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Covid e mafie, parla Maresca: ai clan fanno gola le risorse stanziate per la pandemia

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Il quarto report dell’Organismo di monitoraggio del Viminale sulle infiltrazioni mafiose nell’economia in era Covid lancia un allarme forte su un possibile orientamento delle cosche a trovare modi di incamerare le risorse delle misure di sostegno disposte per la pandemia. Ne parliamo con il sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli, Catello Maresca, per 12 anni alla Direzione distrettuale antimafia e inquirente che ha firmato alcune delle più importanti catture di mafiosi latitanti in questo primo scorcio del terzo Millennio.

Lei è stato tra i primi a sottolineare il rischio di infiltrazioni delle mafie nell’economia in tempi di pandemia. Legge già segnali sul territorio di questa infiltrazione?

Non c’è un rischio ma la certezza che la pandemia è (e sarà) un’occasione per le mafie di esplorare nuovi affari. L’esperienza nella lotta alle organizzazioni criminali mi ha insegnato che le mafie sono alla continua ricerca di nuove fonti di sostentamento. Certamente proveranno a sfruttare la crisi pandemica a loro esclusivo vantaggio. Oggi più di ieri è proprio in questi momenti critici che emerge con chiarezza come le mafie sono un cancro della nostra società. È quello che provo a spiegare da anni soprattutto quando vengo invitato nelle scuole a spiegare che cos’è la mafia. Oggi l’affare si chiama mascherine, dispositivi di protezione personale, sanificazioni di ambienti, igienizzazioni, logistica, trasporti. In ognuno di questi settori si sono palesate, dalla sera alla mattina, nuove aziende che sono entrate nel nuovo modello di business dell’era covid. Oggi i hanno magari la faccia pulita di un prestanome, la fedina penale immacolata di un uomo o donna di paglia. Segnali della presenza della mafia nell’economia del Covid sono percepibili da mesi ormai. Andando sui territori considerati difficili e a rischio con la nostra Associazione Arti e Mestieri lo abbiamo visto subito. Perciò abbiamo lanciato l’allarme prima degli altri. Se stai sul terreno te ne rendi subito conto, basta parlare con la gente. Avete idea di quanti piccoli e medi esercizi commerciali, piccole e medie imprese strangolate dalla crisi pandemica saranno rilevate o occupate da soci mafiosi che porteranno capitali freschi là dove lo Stato non riesce ad arrivare in tempo? Attenzione, la situazione è davvero difficile. 

I vaccini sono un ‘business’ possibile per le mafie e come?

I vaccini sono un affare miliardario e come tutti gli affari redditizi sono attività a rischio che possono essere infiltrate. Certo gli Stati dovranno prevedere meccanismi di distribuzione controllati e sicuri. Altrimenti il pericolo di infiltrazione, soprattutto se la somministrazione sarà affidata a privati, potrebbe sussistere. Dipenderà tutto dai controlli e dai criteri adottati per effettuarli.

La debolezza del tessuto economico campano e di Napoli in particolare crea l’impalcatura adatta per speculazioni di questo tipo?

Napoli è una grande metropoli come altre grandi città in Europa e nel mondo, con debolezze e criticità tipiche delle aree fortemente antropizzate e densamente abitate. L’elemento negativo attuale e fattuale per Napoli, realtà che conosciamo meglio perché ci viviamo, è rappresentato certamente dalla fragilità di un tessuto economico già debole per una crisi economica acuitasi con la pandemia, ma che soffre ancor di più per l’atavica lontananza delle Istituzioni, a partire da quelle di prossimità, dai cittadini che soffrono e soffriranno di più la crisi covid. Non mi piace però un racconto solo nero di questa città. Napoli ha energie positive straordinarie, tra queste sicuramente lo spirito di resilienza dei suoi cittadini, che hanno sempre dimostrato nei momenti più difficili della loro storia di affrontare anche le peggiori crisi e trovare una via di uscita. Occorrerà però ritrovare uno spirito positivo e mettere in campo tutte le forze disponibili capaci di ridurre il rischio di infiltrazioni mafiose. Quando parlo di forze in campo mi riferisco a tutti, non solo alla magistratura e alle forze dell’ordine che fanno, credetemi, nelle condizioni date, un lavoro straordinario. Napoli sconta, sul fronte della cosiddetta criminalità camorristica, quelle caratteristiche di frammentazione dei clan cittadini che rende difficile la loro eradicazione. In ogni caso così come siamo in grado di governare processi così complessi nella lotta alla camorra, occorre mantenere alta la guardia. E non parlo, ripeto, solo della magistratura e delle forze dell’ordine che fanno egregiamente il proprio lavoro. Il vero problema sono i controlli intermedi e la capacità di governare e controllare i flussi economici.

Droga. L’affare più redditizio della camorra nei cinque continenti

La camorra con la sua struttura frammentata ha reali possibilità di governare il flusso delle risorse? Quanto è cambiato il sistema droga durante le limitazioni imposte dal Covid ed è un cambiamento permanente?

Le tradizionali fonti di guadagno della criminalità organizzata napoletana sono certamente le infiltrazioni nel sistema degli appalti per beni e servizi, le estorsioni, l’usura, l’industria della contraffazione. Ma le cosche traggono profitto dall’economia del vizio: prostituzione, azzardo e soprattutto droga, che resta uno dei core business criminali cittadini. Lo spaccio della droga rappresenta ancora una delle risorse principali della criminalità cittadina ed occorre su questo continuare a lavorare con attenzione Anche perché da alcuni indicatori sembra che gli spacciatori si siano attrezzati con consegne a domicilio e metodi più sofisticati di vendita sul web. La droga è un tema criminale ma anche culturale. Ecco perchè dico sempre che non basta la repressione. Occorre continuare ad andare nelle scuole e ad insegnare che la droga non solo fa male ma chi la acquista oltre a farsi del male diventa complice, a volte inconsapevole, delle mafie.

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Last Banner, aumentano le condanne per gli ultrà della Juventus

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Sugli ultrà della Juventus la giustizia mette il carico da undici. Resta confermata l’ipotesi di associazione per delinquere, l’estorsione diventa ‘consumata’ e non solo più ‘tentata’, le condanne aumentano. Il processo d’appello per il caso Last Banner si chiude, a Torino, con una sentenza che vede Dino Mocciola, leader storico dei Drughi, passare da 4 anni e 10 mesi a 8 anni di carcere; per Salvatore Ceva, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo la pena raggiunge i 4 anni e 7 mesi, 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 mesi, 3 anni e 11 mesi. A Franzo viene anche revocata la condizionale.

La Corte subalpina, secondo quanto si ricava dal dispositivo, ha accettato l’impostazione del pg Chiara Maina, che aveva chiesto più severità rispetto al giudizio di primo grado. Secondo le accuse, le intemperanze da stadio e gli scioperi del tifo furono, nel corso della stagione 2018-19, gli strumenti con cui le frange più estreme della curva fecero pressione sulla Juventusper non perdere agevolazioni e privilegi in materia di biglietti. Fino a quando la società non presentò la denuncia che innescò una lunga e articolata indagine della Digos. Già la sentenza del tribunale, pronunciata nell’ottobre del 2021, era stata definita di portata storica perché non era mai successo che a un gruppo ultras venisse incollata l’etichetta di associazione per delinquere. Quella di appello si è spinta anche oltre.

Alcune settimane fa le tesi degli inquirenti avevano superato un primo vaglio della Cassazione: i supremi giudici, al termine di uno dei filoni secondari di Last Banner, avevano confermato la condanna (due mesi e 20 giorni poi ridotti in appello) inflitta a 57enne militante dei Drughi chiamato a rispondere di violenza privata: in occasione di un paio di partite casalinghe della Juve, il tifoso delimitò con il nastro adesivo le zone degli spalti che gli ultrà volevano per loro e allontanò in malo modo gli spettatori ‘ordinari’ che cercavano un posto. Oggi il commento a caldo di Luigi Chiappero, l’avvocato che insieme alla collega Maria Turco ha patrocinato la Juventus come legale di parte civile, è che “il risultato, cui si è giunti con una azione congiunta della questura e della società, è anche il frutto dell’impegno profuso per aumentare la funzionalità degli stadi”. “Senza la complessa macchina organizzativa allestita in materia di sicurezza – spiega il penalista – non si sarebbe mai potuto conoscere nei dettagli ciò che accadeva nella curva”. Fra le parti civili c’era anche Alberto Pairetto, l’uomo della Juventus incaricato di tenere i rapporti con gli ultrà.

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Malore in caserma, muore vigile del fuoco

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Ha accusato un malore nella notte tra domenica e lunedì nella caserma dei vigili del fuoco del Lingotto a Torino ed è morto dopo circa un’ora all’ospedale delle Molinette, dove era stato ricoverato. L’uomo, Samuele Del Ministro, aveva 50 anni ed era originario di Pescia (Pistoia). In una nota i colleghi del comando vigili del fuoco di Pistoia ricordano come Del Ministro avesse iniziato il suo percorso nel corpo nazionale dei vigili del fuoco con il servizio di leva, per poi entrare in servizio permanente nel 2001, proprio al comando provinciale di Torino, da cui fu poi trasferito al comando di Pistoia.

Per circa vent’anni ha prestato servizio nella sede distaccata di Montecatini Terme (Pistoia), specializzandosi in tecniche speleo alpino fluviali e tecniche di primo soccorso sanitario. Ha partecipato a tante fasi emergenziali sul territorio nazionale: dal terremoto a L’Aquila, all’incidente della Costa Concordia all’Isola del Giglio, fino al terremoto nel centro Italia. “Un vigile sempre in prima linea – si legge ancora -, poi il passaggio di qualifica al ruolo di capo squadra con assegnazione al comando vigilfuoco di Torino e a breve sarebbe rientrato al comando provinciale di Pistoia. Del Ministro lascia la moglie e due figli”.

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Nei campi 200 milioni di danni, razzia cinghiali

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Vigneti e uliveti, ma anche pascoli e prati, campi di mais e cereali, coltivazioni di girasole, ortaggi: è lunga la lista della razzia compiuta dalla fauna selvatica “incontrollata” dove i cinghiali, con una popolazione che ha raggiunto i 2,3 milioni di esemplari sul territorio nazionale, costituiscono il pericolo maggiore. La conseguenza sono 200 milioni di euro di danni solo nell’ultimo anno all’agricoltura italiana. La Puglia, con oltre 30 milioni di euro e 250mila cinghiali, e la Toscana con oltre 20 milioni di cui l’80% a causa dei 200mila cinghiali, sono le regioni che hanno pagato di più. Questa la fotografia scattata dalla Coldiretti in occasione delle 96 Assemblee organizzate in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con la partecipazione di oltre 50mila agricoltori, per celebrare dai territori gli 80 anni dell’associazione agricola.

In particolare, secondo la mappa realizzata da Coldiretti, nel Lazio i danni stimati dai soli cinghiali (100mila esemplari) superano i 10 milioni di euro e in alcuni casi riguardano anche l’80% del raccolto. Oltre 10 milioni di euro i danni stimati in Calabria. Un fenomeno che si sta espandendo anche ad aree prima meno frequentate come quelle del Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (20mila esemplari) e in Valle d’Aosta dove i cinghiali si sono spinti fino a quote che superano i 2mila metri. Pesante la situazione in Emilia Romagna dove solo nel Reggiano si stimano almeno 50mila esemplari; “dramma” sul fronte seminativi (specie per mais e girasole) in Umbria con una popolazione stimata di circa 150mila cinghiali. Sei milioni di euro i danni in Basilicata e 5 in Piemonte.

Qui la superficie danneggiata nel 2023 è stata di 34.432 ettari. Colpiti anche l’Abruzzo (i capi superano ampiamente le 100mila unità) con 4,5 milioni di euro di risarcimenti richiesti nel 2022, il Molise (40mila cinghiali) e la Campania (stimati danni per circa oltre 4 milioni di euro). Critica la situazione in Sardegna soprattutto a ridosso delle aree protette mentre in Sicilia non ci sono territori immuni e salgono i costi per la difesa, come i recinti elettrici. In Liguria da tempo i cinghiali si sono spinti fino alla costa e tanti i danni non solo alle colture ma anche ai tipici muretti a secco. Nelle Marche il 75% dei danni in agricoltura da fauna selvatica è causato dai cinghiali. Tra risarcimenti alle aziende agricole e da incidenti stradali la Regione spende circa 2 milioni di euro all’anno.

Risarcimenti, lamentano gli agricoltori, che arrivano spesso dopo molti anni e solo in minima parte. “Non coprono mai il valore reale del prodotto distrutto, con la conseguenza – rileva Coldiretti – che molti rinunciano a denunciare”. Cinghiali e fauna selvativa anche causa di incidenti, 170 nel 2023, ricorda l’associazione agricola, secondo l’analisi su dati Asaps, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A questo si aggiunge l’allarme della peste suina africana, non trasmissibile all’uomo, che i cinghiali, ricorda Coldiretti, rischiano di diffondere nelle campagne mettendo in pericolo gli allevamenti suinicoli e con essi un settore che, tra produzione e indotto, vale circa 20 miliardi di euro e dà lavoro a centomila persone. Da qui la richiesta dalle Assemblee Coldiretti “di mettere un freno immediato alla proliferazione dei selvatici, dando la possibilità agli agricoltori di difendere le proprie terre. Mancano, infatti, i piani regionali straordinari di contenimento”.

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