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Xi e Scholz avvertono Putin: mai le armi nucleari

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Il cancelliere tedesco Olaf Scholz preme sul presidente Xi Jinping perché la Cina ricorra alla “sua influenza sulla Russia” per mettere fine alla “guerra di aggressione” di Vladimir Putin ai danni dell’Ucraina, ottenendo per la prima volta da Pechino un messaggio di opposizione a un’escalation e di rifiuto “dell’uso” o anche solo “della minaccia di armi nucleari”. Non era affatto scontato un esito del genere della controversa missione di meno di 24 ore di Scholz a Pechino, nata sotto pessimi auspici tra i dubbi sulla tempistica espressi dai partner Ue (preoccupati di non regalare una vittoria geopolitica a Xi a poche settimane dal suo terzo mandato alla guida del Pcc conquistato anche in chiave anti-occidentale) e il braccio di ferro interno con la sua ministra degli Esteri Annalena Baerbock, irremovibile sulla necessità di ritarare i rapporti con il Dragone alla luce dell’esperienza russa.

Xi Jinping

La stessa Baerbock, presidente di turno del G7 Esteri di Munster, ha incalzato Mosca ribadendo la richiesta di fermare immediatamente la guerra e di ritirare le truppe. Insieme al ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, “condanniamo la recente escalation della Russia, compresi gli attacchi contro civili e infrastrutture civili, in particolare impianti energetici e idrici, in tutta l’Ucraina usando missili, droni e addestratori iraniani” per “terrorizzare la popolazione civile”, hanno scritto i 7 Grandi nel comunicato finale del vertice di due giorni, mentre il consigliere per la sicurezza nazionale americana, Jake Sullivan, è volato a Kiev per incontrare Volodymyr Zelensky e garantirgli di persona “il fermo sostegno degli Stati Uniti” e del presidente Joe Biden. I giudizi di Xi – riportati prima dai media ufficiali e poi confermati da Scholz (“Germania e Cina sono contrarie all’uso di qualsiasi arma nucleare”) – rappresentano un messaggio chiaro a Putin sul fatto che l’atomica, o anche solo la sua minaccia, rappresenta una linea rossa invalicabile per Pechino. In questo evidentemente in piena sintonia con gli europei dopo che la dichiarazione di Xi sull’amicizia “senza limiti” con la Russia poche settimane prima dell’invasione dell’Ucraina aveva spinto Bruxelles a riesaminare i rischi per la sicurezza sull’ampliamento dei legami con Pechino. La Cina, ha spiegato invece oggi Xi nel resoconto della Cctv, sostiene la Germania e l’Ue “nella promozione dei colloqui di pace e nella costruzione di un quadro di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile”.

Allo stato, “la comunità internazionale dovrebbe sostenere compatta tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi, invitare tutte le parti interessate ad esercitare razionalità e moderazione, condurre contatti diretti il prima possibile e creare le condizioni per la ripresa dei negoziati”. Xi ha parlato poi della necessità di garantire la stabilità delle supply chain alimentare ed energetica, entrambe minacciate dalla guerra, anche a tutela dei Paesi in via di sviluppo. Il cancelliere inoltre come promesso ha sollevato pubblicamente alcuni dei temi spinosi trattati negli incontri con Xi e il premier Li Keqiang, accanto a lui nel briefing con i media: ha detto che Berlino su Taiwan, come Usa e molti altri Paesi, sostiene la politica dell’Unica Cina di cui è parte integrante però anche il principio che “qualsiasi cambiamento dello status quo delle relazioni intra-Stretto deve essere pacifico e consensuale”; ha inviato un messaggio di preoccupazione per i diritti umani, in particolare sullo Xinjiang (“non è solo una questione interna”); e ha respinto le sanzioni cinesi contro deputati Ue e accademici impegnati a difesa dei diritti umani. Sotto lo sguardo sempre più sorpreso del premier cinese, il cancelliere socialdemocratico ha criticato poi la spinta di Pechino “all’autarchia economica”. “Resta il rischio del messaggio di una Germania che vuole approfondire la cooperazione economica con la Cina”, ha comunque osservato su Twitter Noah Barkin, del Programma Asia dello Us German Marshall Fund, rimarcando l’importanza per Scholz di fugare “i timori tra i principali alleati in Europa” che Berlino voglia riprodurre con Pechino il maldestro tentativo compiuto con la Russia di tenere insieme affari e relazioni politiche.

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Tragedia al festival Lapu Lapu a Vancouver: suv travolge la folla, morti e feriti

Durante il festival filippino Lapu Lapu a Vancouver, un suv ha investito la folla causando diversi morti e feriti. Arrestato il conducente. La città è sconvolta.

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Diverse persone sono morte e molte altre sono rimaste ferite durante il festival del “Giorno di Lapu Lapu” a Vancouver, nell’ovest del Canada, quando un suv ha investito la folla. La polizia locale ha confermato che il conducente è stato arrestato subito dopo l’incidente, avvenuto intorno alle 20 ora locale (le 5 del mattino in Italia).

Il cordoglio della città e della comunità filippina

La tragedia ha sconvolto l’intera città e, in particolare, la comunità filippina di Vancouver, che ogni anno organizza il festival in onore di Lapu Lapu, eroe della resistenza contro la colonizzazione spagnola nel XVI secolo. Il sindaco Ken Sim ha espresso il proprio dolore: «I nostri pensieri sono con tutte le persone colpite e con la comunità filippina di Vancouver in questo momento incredibilmente difficile», ha scritto su X.

Le drammatiche immagini dell’incidente

Secondo quanto riferito dalla polizia e riportato dalla Canadian Press, il suv ha travolto la folla all’incrocio tra East 41st Avenue e Fraser Street, nel quartiere di South Vancouver. I video e le immagini diffusi sui social mostrano scene drammatiche: corpi a terra, detriti lungo la strada e un suv nero gravemente danneggiato nella parte anteriore. Testimoni parlano di almeno sette persone rimaste immobili sull’asfalto.

Il dolore delle autorità

Anche il premier della Columbia Britannica, David Eby, ha commentato la tragedia: «Sono scioccato e con il cuore spezzato nell’apprendere delle vite perse e dei feriti al festival». La comunità è ora unita nel cordoglio, mentre proseguono le indagini per chiarire le cause dell’accaduto.

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I primi 100 giorni di Trump, già lavora a ‘nuovi siluri’

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Il traguardo dei primi 100 giorni è ormai alla porte. Al 29 aprile mancano solo pochi giorni: Donald Trump si regalerà un comizio stile elettorale per spegnere le candeline e fare il bilancio dei suoi ‘successi’. Finora però il presidente non sembra essere riuscito a convincere l’opinione pubblica, come testimoniano i sondaggi che lo indicano come il meno amato della storia. Rilevazioni che non lo scuotono, tanto che, come rivelano alcuni funzionari a Reuters on line, sta già lavorando a “nuovi siluri” dei prossimi 100 giorni. Guardando avanti il presidente intende concentrarsi più attivamente sui colloqui di pace e sulle trattative per gli accordi sui dazi in vista di luglio, quando scadranno i 90 giorni di pausa concessi sulle tariffe reciproche.

La posta in gioco è alta: l’entrata in vigore dei dazi annunciato il 2 aprile, il ‘giorno della liberazione’, rischia di avere un impatto economico devastante per gli Stati Uniti, come Wall Street ha cercato a suon di cali consistenti di far capire al tycoon. I negoziati con l’Unione Europa appaiono in salita e quelli con la Cina devono, almeno formalmente, ancora iniziare, lasciando intravedere mesi di febbrili manovre per rimuovere l’incertezza e le nubi di recessione che si stanno addensando sull’economia. Al dossier commerciale si aggiunge quello dei colloqui di pace per l’Ucraina e per Gaza.

Mentre le trattative con l’Iran sul nucleare sembrano progredire, sulle tensioni fra Israele e Gaza la situazione appare in stallo, con i contatti fra Washington e Teheran che rischiano di rappresentare un ostacolo con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli sforzi della Casa Bianca sono concentrati in queste settimane sull’Ucraina anche se al momento la pace resta ancora lontana. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di risolvere la guerra 24 ore, per poi essere costretto a identificare in sei mesi un arco temporale “realistico”.

L’incontro fra il presidente e Volodymyr Zelensky a San Pietro, a margine del funerale di papa Francesco, lascia ben sperare ma i prossimi giorni saranno cruciali, come ha detto il segretario di stato Marco Rubio, per “determinare se tutte e due le parti vogliono la pace”. Trump agli americani presenta come promessa mantenuta nei primi 100 giorni quella di aver domato l’emergenza migranti. Gli arrivi al confine con il Messico sono crollati e le deportazioni di migranti senza documenti sono in aumento, anche se l’obiettivo di un milione di espulsioni in un anno appare irraggiungibile. I successi sull’immigrazione sono stati ottenuti non senza polemiche: le deportazioni sono state infatti accompagnate da una lunga serie di azioni legali, le ultime in ordine temporale riguardanti tre cittadini americani minorenni inviati in Honduras insieme alle loro madri. Il presidente rivendica come successo anche il Dipartimento per l’Efficienza del Governo di Elon Musk.

Il Doge continua alacremente a lavorare per ridurre i costi del governo, anche se gli iniziali ‘risparmi’ sono stati mangiati dai costi per i migliaia di licenziamenti effettuati. In vista dell’uscita di Musk dal governo, l’amministrazione Trump si sta muovendo per rafforzare il controllo sulle assunzioni privilegiando chi è “fedele alla legge e alle politiche del presidente”. Anche il Doge, di cui Trump è orgoglioso, si è attirato decine di cause per i suoi tagli ritenuti indiscriminati. Fra la stretta sui migranti ritenuta eccessiva e l’azione di Musk, oltre che per i timori di una recessione causata dai dazi, il presidente è in forte calo nei sondaggi.

Per l’Associated Press, quattro americani su 10 lo ritengono un presidente “terribile”. Per il Washington Post e Cnn il suo tasso di approvazione è il più basso della storia per i primi giorni di una presidenza (rispettivamente al 39% e al 41%). Valutazioni che non sembrano preoccupare Trump: in un Casa Bianca ben più stabile rispetto al caos del primo mandato – fatta eccezione per il caso Pete Hegseth – il presidente tira dritto e guarda avanti, sognando forse anche un terzo mandato nel 2028 come indicato anche dai cappellini in vendita sul suo sito.

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Pressing degli Usa per la tregua, Mosca attacca l’Europa

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Il faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump nella Basilica di San Pietro, fortemente sostenuto anche dalla Santa Sede, ha ridato speranza agli ucraini di ottenere una pace che non sia una resa, ma il percorso continua ad essere pieno di incognite. Kiev in questa fase rilancia gli appelli ai partner per spingere Mosca ad accettare almeno una tregua, mentre il Cremlino prova a tenersi stretti gli americani assicurando che sulla soluzione del conflitto le posizioni sono “coincidenti in molti punti”, mentre sono gli ucraini e gli europei a voler mettersi di traverso.

A Washington, tuttavia, questo stallo viene vissuto con crescente insofferenza. Ed ora la nuova richiesta alle parti in conflitto è di accettare concessioni reciproche entro la prossima settimana. I colloqui tra Zelensky, Trump e i leader dei volenterosi, a margine dei funerali del Papa, hanno in qualche modo reindirizzato la pressione diplomatica verso la Russia. Tanto che lo stesso presidente americano, nel volo di rientro da Roma, si è lasciato andare ad un’insolita sfuriata nei confronti di Putin, accusandolo di “prendere in giro” gli sforzi di pace con i suoi raid sui civili, e minacciando nuove sanzioni. Mosca ha provato a schivare questi strali rimarcando le distanze all’interno del blocco transatlantico.

Ha iniziato il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, assicurando che il lavoro con gli americani continua, “in modo discreto e non in pubblico”. E ricordando le convergenze tra le due potenze, a partire dall’idea che la Crimea sia russa e che Kiev non potrà mai entrare nella Nato. A rafforzare il concetto ci ha poi pensato Serghiei Lavrov. Il ministro degli Esteri ha accusato gli europei di “voler trasformare, insieme a Zelensky, l’iniziativa di pace di Trump in uno strumento per rafforzare l’Ucraina”, a dispetto delle idee della Casa Bianca. Mosca, in particolare, conta sul fatto che le rivendicazioni territoriali di Kiev, così come le garanzie di sicurezza, non interessino più di tanto a Washington.

Gli ucraini al contrario vogliono ricompattare i loro alleati. Zelensky, pur smentendo la resa nel Kursk, ha ammesso che la situazione al fronte è difficile per gli incessanti raid russi ed ha sottolineato che il nemico insiste nell'”ignorare la proposta degli Stati Uniti di un cessate il fuoco completo e incondizionato”. Nel frattempo il leader ucraino ha continuato a tessere la sua tela diplomatica. Così, in occasione dei funerali del Papa, ha cercato la sponda dei partner, ma anche del Vaticano. Come dimostrano gli incontri con il segretario di Stato Pietro Parolin ed il presidente della Cei Matteo Zuppi, che in passato erano stati mandati da Papa Francesco in missione a Kiev e l’arcivescovo di Bologna anche a Mosca.

Al termine dei quali Zelensky si è detto “grato per il sostegno al diritto all’autodifesa dell’Ucraina e anche al principio secondo cui le condizioni di pace non possono essere imposte al paese vittima. In seguito, l’ambasciatore ucraino, Andrii Yurash, ha fatto sapere che anche il faccia a faccia Zelensky-Trump ha “avuto il sostegno della Santa Sede: di tutti, non di una persona in particolare”. E se una trattativa diretta tra Mosca e Kiev ancora non appare all’orizzonte, gli Stati Uniti provano a stringere i tempi. “Questa settimana – ha spiegato il segretario di Stato Marco Rubio – cercheremo di determinare se le due parti vogliono veramente la pace e quanto sono ancora vicine o lontane dopo circa 90 giorni di tentativi”. E l’avvertimento è chiaro: “L’unica soluzione è un accordo negoziato in cui entrambi dovranno rinunciare a qualcosa che affermano di volere e dovranno dare qualcosa che non vorrebbero dare. In questo modo si mette fine a una guerra e questo è quello che stiamo cercando di fare”.

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