Collegati con noi

Esteri

Primo via libera del Senato Usa agli aiuti per l’Ucraina

Pubblicato

del

Primo via libera al Senato Usa per il pacchetto da 95 miliardi di fondi per Ucraina, Israele e Taiwan: è il piano B dopo la bocciatura del disegno di legge bipartisan da 120 miliardi che legava gli aiuti stranieri ad una radicale riforma sull’immigrazione e ad una stretta al confine col Messico. Una mozione procedurale è passata con 62 sì e 28 no, superando il quorum dei 60 voti necessari per l’approvazione. Per Kiev sarebbero 61 miliardi, per Israele 14, mentre 5 sarebbero destinati ai partner dell’Indo-Pacifico, compreso Taiwan. Resta l’incertezza sull’esito finale, accresciuta da quanto potrà accadere alla Camera, ma se il provvedimento andasse in porto sarebbe una sconfitta per Donald Trump, che ha chiesto ai repubblicani di non fare “regali” ai dem prima delle elezioni.

Sarebbe invece una vittoria per Joe Biden, che ora vede la strada per la Casa Bianca libera dalla spada di Damocle dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Hur sulle carte classificate trovate nel garage della sua casa e in un ufficio di un think tank: l’indagine si è conclusa senza apparenti accuse, secondo Politico. Il tycoon intanto sembra poter superare il primo ostacolo alla Corte suprema nella sua corsa alla Casa Bianca. “Gli argomenti dei miei legali sono stati ricevuti bene”, ha commentato da Mar-a-Lago davanti ad una folla di giornalisti, rilanciando contro i dem le accuse di “interferenza elettorale”, vantando di essere “avanti in tutti i sondaggi” e promettendo “una grande vittoria” anche se Nikki Haley non si ritirerà.

I nove giudici, e non solo quelli conservatori, sono apparsi scettici verso la decisione della corte suprema del Colorado di escluderlo dal voto statale per il suo ruolo nell’assalto al Capitol in base al 14/mo emendamento della costituzione, che vieta le cariche pubbliche ai funzionari coinvolti in insurrezioni o rivolte contro la costituzione su cui hanno giurato. Dai loro commenti e dalle loro domande, nell’udienza in cui le parti hanno illustrato le loro tesi, pare siano orientati a cercare una via d’uscita e lasciare il tycoon nelle urne.

Sembra più difficile invece per The Donald vedersi riconosciuta l’immunità presidenziale, negatagli anche in appello, nel processo per i suoi tentativi di ribaltare il voto del 2020, culminati nell’assalto al Congresso. Entrambi i casi sono senza precedenti e daranno nuovamente alla corte suprema l’ultima parola sulle elezioni presidenziali, come successe nel 2000 nella sfida Bush-Gore. La storica decisione sul 14/emendamento deve arrivare in tempo per il Super Tuesday del 5 marzo, quando il Colorado va al voto insieme ad altri 15 Stati.

La sentenza farà da precedente anche per le cause analoghe intentate in una ventina di stati Usa. Il tycoon può contare su una maggioranza di sei giudici conservatori su nove (di cui tre nominati da lui). Uno di loro, Clarence Thomas, si è rifiutato di ricusarsi nonostante le richieste dem per il ruolo di sua moglie Ginni, attivista pro Trump coinvolta nel tentativo di stravolgere l’esito del voto del 2020. Ma quasi tutti i giudici hanno espresso forti dubbi e scetticismo sull’applicabilità del 14/mo emendamento, che consentirebbe ad un singolo stato di prendere decisioni con conseguenze su un’elezione presidenziale nazionale. E col rischio di un effetto domino in altri stati, da ambo i partiti.

Il presidente John Roberts ha detto addirittura che la tesi del Colorado “fa a pugni” con lo spirito di limitare il potere statale del 14/mo emendamento, ratificato dopo la guerra civile americana per impedire che i sudisti secessionisti insorti contro il governo federale potessero tornare al potere. La difesa di Trump ha sostenuto che il 14/mo emendamento può essere attuato per via legislativa solo dal Congresso e che comunque esso non si applicherebbe al tycoon perché il presidente non è un “funzionario” e perché quella del 6 gennaio fu “una sommossa vergognosa, criminale e violenta ma non un’insurrezione”. Un’ammissione che non deve essere piaciuta a Trump, se poco dopo lo ha corretto affermando che la protesta al Capitol fu “pacifica e patriottica”.

Advertisement
Continua a leggere

Esteri

Harry torna ad attaccare la monarchia: gelo totale con re Carlo dopo l’intervista alla BBC

Pubblicato

del

harry e meghan

«Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», scriveva Tolstoj. E quella dei Windsor continua a dimostrarlo. Dopo l’intervista rilasciata dal principe Harry alla BBC, i rapporti con re Carlo sono ai minimi storici. Secondo fonti vicine a Buckingham Palace, le parole del duca di Sussex avrebbero ulteriormente inasprito le tensioni familiari, già esplose negli ultimi cinque anni.

LE PAROLE CHE HANNO FATTO INFURIARE BUCKINGHAM PALACE

Nel corso dell’intervista, Harry ha toccato temi delicati, parlando anche della malattia del padre. Un passaggio sul “tempo rimasto” a Carlo è stato giudicato da molti sudditi di pessimo gusto. «Non è il modo per ottenere una riconciliazione», ha commentato un residente di Windsor. In tanti ricordano l’esempio della regina Elisabetta, che mai avrebbe approvato un simile approccio mediatico.

Harry si è detto deluso per la revoca della scorta a lui, Meghan e ai loro figli. Una decisione che ritiene legata alla volontà della Corona di punire la loro scelta di lasciare il Regno Unito. E ha anche accennato velatamente alla morte di sua madre Diana, suggerendo che «c’è chi vuole che la storia si ripeta».

LO STRAPPO CON IL PADRE E LA CORTE

A peggiorare la situazione, la sconfitta di Harry alla Corte d’Appello di Londra, che ha confermato la legittimità della revoca della protezione armata. Il principe sostiene di essere vittima di una trappola governativa, e ha annunciato che scriverà alla ministra degli Interni Yvette Cooper e, se necessario, anche al premier Keir Starmer.

Il Palazzo ha reagito in modo inusuale con un comunicato ufficiale che, senza citare direttamente Harry, ha ricordato che la questione sicurezza è stata più volte valutata dai tribunali, con la stessa conclusione: nessuna protezione speciale per il principe.

IL CONGELAMENTO DEI RAPPORTI FAMILIARI

«Mio padre non mi parla più», ha ammesso Harry. «Ci sono membri della famiglia che non mi perdoneranno mai». Un riferimento diretto all’autobiografia Il minore e ad altre tensioni mai risolte. Harry ha anche detto di conoscere i nomi dei responsabili delle decisioni più dolorose.

Da parte della famiglia reale, la fiducia è ormai compromessa. Le parole del principe avrebbero convinto Buckingham Palace che non è più possibile alcun dialogo riservato. «Le sue dichiarazioni dimostrano che non ci si può fidare di lui», trapela da fonti vicine alla Corona. Il loro ultimo incontro risale al febbraio 2024, quando Harry volò a Londra per vedere il padre dopo l’annuncio della sua malattia. Ma quel fragile momento di riavvicinamento si è dissolto.

UN FUTURO SENZA RICONCILIAZIONE?

Harry ha ammesso di non credere più che potrà portare i suoi figli in Gran Bretagna, farli conoscere al nonno e legarli a quel Paese che pure fa parte del loro patrimonio culturale. A quanto pare, la volontà di normalizzazione a corte è oggi inesistente. E il principe resta, ancora una volta, più lontano che mai dalla sua famiglia.

Continua a leggere

Esteri

A Costanza tra Nato e ultradestra: la Romania divisa tra difesa occidentale e sovranismo populista

Pubblicato

del

Alle porte di Costanza, in Romania, le ruspe non si fermano mai. Anche di sabato, i cantieri sono in moto per ampliare la base aerea di Kogalniceanu, destinata a diventare il più grande presidio Nato in Europa. Il governo di Bucarest ha investito 2,5 miliardi di euro per rafforzare il fianco Est dell’Unione europea in chiave anti-Mosca. I cittadini, almeno per ora, sembrano approvare: «Ci sentiamo più protetti» dice Puio, ingegnere in pensione. «Porta lavoro», aggiunge George, saldatore.

LO STRAPPO ELETTORALE E L’OMBRA DELLA RUSSIA

Ma dietro questo consenso apparente, serpeggia la rabbia per la politica interna. Il primo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi a novembre, è stato annullato dopo una sentenza shock della Corte costituzionale: accuse di ingerenze russe e irregolarità legate al candidato nazionalista Calin Georgescu (nella foto). Scomparso dalla scena pubblica, Georgescu resta un idolo dell’ultradestra romena. Anche se esplicitamente contrario alla Nato, in molti continuano a negarlo. «Sono fake news», assicura la professoressa Vasile Mandita.

IL VOTO DELL’ULTRADESTRA E LA SPINTA POPULISTA

Dalla regione della Dobrugia, Georgescu ha ottenuto i voti più alti. Ora, l’Aur, partito sovranista guidato da George Simion, punta a incassare quell’eredità politica. Simion ha promesso – con ambiguità – che in caso di vittoria nominerà Georgescu premier. E i suoi elettori lo prendono alla lettera: «Farà tutto quello che vuole Georgescu», ripetono. Simion è oggi il favorito, supportato anche da figure religiose controverse come l’arcivescovo Teodosio, noto per le sue simpatie filorusse e legami con i movimenti fascisti.

IL RITORNO DI PONTA E LA SFIDA A DUE TRA SOVRANISTI

In questo scenario s’inserisce anche Victor Ponta, ex premier e ora indipendente populista. A Isaccea, cittadina romena separata dall’Ucraina solo dal Danubio, dove sono caduti droni russi, la guerra non ha suscitato particolare empatia verso i profughi ucraini. «Lo Stato li aiutava più di noi», lamentano. E in molti ricordano le riforme economiche di Ponta, tra cui il taglio dell’Iva dal 24 al 19%.

Ora Ponta, definito un contorsionista della politica, si propone come nazionalista moderato ma competente, in contrapposizione a Simion. Se riuscirà a passare al ballottaggio, si prospetta una sfida tra due sovranisti, con implicazioni pericolose per l’equilibrio politico dell’Unione europea.

L’EUROPA GUARDA CON PREOCCUPAZIONE

Non è detto, però, che la sfida finale sarà tutta interna al fronte populista. A contendersi l’accesso al secondo turno ci sono anche due candidati europeisti: Nicusor Dan, sindaco di Bucarest, e Crin Antonescu, sostenuto dalla coalizione di governo. Ma la Romania sembra sempre più divisa tra lo slancio verso l’Occidente e le sirene del nazionalismo, tra la sicurezza assicurata dalla Nato e la retorica della Romania first.

Continua a leggere

Esteri

Donald Trump si immagina Papa: provocazione, meme e lotte di potere nella Chiesa americana

Pubblicato

del

Un’immagine generata dall’intelligenza artificiale ritrae Donald Trump in abiti papali: tiara dorata, croce pettorale e sguardo trionfale. Il fotomontaggio non è rimasto confinato nei social più irriverenti, ma è stato rilanciato dallo stesso presidente degli Stati Uniti sul sito ufficiale della Casa Bianca. Un gesto che ha suscitato sconcerto e ironia, alimentando ancora una volta il culto dell’immagine di un leader che gioca con l’iconografia del potere assoluto, tra politica e religione.

In questo contesto, il senatore Lindsey Graham, da sempre fedele a Trump, si è spinto a dichiarare che non sarebbe da escludere l’ipotesi di un “Pontefice Donald I”, ipotizzando che concentrare in una sola figura la guida degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica sarebbe «vantaggioso per il mondo». Uno scherzo di cattivo gusto? Probabile. Ma il messaggio è chiaro: Trump vuole restare al centro della scena, anche a costo di ridicolizzare simboli millenari.

Le ambizioni americane nel prossimo Conclave

Sebbene il gesto resti simbolico e provocatorio, rilancia l’attenzione sul peso crescente della Chiesa americana nel futuro del Vaticano. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo blocco cardinalizio più numeroso dopo l’Italia, e i loro vescovi sono divisi tra una maggioranza conservatrice — guidata da figure come i cardinali Raymond Burke e Timothy Dolan — e una minoranza progressista rappresentata da Blase Cupich e Joseph Tobin.

Le tensioni si estendono anche ai nomi potenzialmente papabili: Kevin Farrell e Robert Prevost, pur considerati “mediatori”, portano con sé il fardello degli scandali e delle mancate vigilanze, specialmente nei casi di abusi. Dolan stesso, uomo vicino a Trump, appare ormai più come kingmaker che come candidato al soglio pontificio.

La Chiesa americana e lo spettro dello scisma conservatore

Il peso crescente dei conservatori americani nella Chiesa cattolica è legato anche a un progetto culturale e ideologico preciso: frenare o ribaltare le riforme di Papa Francesco, considerate troppo aperte al relativismo. Dalla liturgia in latino al rigido dogmatismo su sesso, matrimonio e sacerdozio, il cattolicesimo tradizionalista americano si fa sentire, sostenuto anche economicamente da think tank e fondazioni conservatrici.

Il momento simbolico di questa frattura fu il 26 agosto 2018, quando Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, accusò Francesco di aver coperto abusi sessuali del cardinale McCarrick. Da lì, un tentativo di “golpe ecclesiastico” sostenuto anche da figure chiave del trumpismo come Steve Bannon, che continua a definire il Papa un “marxista illegittimo”.

Il peso politico di Vance e la reazione dei vescovi

A completare il quadro di tensione c’è JD Vance, vicepresidente Usa, cattolico convertito e oppositore dichiarato di Bergoglio. Francesco lo aveva inizialmente escluso da un incontro per ragioni di salute, poi ricevuto comunque — un gesto che ha preceduto di poche ore la morte del Pontefice. Vance si è dichiarato parte della “Chiesa della Resistenza”, la corrente ideologica interna alla Chiesa che si ispira alle posizioni di Viganò.

Le sue dichiarazioni, soprattutto quelle secondo cui i vescovi si opporrebbero alle deportazioni di massa solo per interesse economico, sono state definite “malvagie e volgari” proprio dal cardinale Dolan, da sempre vicino a Trump.

La Santa Sede osserva, mentre Trump gioca con il sacro

Il Vaticano non ha commentato ufficialmente l’ultima provocazione di Trump, ma è evidente che il clima tra Santa Sede e Washington resta teso. L’immagine papale del presidente è una metafora e una sfida, un gesto che, sotto la maschera del meme, rivela l’aspirazione profonda a un dominio culturale oltre che politico.

E mentre Trump indossa digitalmente l’abito del Papa, la Chiesa americana si avvicina al prossimo Conclave più spaccata che mai, pronta a pesare più delle altre nella scelta del successore di Pietro — ma anche a rischiare di spingere ancora più in là la frattura ecclesiale tra Nord e Sud del mondo, tra apertura e conservazione, tra sinodo e scisma.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto