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Volodymyr Zelensky e la televisione cerimoniale

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Il libro di Daniel Dayan e Elihu Katz (Media Events: The live Broadcasting of History, Harvard UP) è vecchio esattamente di trent’anni, ma non dimostra la sua età: anzi. Chi si occupa di comunicazione, anche da semplice e -a volte- stupefatto fruitore, farebbe bene a tenerlo a portata di mano.

Gli autori affrontano il tema degli “eventi mediali”, intanto: cioè fatti ben reali che vengono organizzati e messi in scena non solo affinché uno spettatore “presente” possa apprezzarne la spettacolarità, ma perché un pubblico più vasto, distribuito su territori estesi a scala planetaria e culturalmente anche assai frammentato, possa coglierne il messaggio unificante.

La “televisione cerimoniale”, questo il titolo del libro intraduzione francese, quella che mi trovo ad utilizzare più frequentemente, mette l’accento sulla condivisione partecipativa dei valori, in una modalità che però mantiene inalterate le differenze di individui e gruppi (gusti, comportamenti, culture). Al tempo stesso, tuttavia, essa compatta le microcomunità alla scala mondiale su qualcosa di ben preciso nella sua portata universalistica: la validità di “norme” sociali che appartengono a tutti e che, perciò, non solo vanno approvate da tutti e sono ispirative per tutti, ma vanno rafforzate nelle pratiche (sia ordinarie che eccezionali) e difese contro chi non le rispetta.  

Lo studio si occupa così di eventi mediali apparentemente diversissimi l’uno dall’altro, molto singolari ed anzi unici, a volte, nella loro consistenza di “genere televisivo”, eppure omologati a un livello più profondo e sostantivo, vale a dire da una ritualità che ne esalta l’efficacia simbolica, le spinte emulative, le pretese globalitarie. 

Gli eventi cerimoniali di cui il libro si occupa vanno dal funerale di Kennedy al matrimonio di Diana e Carlo, dai viaggi di Giovanni Paolo II ad eventi sportivi, giudiziari, scientifici e tecnologici. Di là dai “temi”, gli eventi furono descritti allora in base a uno scripting che prevedeva tre story forms fondamentali, che gli autori chiamano Contest, Conquest, Coronations. Altre se ne possono aggiungere e diverse se ne sono aggiunte, di fatto, in questi anni, ampliando probabilmente la tipologia originariamente suggerita dagli autori (incoronazioni, confronti, conquiste). Ma una è certamente innovante ed è legata alla guerra russo-ucraina, e particolarmente all’azione mediatica del Presidente Volodymyr Zelensky.

Ci riferiamo particolarmente alle “cerimonie” costruite sugli interventi ai Parlamenti nazionali delle grandi democrazie (in Europa, negli Stati Uniti, in Israele, in Giappone) e nei consessi sovranazionali, dal Parlamento di Bruxelles al Palazzo dell’ONU a New York. La “televisione cerimoniale” di Zelensky merita di essere approfondita per i modi con cui è costruita e i risultati attesi ed effettivamente conseguiti. I modi in cui è costruito l’evento mediale ha un basamento verbo-iconico. Ha, cioè, una componente visuale e una componente discorsiva. La componente visuale combina a sua volta due figurazioni che sono imperniate sui protagonisti della cerimonia e che, in realtà, costituiscono gli elementi essenziali per la spettacolarizzazione dell’evento. Da una parte, lui, il Presidente invitato. Si tratta di un personaggio giovane e vitale, eppure sempre più provato dalla guerra, dalle sofferenze del proprio Paese invaso dai russi (come potrebbe essere altrimenti?), col sigillo visivo di essere vestito sempre allo stesso modo (in particolare con la T shirt verdino-marrone che rappresenta la sua divisa da campo). Dall’altra parte, il consesso che lo accoglie, il Parlamento o l’Assemblea o il Consiglio, che gli tributa rispetto e, alla fine, un applauso scrosciante, lungo, appassionato e, insomma, una standing ovation. Il sigillo rituale dell’evento mediale sta proprio in questa interazione visiva che spettacolarizza il “contatto” attraverso il reciproco riconoscimento dei protagonisti e, alla fine, attraverso l’emotività che si rende visibile con l’applauso e al tempo stesso si “libera” nell’applauso.

Il discorso di Zelensky, dal suo canto, è frutto di una sceneggiatura ben costruita, molto teatrale e persino shakespeariana nell’impianto narrativo, che ripropone tuttavia nel suo intento persuasivo la cruda urgenza del sillogismo. “Noi siamo  voi”, racconta il Presidente nella parte “narrativa” dello script, evocando accadimenti di immediata reperibilità. Noi siamo voi non in modo generico, in quanto esseri umani, fratelli o altro. Noi siamo voi nel momento della sofferenza che oggi è per noi come ieri fu per voi: noi siamo sotto le bombe e moriamo oggi a Kiev e Kharkiv e Mariupol, come voi a Hiroshima o contro Hitler o nell’Olocausto o in un attentato terroristico, o insomma in un vostro dramma collettivo, di cui conservate dolorosa memoria. Di più, noi patiamo questa sofferenza perché non vogliamo arrenderci, perché noi ci battiamo. Per la nostra Patria, certo, per la sua integrità territoriale, ma anche per difendere quei valori di democrazia e di libertà che sono nostri perché sono vostri, e possono continuare ad essere nostri solo se permangono fermamente vostri in una visione ampia, universalistica, destinale di un potere che intanto è legittimo in quanto è anti-autoritario.

La “conclusione necessaria” del sillogismo è la “richiesta di aiuti” la quale non solo può essere a tutto campo, ma non è una richiesta di elemosina. E’ una “conseguenza” di premesse (sillogistiche appunto), le quali dicono che noi siamo voi perché soffriamo come voi avete sofferto, ma anche perché ci troviamo in prima linea nel combattimento per difendere non solo e non tanto i nostri interessi di “ucraini”, ma i nostri comuni valori di democrazia e di libertà. Valori, del resto, espressi e rilanciati informa solenne proprio attraverso questi cerimoniali. I quali, sia detto per inciso, investono tutti e tre i campi enumerati da Dayan e Katz: il pubblico dibattito che educa alla libertà e la fa crescere(confronto), il consolidamento valoriale (incoronazione) e la conquista culturale e politica (l’allargamento di nuovi spazi ai diritti civili).

La mia guerra è la tua guerra, dice la televisione cerimoniale di Zelensky, la mia resistenza all’invasore è il tuo baluardo culturale e civile. Ogni aiuto non solo è legittimo ma, secondo il canone della ritualità, è consequenziale, è dovuto in qualche modo: militare o umanitario che sia. E se terza guerra mondiale ci deve essere, ebbene che sia: giacché la posta in gioco non è l’Ucraina, ma la democrazia. Il valore fondante, a quanto si dice, dell’Occidente. Chi deve convincere chi, a questo punto? E quanto sono disposti a capire, di tutto questo, V. Putin e Xi Jinping?          

 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Zuppi, per l’Ucraina avere lo struggimento che ha il Papa

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“Papa Francesco ci chiede di non abituarci alla guerra. A me, come credo a tanti, ha commosso la commozione di papa Francesco l’8 dicembre a Piazza di Spagna, quando con tutto lo struggimento di far proprio il dolore del popolo ucraino, la sofferenza del popolo ucraino colpito dalla guerra, vi ricordate, non riusciva più ad andare avanti. Dobbiamo continuare ad avere quello stesso struggimento. Perché ogni giorno che passa è tante persone che muoiono, è un odio che diventa ancora più profondo, è un inquinamento che diventa ancora più insopportabile in tutto l’ambiente. E il rischio è che sia davvero una guerra mondiale, che nei suoi vari pezzi già coinvolge tanti”.

Lo ha detto il cardinale di Bologna e presidente della Cei Matteo Maria Zuppi intervenendo questo pomeriggio a Rimini, nella prima giornata del 44/o Meeting per l’amicizia fra i popoli, alla tavola rotonda moderata da Bernhard Scholz sulla Fratelli tutti. La missione di pace affidatagli dal Papa, ha detto Zuppi, “nasce da questo. Papa Francesco ci insegna a struggerci per la pace, a cercare tutti quanti i modi: spingere, trovare quello che può essere utile, ascoltare, manifestare la vicinanza, vedere gli spazi che possono favorire una composizione”. Secondo il cardinale, “questo non significa tradimento. Mi spiego. La pace richiede la giustizia, e richiede la sicurezza. Cioè non ci può essere una pace ingiusta, anche perché sarebbe la premessa di una continuazione dei conflitti. Dev’essere una pace giusta. E non dimentichiamo naturalmente che c’è un aggressore e c’è un aggredito”.

“E dev’essere una pace sicura – ha proseguito -, cioè che possa permettere alle persone di guardare con speranza al futuro. Poi certamente la sicurezza richiede il coinvolgimento di tutti, mai dare per scontato. Davvero se vuoi la pace prepara la pace. E’ questo il grande impegno che dobbiamo con consapevolezza e responsabilità cercare”. Nella missione, poi, “c’è l’attenzione soprattutto per la parte umanitaria, quindi i bambini ucraini che sono in Russia, provare a capire che cosa si può fare e quindi anche il ritorno di chi deve ritornare nelle proprie famiglie, nelle proprie case”. “E i frutti? – si è chiesto lo stesso Zuppi – Purtroppo la guerra lacera con profondità e qualche volta con rapidità, ma la guerra è sempre una preparazione, c’è sempre in terreno di coltura, c’è sempre una gestazione, non dobbiamo mai dimenticare. Sicuramente questo ci richiede, richiederà la capacità di mettere insieme tanti soggetti che possano spingere per trovare la pace”.

“Personalmente – ha detto ancora – lo vivo con una grande consapevolezza: quanta gente prega per la pace. E devo dire che questo mi dà, per certi versi, ancora più responsabilità, una responsabilità che ci coinvolge tutti quanti, ma anche il senso di una grande invocazione che ci spinge, ci deve spingere, ci spingerà anche nelle prossime settimane, nei mesi prossimi se serve, a trovare la via della pace, a rispondere a quel vero desiderio di tutti che è di liberarci della violenza e di fare tesoro di questa pandemia perché finalmente si possa combattere la guerra e si possa immaginare un mondo senza guerra”.

Per Zuppi, questa “non è un’ingenuità. ‘Ma come? con quello che succede? Anzi, con la tentazione del riarmo?’ – ha detto -. Ma a maggior ragione, come con la pandemia del Covid dobbiamo far tesoro, dobbiamo anche sapere far tesoro di questo e cercare tutti gli strumenti che possano comporre i conflitti. Perché il dialogo non è tradire le ragioni, non è accettare una pace ingiusta, ma è trovare una pace giusta e sicura, però non con le armi bensì con il dialogo. E questo credo che sia davvero indispensabile per questa tragica guerra in Ucraina e in tanti pezzi della guerra mondiale”. Nel corso della tavola rotonda, il cardinale ha ascoltato anche quattro testimonianze di imprenditori o operatori nel campo sociale sul tema dell'”amicizia operativa”, e ha voluto sottolineare come anche “l’amicizia sociale è costruzione di pace: è liberare da tanta rabbia, da tanto odio, da tanto individualismo. Questo discorso dell’amicizia sociale credo che papa Francesco ce lo rilanci perché altrimenti non c’è futuro. Quindi la Laudato sì per la casa comune, perché altrimenti non c’è più l’uomo che non ce la fa più a vivere, e la casa che non può essere una casa di estranei, ma Fratelli tutti”.

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L’India non invita Kiev al G20, ‘non è tema del summit’

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Dietro le quinte l’adagio si ripete da tradizione: il G20 non è palcoscenico per la sicurezza internazionale. E, fedele alla sua politica di non allineamento, l’India padrona di casa lo certifica con un segnale inequivocabile: a Delhi il 9 e 10 settembre l’Ucraina non ci sarà. Una scelta utile, nella visione del ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, a mantenere i riflettori puntati sui Paesi emergenti. Ma che lascia presagire tensioni e lunghi negoziati tra le diplomazie per arrivare a una dichiarazione finale capace di fare riferimento alla guerra e alle sue conseguenze al cospetto anche di Mosca, invitata di diritto al forum politico. Seppur con l’incognita della presenza, ancora tutta da confermare ma data assai improbabile, del presidente Vladimir Putin, sempre esposto al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.

Pubblicata sul sito della presidenza del G20 a poco più di tre settimane dal summit, la lista confezionata da Delhi conta ventinove ospiti: oltre ai consueti venti Paesi più industrializzati, l’invito è stato esteso anche alla Spagna, in qualità di membro permanente, ai Paesi Bassi, e poi a Bangladesh, Nigeria, Mauritius, Egitto, Oman, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Scorrendo l’elenco, dell’Ucraina nemmeno l’ombra. Del resto, si è giustificato il capo della diplomazia indiana, il G20 “non è il Consiglio di sicurezza dell’Onu, è una piattaforma focalizzata sulla crescita globale” che “deve restare al centro dell’attenzione”.

E il mancato invito, è il chiarimento, non mette certo in discussione le “relazioni buone e solide in campo economico, militare, tecnologico e di sicurezza alimentare” tra Delhi e Kiev, evidenziate anche dagli incontri – l’ultimo a margine del G7 di Hiroshima a maggio – tra il primo ministro Narendra Modi e il presidente Volodymyr Zelensky. L’esclusione dell’Ucraina – in discontinuità con la linea dettata nel novembre scorso anno dall’Indonesia al G20 di Bali – conferma però la fermezza dell’India nel mantenersi “indipendente” davanti al conflitto. E alimenta nuove polemiche intorno al supporto internazionale a Kiev all’indomani delle controverse parole del braccio destro di Jens Stoltenberg, Stian Jenssen, che aveva indicato la cessione di alcuni territori ucraini a Mosca come “una soluzione” per un’adesione del Paese alla Nato, facendo infuriare il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak.

Uscita di cui lo stesso Jenssen ha poi fatto mea culpa, definendola un “errore”, mentre la stessa Alleanza è corsa ai ripari riaffermando il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale ucraina. Da parte sua, l’India assicura il pieno impegno sulla scena del G20 per arrivare a un testo finale “ambizioso”. In queste settimane – con l’intera nazione che attende il grande evento puntellata di manifesti dallo slogan scelto dalla presidenza ‘One Earth. One Family. One Future’ – il lavoro degli sherpa è fitto e destinato a protrarsi fino all’ultimo minuto utile. Tra i corridoi del segretariato del G20 nella capitale indiana circola un cauto ottimismo per il successo finale delle trattative nel segno di quanto espresso a Bali. Oggi come ieri, è l’annotazione di Jaishankar, le conseguenze della guerra “continuano a dominare l’economia mondiale”.

E a colpire anche quel Sud globale di cui l’India vuole rappresentare “la voce” e le istanze, dando più spazio – in una formula ancora da definire – anche all’Unione africana con l’intento di “plasmare un nuovo ordine mondiale”. Nuove architetture, soprattutto economiche, che prima di approdare a Delhi saranno all’ordine del giorno anche del vertice dei Brics, il club degli emergenti o ex tali – capeggiati da Russia, Cina, India e Brasile – il 22-24 agosto in Sudafrica. Le loro priorità, nella visione indiana, dovranno essere ascoltate dalle economie più sviluppate a settembre. Nessuno spazio, nemmeno a margine, per nuovi colloqui di pace nel solco di Gedda.

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Grossi all’Onu presenta il piano per Zaporizhzhia

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Un piano in cinque punti per salvare la centrale nucleare di Zaporizhzhia. E’ quello che il direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi ha presentato all’Onu, parlando di “impegni essenziali per evitare il pericolo di un incidente catastrofico”. I cinque punti prevedono che non ci sia “nessun attacco da o contro la centrale nucleare, di non usare l’impianto come deposito o base per armi pesanti o personale militare, non mettere a rischio l’alimentazione esterna dell’impianto, proteggere da attacchi o atti di sabotaggio tutte le strutture, i sistemi e i componenti essenziali per il funzionamento sicuro e protetto, non intraprendere azioni che compromettano questi principi”. Grossi ha spiegato che “la situazione della sicurezza nucleare e della protezione di Zaporizhzhia continua ad essere estremamente fragile e pericolosa, le attività militari continuano nella regione e potrebbero aumentare molto considerevolmente nel prossimo futuro”.

Per questo, ha avvertito, “siamo fortunati che non si sia ancora verificato un incidente nucleare”. Tuttavia, al termine dell’incontro in Consiglio di Sicurezza, il direttore dell’Aiea ha sottolineato con soddisfazione che “oggi è un giorno positivo per la sicurezza della centrale” e che “è stato fatto un passo nella giusta direzione”. Pur precisando che bisogna essere cauti, si è detto incoraggiato dalle espressioni di sostegno al lavoro dell’Agenzia che ha ricevuto, incluso ai principi elaborati dopo intense consultazioni con Russia e Ucraina. Alle quali ha chiesto “solennemente di osservare questi cinque punti, che non vanno a scapito di nessuno ma a vantaggio di tutti”. Nel corso della riunione è poi andato in scena il consueto scontro tra Russia e occidentali, Usa in testa.

Assicurare la sicurezza nucleare “è sempre stata e rimane una priorità per il nostro Paese”, ha detto l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, sottolineando che “Mosca sin dall’inizio ha fatto ogni sforzo possibile per prevenire minacce alla sicurezza dell’impianto create dal regime di Zelensky e dai suoi alleati”. E affermando di condividere le preoccupazioni di Grossi sulle minacce alla sicurezza della centrale. Mentre la collega americana Linda Thomas-Greenfield ha puntato il dito contro la Russia, spiegando che “le sue azioni sconsiderate sono in netto contrasto con il comportamento responsabile dell’Ucraina e sono un attacco alla sicurezza della regione e del mondo”: “È interamente sotto il controllo di Mosca evitare una catastrofe nucleare”.

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