Accusare “di nazismo una reduce dai campi di sterminio” è diffamazione aggravata dalla finalità discriminatoria, perché è “uno sfregio alla verità oggettiva” e “la più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto”. E in questi casi va “ribadito” che “lo Stato è presente e che è pronto ad andare fino in fondo per tutelare i diritti di chi invoca il suo intervento”.
E’ il ragionamento del gip di Milano Alberto Carboni che, respingendo in gran parte le richieste del pm Nicola Rossato, ha deciso che devono proseguire le indagini, in cui è contestata la diffamazione aggravata dall’odio razziale, sugli insulti social nei confronti di Liliana Segre, senatrice a vita, sopravvissuta alla Shoah e sotto scorta da sei anni. Tra l’altro, bersaglio di altri ed ennesimi attacchi della stessa natura dopo la partecipazione il 25 aprile alla commemorazione della festa della Liberazione a Pesaro.
Dopo l’istanza di opposizione, discussa in aula il 27 marzo e presentata dall’avvocato di Segre, Vincenzo Saponara, il giudice ha ordinato alla Procura di identificare, con nuovi accertamenti, le persone che si nascondono dietro ad 86 account, di iscriverne nove che erano state individuate ma non indagate, tra cui Nicola Barreca che era segretario cittadino della Lega a Reggio Calabria. In più, ha stabilito che il pm dovrà formulare l’imputazione coatta, ossia il decreto di citazione diretta a giudizio mandando a processo altri sette indagati. Tra loro non c’è Chef Rubio. Per il noto volto televisivo e per altri nove, infatti, è stata accolta la richiesta di archiviazione, perché le sue frasi nei post contro Segre e a favore della causa palestinese, “per quanto aspre” e di “pessimo gusto”, rappresentano “una manifestazione argomentata del pensiero dell’autore in ordine a un tema politicamente sensibile”.
Il pm a gennaio, intanto, aveva chiuso le indagini per la citazione a giudizio, ma solo nei confronti di dodici persone, tra cui No vax e Pro Pal. Per il gip, però, che nell’ordinanza riporta una tabella con 246 account e relative offese alla senatrice raccolte, tra il 2022 e il 2024, in 27 querele, non ci si può fermare qua. E non si può sostenere, come ha fatto il pm, “che è frequente nel dibattito politico l’utilizzo, per contrastare e stigmatizzare l’avversario politico, del termine ‘nazista’”. Qua si parla di chi ha vissuto in prima persona l’Olocausto.
E quel “tragico vissuto personale” e “l’incidenza che l’ideologia nazista ha avuto nella sua esistenza sono circostanze che erano ben conosciute agli autori dei post, i quali hanno accostato il termine nazista alla sua immagine proprio in ragione della speciale carica offensiva che ne sarebbe derivata”. Inoltre, si legge, gli insulti “gratuiti” in decine di post vanno considerati diffamatori per la “estrema diffusività dello strumento informatico” che “genera spirali di odio e violenza che sono alimentate proprio dalla inescusabile leggerezza con cui gli utenti si lasciano andare a commenti” di quel genere. Su questo, mette nero su bianco il gip, non può esserci “assuefazione”, il web non può essere “un terreno franco dove ogni insulto è consentito e dove la reputazione degli individui può essere calpestata impunemente”.
Infine, il gip chiarisce che, anche se i colossi della Rete hanno offerto una collaborazione a singhiozzo alle indagini, “nella maggior parte dei casi gli utenti Facebook”, ma anche dell’ex Twitter e di Instagram, “registrano il profilo con il proprio nome reale e inseriscono numerose informazioni personali”. Per questo “la possibilità di identificare gli autori dei post è realistica”.