, ha detto il comandante delle forze armate, Oleksandr Syrsky. La situazione è difficile, e “le ostilità in alcune aree richiedono un costante rinnovamento delle risorse delle unità ucraine”, ha aggiunto.

Difficoltà confermate dall’intelligence militare dell’Estonia, secondo la quale solo nell’ultima settimana le forze russe hanno occupato circa 150 chilometri quadrati di territorio nella regione di Donetsk. Il presidente Volodymyr Zelensky ha denunciato massicci attacchi di droni nella notte su varie regioni, compresa Kiev, dove le autorità locali hanno parlato di incendi scoppiati in vari edifici residenziali. Due feriti sono segnalati nella capitale e cinque, di cui tre bambini, a causa di un bombardamento di artiglieria nella città meridionale di Kherson. “I costanti attacchi terroristici contro le città ucraine provano che la pressione esercitata sulla Russia e i suoi complici non è sufficiente”, ha affermato Zelensky. Le autorità russe hanno invece detto che quattro civili sono rimasti feriti in attacchi di droni ucraini sulla regione frontaliera di Kursk e uno su quella di Belgorod. Oltre a due persone rimaste ferite in un attacco di artiglieria delle forze di Kiev a Gorlovka, località nel Donetsk controllata dalle truppe di Mosca.

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