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Timori antitrust per i big tech, affondano in borsa Google e Facebook

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La Silicon Valley nel mirino delle autorita’ americane. Gli Stati Uniti alzano il tiro sui giganti dell’hi-tech e si preparano ad avviare una raffica di indagini contro Google, Amazon, Apple e Facebook. L’effetto delle indiscrezioni e’ immediato: i tecnologici crollano ai minimi degli ultimi cinque mesi e affondano Wall Street, facendo scivolare il Nasdaq in correzione. Sotto la scure dei timori antitrust Google chiude a Wall Street in calo del 6,12%. Amazon cede il 4,64%. Facebook arretra del 7,51%. Non va meglio a Netflix e Microsoft, che lasciano sul terreno rispettivamente l’1,94% e il 3,10%. Twitter cala del 5,52%. Complessivamente le Fang – Facebook, Amazon, Netflix e Google- vedono andare in fumo 137 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Apple perde l’1,01% con le indiscrezioni di una possibile indagine antitrust da parte del Dipartimento di Giustizia. Un rumors piovuto su Cupertino mentre era in corso la conferenza degli sviluppatori, durante la quale Apple ha annunciato varie novita’ come la ‘separazione’ di iTunes che si dividera’ in tre app separate. L’ondata di vendite sul settore tecnologico e’ innescata dalle indiscrezioni sulle possibili indagini antitrust del Dipartimento di Giustizia nei confronti di Mountain View, riportate dal Wall Street Journal durante il fine settimana e che hanno condizionato la seduta a Wall Stree fin dalle prime battute. Non e’ la prima volta che Google finisce nel mirino per possibili violazioni antitrust: e’ gia’ accaduto in passato ma la societa’ nel 2013 aveva chiuso il caso patteggiando con la Federal Trade Commission, l’autorita’ con la quale il Dipartimento di Giustizia condivide la responsabilita’ antitrust. Proprio la Ftc sarebbe pronta a colpire anche Amazon e Facebook. La possibile indagine sul colosso di Jeff Bezos riguarda i possibili ostacoli alla nuova concorrenza alla luce della sua forza e dell’ingresso in nuovi settori, dalla moda agli alimentari. Con le indagini Google e Amazon rischiano di veder ripetere quanto accaduto a Microsoft negli anni 1990, quando il governo non centro’ il suo obiettivo di smembrare in due il colosso, ma lo trascino’ in un’inchiesta decennale che lo penalizzo’ ‘distraendolo’ dalla sua attivita’. La Casa Bianca – secondo indiscrezioni – non ha preso una posizione sulle indagini ma Donald Trump potrebbe appoggiarle, soprattutto quella contro il nemico Bezos proprietario del Washington Post. Per Facebook la partita e’ ancora piu’ complicata. Il social network sta gia’ lavorando a un patteggiamento con la Ftc sulla privacy, con il quale potrebbe pagare una sanzione fino a 5 miliardi di dollari. Ma la Ftc sembra intenzionata a spingersi anche oltre ed esaminare le possibili politiche monopolistiche della societa’ di Zuckerberg. L’ondata di indagini allo studio mostra il crescente interesse della politica a regolare quello da molti definito il ‘far west’ del web. Sia nel partito democratico sia in quello repubblicano si rafforza infatti il coro di coloro che chiedono maggiori regole e controlli per i giganti di internet. Fra i democratici liberal c’e’ anche chi preme per uno smembramento dei big, divenuti ormai dei veri ‘monopoli’. Il profilarsi di una stretta all’orizzonte preoccupa gli investitori: piu’ regole si traducono infatti in un impatto negativo sui profitti e rendono piu’ difficile giustificare le elevate valutazioni azionarie dei big dell’hi tech.

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Catastrofe umanitaria in Siria, Erdogan chiama Putin

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Circa 700 uccisi in cinque giorni, 80mila sfollati, un ospedale colmo di corpi senza vita ma senza medicinali, una città senza acqua ed elettricità: sono solo alcuni degli inquietanti contorni della “catastrofe umanitaria” causata dal nuovo round di violenze in corso nel sud della Siria, dove da domenica forze governative e i loro ascari beduini sunniti danno l’assalto alla roccaforte drusa di Sweida, al confine con la Giordania e vicina alle Alture del Golan occupate da Israele. Oltre allo Stato ebraico che nelle ultime 24 ore è tornato a compiere raid aerei dimostrativi “a protezione dei drusi”, la scena regionale legata alla crisi di Sweida ha visto nelle ultime ore l’iniziativa del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, principale sostenitore dell’autoproclamato presidente siriano Ahmad Sharaa. Parlando col presidente russo Vladimir Putin, Erdogan ha ammonito Israele dal non violare “la sovranità della Siria”. Sweida è il luogo dove entrano in collisione gli interessi di Israele e Turchia da una parte, e del governo di Damasco e delle forze locali druse dall’altra. In questo contesto, dalla scorsa notte è stato violato il precario cessate il fuoco.

Le tribù beduine di varie regioni siriane, solidali col governo di Sharaa, hanno annunciato la “mobilitazione generale” contro contro le milizie druse agli ordini dello shaykh Hikmat Hijri, che aveva rifiutato i termini dell’accordo con Damasco. Dall’estremo nord-ovest siriano all’Eufrate, da Homs a Damasco, convogli di miliziani delle forze tribali si sono unite a quelle dei beduini del sud. Inizialmente, media filo-governativi avevano annunciato il raggiungimento di un accordo tra Damasco, Israele e dignitari drusi per un ingresso incruento delle forze del governo per “ristabilire l’ordine” e “proteggere i civili”. Poi è giunta la smentita. E la mobilitazione dei beduini è sembrata a molti analisi come un modo del governo per spingere le autorità druse a capitolare. Mentre continuano gli scontri alla periferia di Sweida, l’Onu parla già di 80mila sfollati, per lo più donne e bambini, sia drusi che beduini. E chiede lo stop immediato ai combattimenti. Dall’ospedale pubblico di Sweida giungono appelli disperati a togliere l’assedio alla città per far arrivare medicinali e soccorsi. “Non c’è più spazio per le salme… i corpi sono per strada”, affermano i pochi medici rimasti. Organizzazioni della società civile chiedono l’apertura di corridoi umanitari per consentire l’accesso di acqua, cibo. “Sweida è senza elettricità, acqua e senza internet”, affermano gli attivisti.

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Papa al telefono con Netanyahu: cessate il fuoco ora

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“Ridare slancio all’azione negoziale e raggiungere un cessate il fuoco e la fine della guerra”: le parole di Leone XIV, un nuovo appello a porre fine alle sofferenze dei civili a Gaza, hanno risuonato ancora più forte perché sono state rivolte direttamente a Benyamin Netanyahu. E’ stato il premier israeliano a chiamare il pontefice, il giorno dopo che un proiettile dell’artiglieria dell’Idf ha centrato l’unica chiesa cattolica della Striscia, diventata rifugio degli sfollati, provocando tre morti e diversi feriti, incluso il parroco.

Questo ennesimo drammatico episodio del conflitto ha riportato lo Stato ebraico sotto la lente delle critiche per la durezza della sua offensiva contro Hamas. Netanyahu ha provato ad allentare la pressione, riferendo al Papa che il negoziato sulla tregua va avanti e l’intesa si starebbe avvicinando. Ma le due parti in causa hanno continuato a lanciarsi accuse reciproche di voler affossare l’intesa. Della telefonata tra Leone XIV e Netanyahu ha dato conto per prima la sala stampa vaticana. Il Papa, oltre a insistere sulla necessità di un cessate il fuoco, “ha espresso nuovamente preoccupazione per la drammatica situazione umanitaria della popolazione a Gaza, il cui prezzo straziante è pagato in modo particolare da bambini, anziani, persone malate”. E’ un messaggio netto, rivolto alle innumerevoli vittime civili, effetto collaterale del conflitto tra Israele e Hamas.

Vittime anche cristiane, come dimostra quanto accaduto alla chiesa della Sacra Famiglia, tanto che “il Santo Padre ha ribadito l’urgenza di proteggere i luoghi di culto e soprattutto i fedeli e tutte le persone in Palestina ed Israele”, ha fatto sapere il Vaticano. Un funzionario dell’ufficio di Netanyahu ha definito il colloquio, di oltre un’ora, “bonario e cordiale”, tanto che il premier avrebbe invitato il Papa in Israele. Riguardo a quanto accaduto nella chiesa, Netanyahu ha espresso il “rammarico” per quello che è stato definito “un tragico incidente”, provocato da “munizioni vaganti che hanno colpito accidentalmente la Sacra Famiglia di Gaza”. Leone XIV ha sentito anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa per “sincerarsi della situazione a Gaza e delle condizioni di Padre Romanelli e delle altre persone ferite” alla Sacra Famiglia, in quello che il pontefice ha definito un “ingiustificabile attacco”. Rinnovando l’impegno “a fare il possibile perché si fermi l’inutile strage di innocenti”.

Il colloquio è stato riportato dallo stesso Patriarca latino di Gerusalemme, che ha visitato la Striscia insieme al Patriarca greco-ortodosso Teofilo III, per incontrare i cristiani e portare aiuti alla popolazione. Una “iniziativa umanitaria” sostenuta anche dal governo italiano, ha spiegato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha chiesto alle autorità israeliane di “garantire in maniera totale la sicurezza dei due inviati”.

L’attacco alla chiesa di Gaza ha riunito ulteriormente la comunità internazionale nella richiesta di un stop alle ostilità. Riguardo ai negoziati Netanyahu ha informato il Papa degli “sforzi di Israele per garantire un accordo che sul rilascio degli ostaggi e un cessate il fuoco di 60 giorni”, sottolineando però che lo stesso impegno “non è stato ricambiato da Hamas”. Opposta la versione della fazione palestinese: la sua ala armata, le Brigate al-Qassam, ha accusato lo Stato ebraico di aver respinto una proposta che “prevedeva il rilascio di tutti gli ostaggi in una sola volta”. In questo apparente stallo le operazioni dell’Idf non accennano a rallentare. Al Jazeera ha parlato di circa 40 palestinesi uccisi dall’alba, incluse dieci persone nei pressi dei siti di distribuzione del cibo. Tra le vittime della giornata anche una bambina di 18 mesi. Ad ucciderla non sono state le bombe, ma una grave malnutrizione.

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Nuova stretta dell’Ue contro Mosca, ‘colpita al cuore’

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Un colpo durissimo al Cremlino, un passo che segna un prima e un dopo nel percorso delle sanzioni contro la Russia. L’Ue, dopo un lungo negoziato, ha dato il via libera al diciottesimo pacchetto di misure contro Mosca. Lo ha fatto di prima mattina, ad una manciata di minuti dall’inizio del Consiglio Affari Generali, ultima riunione formale dei ministri dei 27 prima della pausa estiva. Nella notte il veto del leader sovranista della Slovacchia, Robert Fico, è caduto. La Commissione ha trovato la quadra per accontentare Bratislava sui potenziali effetti negativi delle sanzioni, che si abbattono potentemente su tutto il settore energetico nelle mani di Vladimir Putin. “Abbiamo colpito al cuore la macchina da guerra russa”, ha sottolineato Ursula von der Leyen.

Il diciottesimo pacchetto è tra i più pesanti messi in campo dall’Ue e segna un importante novità: coinvolge in maniera diretta anche i Paesi terzi. Il price cap messo al petrolio russo, infatti, colpisce le casse del Cremlino rendendo meno vantaggioso, per Stati come India e Cina, importarlo per poi rivenderlo agli Occidentali. A dispetto del passato, quando l’input sulle misure energetiche è partito dal G7, questa volta è stata Bruxelles a fare strada al Club dei Grandi. Il tetto al prezzo del petrolio “è una decisione autonoma presa al di fuori della coalizione del price cap. Ci aspettiamo che i partner del G7 si allineino per rendere la misura più efficace”, hanno spiegato fonti Ue.

L’obiettivo è portare a bordo anche gli Stati Uniti, con i quali tra l’altro le misure sull’energia sono state pensate. Il primo passo è stato della Gran Bretagna, che ha immediatamente annunciato l’allineamento al price cap europeo assieme a sanzioni contro gli 007 russi “per attività maligne di minacce e interferenze recenti contro il Regno e i suoi alleati”. Un dossier, quest’ultimo, sul quale la Nato e l’Ue sono intervenuti con nettezza, promettendo che gli attacchi ibridi non resteranno senza risposta. Con il cosiddetto tetto mobile, il prezzo del petrolio russo passa da 60 a 47,6 dollari a barile, ma è soggetto comunque a un meccanismo dinamico: è fissato in linea generale un prezzo del 15% in meno rispetto a quello medio di mercato del greggio dello zar. La nuova stretta europea smonta inoltre uno dei simboli della dipendenza energetica dell’Ue da Mosca, il Nord Stream 1 e 2. Con il bando totale al transito di gas i due mega-condotti sono destinati presto a diventare archeologia industriale. Parallelamente l’Ue ha prorogato l’obbligo di stoccaggio del gas al 90% delle capacità – ma con potenziali eccezioni – anche per il prossimo inverno. Duro il colpo alle banche russe: il divieto di transazione con gli istituti europei diventa totale, mentre la blacklist si arricchisce di 22 nuove entità per un totale di 45.

Il nuovo pacchetto aggiunge oltre cento imbarcazioni alla lista nera costruita appositamente per la flotta ombra grazie alla quale Putin ha mantenuto attivo il commercio di energia. La mossa di Bruxelles ha fatto andare su tutte le furie il Cremlino. “Le sanzioni sono illegali e ricadranno contro i loro promotori”, ha il portavoce Dmitry Peskov, assicurando che la Russia ha ormai acquisito una “certa immunità” dalle misure europee. Il diciottesimo pacchetto, tuttavia, potrebbe essere davvero incisivo. Per ottenere la luce verde dei 27 la presidente della Commissione ha sottoscritto un impegno scritto con la Slovacchia. Innanzitutto Bruxelles ha assicurato un paracadute legale a Bratislava in caso di ricorsi – e conseguenti, salatissime penali – delle aziende energetiche russe per la risoluzione anticipata dei contratti. Le garanzie Ue, ha spiegato il premier Fico, concerno anche “il prezzo del gas e la sua quantità, oltre alle tariffe di trasporto, nonché l’uso di fondi europei per compensare prezzi del gas eventualmente troppo elevati”. Le sanzioni sono state accolte dal plauso di tutti, Italia compresa. “Manteniamo alta la pressione affinché Mosca si impegni seriamente al tavolo negoziale”, ha sottolineato il ministro per gli Affari Ue Tommaso Foti.

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