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Stop del Consiglio Europa a memorandum Libia. E Roma tratta

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La trattativa per modificare il Memorandum con la Libia e il possibile, temporaneo, rinnovo di quello in vigore. E su questo duplice binario che l’Italia si muove nel delicato dossier migranti che la vede coinvolta in un negoziato dall’esito ancora incerto con Tripoli. Il 2 febbraio, senza un intervento di uno dei governi che firmarono l’intesa il Memorandum sara’ automaticamente rinnovato. Ma l’Italia non sembra intenzionata a lasciare lo schema dell’accordo intatto e in queste ore accelera su possibili modifiche. Anche perche’ il pressing interno e internazionale e’ altissimo. Oggi il Consiglio d’Europa chiede all’Italia lo stop a tutte le intese con la Guardia costiera libica finche’ non saranno garantiti i diritti umani dei migranti. L’affondo della commissaria del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic arriva nelle ore piu’ calde della trattativa tra Italia e Libia. In mattinata il premier Giuseppe Conte convoca un vertice ad hoc con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e quello delle Infrastrutture Paola De Micheli. La trattativa arriva in un momento in cui i rapporti tra Roma e Tripoli non sono al suo massimo livello. Parallelamente, gli sbarchi di migranti dalla Libia crescono. E c’e’ chi, nella maggioranza di governo, non esclude che il fenomeno sia legato ad una sorta di pressione che il governo di Unita’ nazionale libico vuole esercitare su Roma. Di certo l’Italia punta a chiedere alle autorita’ libiche garanzie accertabili sul trattamento dei migranti ospitati nei centri della Tripolitania. Trattamento che, secondo diverse organizzazioni internazionali e Ong si macchia di gravi violazioni. “Ci sono numerose prove che queste violazioni continuano e la sicurezza nel Paese sta peggiorando a causa del conflitto armato”, spiega Mijatovic richiamando l’Italia ad esercitare, su Tripoli, un pressing affinche’ rifugiati e richiedenti asilo siano rilasciati dai centri di detenzione libici. E dalle Ong arriva una richiesta dello stesso tenore. Il Memorandum “e’ una vergogna che non si puo’ rinnovare”, e’ l’affondo di Medici Senza Frontiere. “L’Italia e’ ancora complice delle torture sui migranti”, incalza Amnesty International. La loro posizione, nell’ala piu’ a sinistra della maggioranza, trova unanime consenso. “L’ipocrisia rende il governo complice dei lager”, sottolinea il Dem Matteo Orfini mentre, secondo +Europa, il rinnovo del Memorandum “e’ il prezzo del ricatto” libico. Critiche arrivano anche dalle Sardine e, in queste ore, il comitato promotore della campagna #ioaccolgo ha dato il via a un mailbombing per chiedere a Di Maio e Lamorgese di ripensarci. In realta’, sotterraneamente, la trattativa con la Libia sembra procedere, seppur lentamente. E lunedi’, a Roma, potrebbe arrivare Fathi Beshaga, ministro dell’Interno libico e uomo forte del governo di Tripoli. La partita non e’ facile anche perche’ il dossier migranti si intreccia con il record di arrivi in Italia registrato in gennaio e con una situazione libica di caos permanente con continue, seppur non di elevata entita’, violazione della tregua siglata alla Conferenza di Berlino. Con un rischio, su tutti, sottolineato ancora in queste ore da una fonte vicina al dossier: che la Libia e lo scontro tra Fayez Serraj e Khalifa Haftar resti sostanzialmente nelle mani di Russia e Turchia laddove solo un percorso multilaterale puo’ garantire una soluzione duratura e non dannosa per l’Italia. E, non a caso, Recep Erdogan continua nel suo pressing e alle accuse di Bengasi e dei suoi alleati esterni di portare armi a Tripoli risponde per le picche: “Quelli che in Libia vanno a braccetto con un barone della guerra non possono criticare la Turchia”, tuona il presidente turco.

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Parigi, al via il processo ai “nonnetti rapinatori” che derubarono Kim Kardashian

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È iniziato ieri, davanti al tribunale di Parigi, il processo contro i dieci imputati – nove uomini e una donna – accusati della clamorosa rapina ai danni di Kim Kardashian, avvenuta nell’autunno del 2016. Il principale indiziato, Aomar, 68 anni, si è presentato in aula con passo incerto e bastone alla mano, fedele al suo profilo di “papy braqueur”, come i media francesi hanno soprannominato la banda: i nonnetti rapinatori.

I protagonisti della rapina

Aomar, nato nel 1956 in Algeria, è un veterano del crimine, autore dei primi furti già a 14 anni. A presentargli i complici era stata la compagna Christiane Glotin, detta Cathy, oggi 78enne, che gli fece incontrare “Pierrot il grosso”, 80 anni, altra vecchia conoscenza del mondo criminale francese.

Tra gli altri protagonisti c’è Yunice Abbas, 71 anni, che tentò una fuga rocambolesca in bicicletta portando con sé una borsa che credeva piena di armi, ma che invece conteneva gioielli e perfino il cellulare di Kim Kardashian, da cui avrebbe ricevuto una chiamata della cantante Tracy Chapman.

Spicca anche Didier “occhi blu” Dubreucq, 69 anni, con 23 anni di prigione alle spalle, che avrebbe partecipato direttamente all’irruzione nella suite della star americana.

La notte del colpo milionario

La rapina avvenne la notte del 3 ottobre 2016, in una suite di lusso nascosta in rue Tronchet, vicino alla Madeleine. Kim Kardashian, sola nella stanza, fu sorpresa da due uomini travestiti da poliziotti. Le strapparono il cellulare e, sotto minaccia, la costrinsero a consegnare l’anello di fidanzamento, un diamante da quasi 19 carati, regalo del marito Kanye West, valutato circa quattro milioni di dollari. La star fu legata, imbavagliata e rinchiusa nel bagno, mentre i rapinatori fuggivano con il bottino, comprendente anche contanti, gioielli e orologi di lusso.

La banda fu individuata grazie alle tracce di Dna lasciate nella suite.

Una rapina da fumetto

Sull’incredibile vicenda sono già stati pubblicati fumetti e libri, alcuni scritti dagli stessi imputati, che hanno contribuito ad alimentare il mito dell’«impresa dei nonnetti». Kim Kardashian è attesa in aula per testimoniare il prossimo 13 maggio.

 

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Elezioni in Canada, liberali di Carney vincono legislative e preparano la guerra a Trump

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Secondo le proiezioni dei media locali, è il Partito liberale di Mark Carney a vincere le elezioni legislative canadesi. I risultati preliminari del voto non permettono però di stabilire se il premier guiderà un governo di maggioranza o di minoranza.

Il primo ministro si avvierebbe quindi a portare i Liberali verso un nuovo mandato, dopo aver convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rende pronto ad affrontare le mire del presidente americano Donald Trump. L’emittente pubblica Cbc e Ctv News hanno entrambe previsto che il Partito liberale formerà il prossimo governo canadese. Solo pochi mesi fa la strada per il ritorno al potere dei conservatori guidati da Pierre Poilievre sembrava spianata, dopo dieci anni sotto la guida di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi e minacce di annessione, hanno cambiato la situazione.

Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

A Ottawa, dove i liberali si sono radunati per la notte delle elezioni, l’annuncio di questi primi risultati ha provocato un applauso e grida di entusiasmo. “Sono felicissimo, è ancora presto ma sono fiducioso che riusciremo ad avere la maggioranza”, David Lametti, ex ministro della Giustizia. La guerra commerciale di Trump e le minacce di annettere il Canada, rinnovate in un post sui social media il giorno delle elezioni, hanno indignato i canadesi e hanno reso i rapporti con gli Stati Uniti un tema chiave della campagna elettorale.

Carney, che non aveva mai ricoperto una carica elettiva e aveva sostituito Trudeau come premier solo il mese scorso, ha basato la sua campagna su un messaggio anti-Trump. In precedenza ha ricoperto la carica di governatore della banca centrale sia nel Regno Unito che in Canada e ha convinto gli elettori che la sua esperienza finanziaria globale lo rende pronto a guidare il Paese attraverso una guerra commerciale. Ha promesso di espandere le relazioni commerciali con l’estero per ridurre la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti.

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Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

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Ha guidato due banche centrali ma non era mai stato eletto. Il primo ministro canadese Mark Carney, che ha vinto le elezioni generali di lunedi’, e’ abituato a navigare nella tempesta. Con la vittoria del suo partito alle elezioni legislative, dovra’ rapidamente mettersi alla prova contro Donald Trump. Una sfida che dice di poter vincere: “Sono piu’ utile nei momenti di crisi.

Non sono molto bravo in tempo di pace”, ha detto di recente, in tono divertito, a un piccolo pubblico in un bar dell’Ontario. In poche settimane, questo sessantenne novizio della politica e’ riuscito a convincere i canadesi che la sua competenza in materia economica e finanziaria lo rende l’uomo giusto per guidare il paese immerso in una crisi senza precedenti. In effetti, la recessione minaccia questa nazione del G7, la nona economia piu’ grande del mondo, dopo l’imposizione dei dazi doganali da parte di Trump, che continua a ripetere che il destino del Canada e’ quello di diventare uno stato americano.

Nato a Fort Smith, nell’estremo nord, ma cresciuto a Edmonton, in questo West canadese piuttosto rurale e conservatore, Mark Carney e’ padre di quattro figlie e appassionato di hockey. Ha studiato ad Harvard e Oxford, prima di fare fortuna come banchiere d’investimento presso Goldman Sachs, a New York, Londra, Tokyo e Toronto. Nel 2008, nel bel mezzo della crisi finanziaria globale, e’ stato nominato governatore della Banca del Canada dal primo ministro conservatore Stephen Harper. Cinque anni dopo, e’ stato scelto dal primo ministro britannico David Cameron per dirigere la Banca d’Inghilterra, diventando il primo straniero a dirigere l’istituto. Poco dopo, si trovera’ di fronte alle turbolenze causate dal voto sulla Brexit. Un compito svolto con “convinzione, rigore e intelligenza”, secondo l’allora Cancelliere dello Scacchiere britannico, Sajid Javid.

Da anni circolavano voci sul suo ingresso in politica. Ma e’ stato solo all’inizio di gennaio, dopo le dimissioni di Justin Trudeau, di cui era stato consigliere economico, che ha deciso di buttarsi nell’arena. Dopo aver conquistato il Partito Liberale all’inizio di marzo, e’ diventato primo ministro e ha indetto le elezioni in seguito, dicendo che aveva bisogno di un “mandato forte” per affrontare le minacce di Trump, che ha cercato di “spezzare” il Canada.

Una vera e propria scommessa per questo ex portiere di hockey che non aveva mai fatto campagna elettorale e che ha preso le redini di un partito al suo punto piu’ basso nei sondaggi, appesantito dall’impopolarita’ di Justin Trudeau alla fine del suo mandato. E molti analisti hanno messo in dubbio la sua capacita’ di ribaltare la situazione su molti canadesi, mentre molti canadesi hanno incolpato i liberali per l’alta inflazione e la crisi immobiliare nel paese. Poco carismatico, in contrasto con l’immagine sgargiante di Justin Trudeau nei suoi primi giorni, sembra che siano proprio la sua serieta’ e il suo curriculum ad aver finalmente convinto la maggioranza dei canadesi.

“E’ un po’ un tecnocrate noioso, che soppesa ogni parola che dice”, dice Daniel Be’land della McGill University di Montreal. Ma anche “uno specialista in politiche pubbliche che padroneggia molto bene i suoi dossier”. “Questo profilo e’ rassicurante e soddisfa le aspettative dei canadesi per gestire questa crisi”, aggiunge Genevie’ve Tellier. Il suo principale avversario durante la campagna, il conservatore Pierre Poilievre, lo ha descritto come un membro dell'”e’lite che non capisce cosa sta passando la gente comune”, ha detto Lori Turnbull, professoressa alla Dalhousie University. Resta un argomento che sembra fargli perdere la flemma: la questione dei suoi beni. Secondo Bloomberg, a dicembre aveva stock option per un valore di diversi milioni di dollari. E i suoi rari scambi di tensione con i giornalisti durante la campagna elettorale riguardavano questa fortuna personale.

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