Ci voleva una giovane donna di 31 anni, Manon Aubry, copresidente a Bruxelles del gruppo parlamentare Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica,per dire alto e forte, in modo inequivoco e con parole non felpate, dirette e veritiere, esplicite e non soltanto allusive, quel che è sotto gli occhi di tutti. “La Commissione Europea è totalmente prona davanti alle case farmaceutiche…Siamo capaci di imporre a tutti i cittadini delle inedite restrizioni delle libertà, ma siamo incapaci di imporre a BigPharma qualche regola”. Questo il suo Tweet che ha fatto il giro del mondo.
Manon Aubry. La copresidente a Bruxelles del gruppo parlamentare Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica
Di fatto, la gestione pandemica di Ursula von der Leyen è una tragedia per l’Unione Europea. Sul piano sanitario non meno che su quello economico. Sul piano sociale, con l’aumento delle diseguaglianze e la diminuzione delle tutele. Non meno che su quello della coesione territoriale, visto che gli Stati seguono ormai delle linee di fuga loro proprie, dall’Austria all’Ungheria, dalla Slovacchia alla Polonia. Tutto ciò non somigli a un’analisi severa. Men che meno a un pregiudizio ideologico. Tutto ciò discende, semplicemente, da un’osservazione corretta. Ed esige che si traggano le conseguenze adeguate.
Parlamento Europeo
Credo perciò che le dimissioni di Ursula von der Leyen siano, a questo punto, necessarie.
Per arrestare i franamenti di ogni tipo, e per dar corso a un urgente “nuovo inizio”. Non perché ha “sbagliato i contratti”: cosa di per sé grave, ma che può pure capitare. Anche se in Europa queste cose n.o.n. dovrebbero capitare. E neppure perché, come ha detto la signora Aubry, non ha saputo fronteggiare BigPharma. Ma piuttosto perché fin da subito, cioè dal gioioso 27 dicembre, il giorno in cui si è inaugurata simbolicamente in t.u.t.t.a. Europa, simultaneamente, la vaccinazione secondo un piano di priorità dotato di una sua coerenza, fin da subito, dicevo, la Presidente della Commissione si è mostrata incapace di “pensare” politicamente il problema, e di “agire” politicamente per la sua soluzione.
Non più tardi di tre giorni fa, una grandissima lezione è venuta in questo senso da J. Biden, il quale ha annunciato la partnership tra Merck, la più importante azienda farmaceutica del mondo, grande produttrice di vaccini, che però ha fallito nella corsa al “suo” anti-Covid 19, e la Johnson & Johnson, che si appresta a mettere sul mercato il proprio farmaco, in 100 milioni di dosi programmate da qui a giugno. Merck mette dunque a disposizione i propri impianti per ampliare la produzione della concorrente Johnson & Johnson.
Il fatto che l’annuncio di una cooperazione aziendale lo faccia la Casa Bianca, non è certo una bizzarria. Significa che c’è stata una regia politica: rapida ed efficace.
Biden ha cominciato da subito, forse già da prima dell’insediamento formale, a lavorare al cuore del problema, che è la produzione e solo accessoriamente una misura di organizzazione sanitaria.
Da Bruxelles non abbiamo sentito una parola chiara su questo punto. Non abbiamo ancora un documento che riassuma la politica vaccinale europea. Che a nostro avviso dovrebbe prevedere un Preambolo e tre punti essenziali. Il Preambolo ammette le carenze dell’Unione nella gestione della pandemia e segnatamente nell’elaborazione e conduzione della politica vaccinale, chiedendo scusa profonda e non retorica ai popoli d’Europa.
Il primo punto, annuncia le partnership produttive sul modello americano: e cioè accordi –già in essere e non di là da venire- tra detentori di licenze approvate dall’EMA e fabbriche europee certificate che producono per l’Europa, sotto l’egida istituzionale e politica dell’UE, con la garanzia economica, tecnologica e sanitaria di Bruxelles.
Il secondo punto tratteggia le linee di sviluppo concernenti -da un lato- i “vaccini europei”, vistosamente assenti nel panorama mondiale (se si eccettua la tedesca Biontech, in partnership con l’americana Pfizer); e -dall’altro lato- i vaccini extraeuropei (segnatamente russo, cubano, cinesi e indiani) ai quali l’Unione assicura assistenza piena nella preparazione dei dossier tecnico-scientifici di standard EMA, che i Paesi in questione non sanno e/o non hanno molta voglia di predisporre, con l’aggiunta di protocolli partenariali, una volta andata a buon fine l’approvazione, tra i detentori di brevetti e le aziende farmaceutiche produttrici europee.
Il terzo punto, non meno decisivo dei primi due, mette a fuoco l’idea che una quota di queste produzioni partenariali, non inferiore a1/3 o a¼, per dire, debba essere destinata a spese dell’Unione e sotto la sua responsabilità logistico-sanitaria, ai Paesi poveri d’Africa, Asia e America Latina. E ciò, non solo per la salvaguardia della cultura della solidarietà che è un caposaldo dell’Unione, ma altresì perché occorre tener fermo il punto che dal Covid 19, secondo l’epistemologia della pandemia, o ci si salva tutti, o in realtà saremo sempre, in qualche modo in balia del virus.
E sarà chiaro che non si tratta solo di morti, malati, intubati, ospedali che scoppiano, medici e infermieri che sclerano. Tutto ciò lo sappiamo. Tutto ciò è drammatico. Eppure si tratta anche d’altro: senza vaccino non si batte il virus, e con il virus così diffusamente in circolo la macchina economica non si riprende a funzionare.
La gente non esce, non consuma, non viaggia. L’economia della conoscenza, una delle chiavi di volta del nostro tempo –cinema, teatro, spettacolo, musei, mostre, festival, editoria- è ridotta in macerie.
Chi è nelle condizioni di farlo, accumula i risparmi che può. Gli altri andranno ad ingrossare l’onda di una povertà assoluta paurosa, di una povertà relativa strisciante, nella disperata attesa di qualcuno di cui potersi fidare. Qualcuno. Purchessia. Anche qualche ciarlatano. Anche oltre la democrazia.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.