Il percorso accademico del dottor Saverio Stranges incomincia a Napoli, nella sua città. Alla Federico II si laurea in medicina e si specializza in sanità pubblica e medicina preventiva. Inizia il dottorato di ricerca alla Federico II e lo completa alla State University of New York in Buffalo, dove ha iniziato una brillante carriera accademica come Assistant Professor prima di trasferirsi nel Regno Unito. All’università di Warwick ci è rimasto nove anni, poi due in Lussemburgo come direttore scientifico del dipartimento di population health del principale istituto di ricerca del Paese. Quindi di nuovo dall’altra parte del mondo.
Saverio Stranges. Scienziato, ricercatore, professore ordinario e capo del dipartimento di epidemiologia e biostatistica alla Western University di London, in Ontario, Canada. Ha studiato e si è formato alla Federico II di Napoli, poi però la sua formazione, le sue ricerche, le sue idee le ha messe al servizio della comunità scientifica mondiale lavorando ovunque nel mondo
Stranges oggi è professore ordinario e capo del dipartimento di epidemiologia e biostatistica alla Western University di London, in Ontario, Canada. Nonostante il curriculum internazionale di tutto rispetto, il professor Stranges, con umiltà ed intelligenza, ci tiene a precisare che nessuno è depositario di verità assolute. La sua analisi della pandemia da Covid-19 è però molto lucida e ci aiuta a districarci fra i tantissimi dati, numeri ed informazioni che ci hanno sommerso in queste ultime settimane.
Professor Stranges, in un mondo sempre più globalizzato, era assai probabile che il virus originatosi in Cina avrebbe potuto diffondersi in altri Paesi. Crede che gli Stati occidentali abbiano sottovalutato questa possibilità?
Per chi fa ricerca nel nostro ambito, quello dell’epidemiologia e della sanità pubblica, era abbastanza ovvio che questo virus avrebbe potuto avere un impatto globale; del resto c’erano già state delle avvisaglie con altri virus che negli ultimi anni avevano attecchito in più Paesi. In società così interconnesse come le nostre, pensare che ciò che accade in una città della Cina non possa avere implicazioni in altre parti del mondo mi sembra una visione miope.
Che cosa differenzia il nuovo coronavirus da quello che provocò la SARS a cavallo fra il 2002 ed il 2003?
Sicuramente l’alta contagiosità, a dispetto di una mortalità inferiore a quella della SARS e della MERS. Nonostante la mortalità abbastanza bassa, la sua elevata contagiosità, al cospetto di una popolazione priva di alcuna immunità pregressa, gli ha consentito di mietere moltissime vittime fra i soggetti più fragili: anziani, persone con patologie croniche, immunodepressi. Ci troviamo dinanzi ad un’emergenza che non ha precedenti nell’ultimo secolo; per trovare qualcosa di analogo dobbiamo tornare indietro alla spagnola del 1918.
Il numero dei decessi e soprattutto quello dei positivi per Covid-19 sembrano essere ampiamente sottostimati. Come vanno letti i numeri del bollettino quotidiano fornito dalla Protezione Civile?
Partiamo dal tasso di letalità, in inglese case fatality rate. E’ dato dal numero dei decessi diviso per il numero dei positivi; in Italia al momento si attesta intorno al 13%. Questo valore è senza dubbio una sovrastima. Se siamo più o meno sicuri del totale dei morti da Covid, c’è grossa incertezza sul denominatore, il numero dei positivi. C’è chi ha ipotizzato che in Italia, così come in altri Paesi, ci sia in realtà un numero di positivi dieci volte maggiore di quello accertato ufficialmente. Se così fosse, la letalità passerebbe dal 13% all’1,3%. Per rendermi conto del reale impatto della pandemia non guardo tanto al numero dei positivi, ma a quello dei medici deceduti in Italia negli ultimi due mesi, ad oggi sono 131, uno sproposito. Un altro indicatore significativo è il numero dei decessi giornalieri; in Italia siamo passati dai 900 al giorno, ai 700, poi ai 600; ora siamo nel range dei 500: la speranza è che si continui a scendere nei prossimi giorni.
E per quel che riguarda i tamponi? Il numero di test effettuati può variare sensibilmente da un giorno all’altro…
Nessun Paese occidentale era preparato a questa pandemia; all’inizio abbiamo faticato a fare i tamponi, poi il numero di test effettuati è andato crescendo gradualmente. Ciò che ci aiuta a comprendere il trend epidemiologico non è tanto il numero assoluto dei casi positivi giornalieri, ma il rapporto fra questo e il numero totale di tamponi effettuati in quel giorno; se si osserva che il valore percentuale continua a scendere, come sta avvenendo in Italia negli ultimi giorni, significa che il lockdown sta funzionando.
Come spiega contagiosità e letalità del virus nella regione Lombardia, con valori ben al di sopra della media nazionale e di quella degli altri Paesi occidentali?
Se rimuovessimo il dato lombardo, la narrazione sulla pandemia sarebbe molto diversa. La Lombardia ha una letalità del 18%; il resto dell’Italia si attesta intorno al 9%, in Campania siamo al 7% circa. Bisogna dire però che le percentuali più basse nelle altre regioni sono legate anche al lockdown, che ha consentito di contenere le infezioni. Purtroppo in Italia i sistemi sanitari negli ultimi anni sono stati improntati alla gestione delle patologie croniche: andiamo abbastanza bene con malattie cardiovascolari, tumori, malattie neurodegenerative e così via. Un modello però carente sul piano della prevenzione epidemiologica e della medicina di territorio; la risposta all’epidemia in Lombardia è stata prettamente ospedaliera: la medicina di territorio, primo argine contro il virus, è stata completamente assente. Gli ospedali sono stati così sovraccaricati e e il numero di pazienti ha superato la capacità del sistema.
Quanto è concreto il rischio di una nuova ondata di contagi nei prossimi mesi? Come si immagina la fase due?
Sul fatto che la fase uno della pandemia sia conclusa avrei delle remore, anche se abbiamo indubbiamente registrato un calo nei contagi. Sappiamo che verosimilmente potrebbe esserci un nuovo picco epidemico probabilmente a cavallo fra autunno e inverno. La fase due allora dovrebbe essere quella di convivenza col virus, rispettando tutte le misure di distanziamento fisico. Nella fase due dovremo misurare la civiltà delle popolazioni coinvolte, affidarci alla responsabilità individuale delle persone. Qui sorge un interrogativo: Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti; queste società riusciranno ad avviare quella transizione sociale e culturale dei comportamenti individuali che consenta di minimizzare il rischio di nuovi focolai? Non ne sarei così sicuro.
Crede che il vaccino sia l’unica strada per ritornare alla tanto agognata normalità?
Sono tre i possibili sviluppi. Partiamo dal primo, quello più favorevole: il virus si potrebbe gradualmente attenuare in modo naturale; ma è un’ipotesi in cui non credo molto. Il secondo scenario è quello in cui noi riusciamo a mettere a punto una terapia farmacologica che risulti efficace sulla stragrande maggioranza dei pazienti. Sono in corso innumerevoli trials clinici che stanno testando una serie di molecole; con ogni probabilità nell’arco dei prossimi mesi si riusciranno ad individuare le migliori opzioni farmacologiche per contenere il numero di decessi da Covid-19. Terza opzione: il vaccino, la soluzione radicale che ripristinerebbe effettivamente la normalità. Sappiamo però che per poter testare un vaccino, dai modelli animali alle tre fasi di sperimentazione nell’umano, ci vogliono di solito dai dodici ai diciotto mesi. Bisogna dimostrare che funzioni sull’uomo e che sia sicuro. E poi produrne una quantità sufficiente per soddisfare l’esigenza della popolazione. Nelle stime più ottimistiche parliamo di un anno. Tempi tecnici difficili da accorciare.
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.